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Maria Antonietta Torriani Torelli-Viollier alias Marchesa Colombi
Senz'amore

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XIV.

 

Più volte, durante la sua convalescenza, Vincenzo tornò su quel discorso che riesciva penosissimo al suo compagno. Ma c'era tale giubilo nel cuore del malato, tanto ardore di giovanili speranze, che il pensiero della felicità che dava, confortava in parte Vicenzino di quella che perdeva. Ogni giorno i due giovani avevano nuove del signor Dogliani, il quale benediva il nipote come il salvatore della sua famiglia. Era sempre l'Elena che scriveva, e lei pure aveva pel cugino parole di fervente gratitudine. Si sentiva che era commossa; c'erano delle lagrime nelle sue lettere, e Vicenzino, nel leggerle, pensava che il suo sacrificio era stato compreso in tutta la sua grandezza, e che un altro cuore soffriva con lui dello stesso dolore. E questo pensiero gli dava coraggio.

Appena l'ammalato fu in grado di muoversi, i due giovani tornarono insieme a Santhià; e Vicenzino trovò su tutti i volti ed in tutti i cuori le traccie della sua bella azione. Nella casa, benchè impoverita per l'infermità del padre, regnava il contento per il fratello ricuperato e felice; e la fronte grave del vecchio infermo, esprimeva la calma e la gioia di vedere assicurato l'avvenire de' suoi figli. Egli stese al nipote la sola mano che poteva muovere, e gli disse piangendo:

- Dio ti benedica! figlio mio, Dio ti benedica!

Ma le fanciulle non saltarono al collo del loro giovane parente; non lo baciarono come quando era tornato dal campo. Gli parlarono con affetto e con una gratitudine rispettosa; ed egli fin d'allora sentì d'essersi fatto prete.

Rimase pochi giorni in famiglia, poi, col cuore addolorato, ma coll'anima forte, partì pel Seminario, mentre Vincenzo, seguendo lo slancio del suo carattere impetuoso ed avido d'emozioni, tornava ad arruolarsi, ma questa volta nella milizia regolare, per fare la carriera del soldato.

Per un anno Vicenzino studiò assiduamente, e, nelle aride discipline della teologia morale e dogmatica e del diritto canonico, cercò un contrasto alle calde aspirazioni ed ai rimpianti del suo giovane cuore. Ma a vent'anni passati, quella vita di reclusione, quell'esistenza in comune con una frotta di giovani cresciuti in convitto, che avevano tutte le ingenuità e tutte le malizie dei collegiali, che si compiacevano di giuochi puerili, di pettegolezzi insulsi, era, per la natura gentile di Vicenzino, qualche cosa di irritante, che eccitava più che mai i suoi nervi già tesi. Quelle risate goffe, quei discorsi scuciti, offendevano il sentimento d'abnegazione sublime e grave che gli riempiva il cuore. E la fede cieca ed il fervore religioso, vero o apparente, che lo circondavano, non trovavano eco in lui. Sentiva di non aver intorno nessuno che potesse comprenderlo, e si racchiudeva tristamente in stesso.

La notte poi, quando tutti dormivano in quelle lunghe file di letti bianchi che parevano tombe, ed egli solo vegliava alla luce scialba d'una lanterna, che proiettava negli angoli delle ombre paurose, sotto il grande Cristo scarno che biancheggiava in alto colle braccia lungamente stese sul fondo nero della croce, gli pareva di trovarsi vivo in un cimitero, lo coglieva un senso d'abbandono e di morte, sentiva che non era più di questo mondo. E tuttavia questo mondo esercitava il suo fascino potente sulla sua fantasia; ed il povero giovane subiva lotte crudeli, tentazioni di ribellione, che lo impaurivano. E si metteva più accanito allo studio, per consacrare al più presto con un voto solenne, quella risoluzione che la foga della gioventù faceva ancora vacillare.

Appena ebbe compito il ventunesimo anno, prese il suddiaconato, e fu irrevocabilmente prete.

Allora, non avendo più nulla a temere dalla propria debolezza, si sentì più calmo. L'idea alta del dovere lo rassicurava, e potè dedicarsi con tutta la sua intelligenza allo studio. A 22 anni e 6 mesi, ottenne di ricevere il presbiterato, e poco dopo lasciò il Seminario, ed in capo a pochi mesi, ebbe la fortuna d'essere collocato come viceparroco nella parrocchia stessa della famiglia Dogliani, dove il parroco già avanti negli anni, aveva bisogno un aiuto, per la parte più faticosa del suo ministero.

Ed allora cominciò per Vicenzino la sua triste vita senza amore. La sola passione che gli era concessa, era quella del bene; ed egli metteva tutto il suo cuore nell'assistere i moribondi, nel soccorrere i poveri, nel sollevare gli spiriti abbattuti con parole di conforto e di fede. Ma non era un cattolico fervente, aveva idee liberali, e questo attenuava di molto agli occhi de' suoi superiori il merito del suo zelo. Egli però se ne consolava col pensiero di far vivere la sua famiglia adottiva col magro frutto delle sue prime fatiche, e colla rendita del suo beneficio. Ma anche questa nobile gioia doveva essergli amareggiata e resa difficile. Alla fine del 1870 la nuova legge sui beni ecclesiastici minacciò di sopprimergli il benefizio; e fu soltanto dopo una lite lunga e dispendiosa per rivendicarlo, che potè riaverlo, diminuito d'un terzo.

Dovette cercare di dar lezioni in paese, farsi ripetitore presso vari studenti del liceo, per sovvenire ai bisogni della casa e del vecchio infermo. Tra i suoi doveri ecclesiastici e quelli d'insegnante, faceva una vita laboriosa, occupato tutte le ore del giorno, e spesso strappato al sonno la notte, per accorrere al letto di qualche ammalato.

Quelle fatiche, nelle quali si esaurivano le sue forze giovanili, lo lasciavano prostrato, e la sua mente stanca non aspirava che al breve riposo che le era concesso. Così viveva relativamente tranquillo, troppo occupato per pensare ad altre eccitazioni, ad altre tempeste. Soltanto la presenza dell'Elena qualche volta lo turbava. Uno sguardo, una parola amichevole, bastavano a richiamargli al pensiero le dolci visioni d'avvenire ch'egli aveva vagheggiate altre volte, ed a gonfiargli il cuore di amarezza e di rimpianti. Ma, troppo onesto per abbandonarsi a quelle fantasie tentatrici, egli si consolava de' suoi sogni svaniti, pensando che una volta, nel segreto del suo cuore quella bella fanciulla bionda lo aveva amato. E quel vago ed innocente ricordo era la sola gioia della sua vita.

A vent'anni la Laura venne fidanzata ad un giovane napoletano impiegato al telegrafo. Ci furono due mesi di agitazione insolita in casa. Gli apparrecchi pel corredo, i doni nuziali, i disegni d'avvenire, ed un po' il rincrescimento della separazione, perchè lo sposo doveva essere traslocato a Milano, occupavano straordinariamente le fanciulle. Poi c'erano le visite dello sposo, le sue tenerezze, i rossori espressivi della giovinetta, i loro colloqui a mezza voce. Vicenzino faceva la parte di vecchio parente; provvedeva a tutto, assisteva a quelle visite; pensava alle carte, alla richiesta al municipio, alle pubblicazioni, a tutto. Ma in quei giorni era triste e nervoso, e la sua alta missione di carità non bastava a consolarlo.

La vigilia delle nozze, mentre gli sposi, colla mano nella mano, erano assorti in un lungo silenzio d'amore, la Maria che a diciotto anni aveva ancora tutta la spensieratezza d'una fanciulla viziata, disse all'Elena:

- Perchè la Laura, che è più giovane, si marita prima di te?

- Io non penso a maritarmi, rispose l'Elena. E c'era un accento di malinconia così profonda in quelle semplici parole, che Vicenzino si sentì tutto turbato. Essa lo aveva amato, aveva compreso il suo sacrificio, ed accettandolo pel bene de' suoi, s'era sacrificata con lui. Quando uscì per ritirarsi, nel silenzio della strada buia, il giovane prete alzò le braccia al cielo e ringraziò Iddio per quella gioia.

Vincenzo doveva arrivare nella notte pel matrimonio della sorella, e quando vide l'amico la mattina seguente, gli trovò un aspetto così soavemente calmo, così sereno, che non ebbe neppure l'ombra d'un sospetto del sacrificio che gli aveva fatto, ed abbraciandolo allegramente gli disse:

- Mio bell'arcangelo, eri proprio nato per essere prete.

L'anno seguente si maritò la Maria, ed anche lei se ne andò fuori di paese. La casa divenne silenziosa e mesta, troppo vasta, per quel vecchio infermo e quella fanciulla. Vicenzino ci tornava ogni sera: il vecchio steso in una poltrona leggicchiava un giornale o sonnecchiava. L'Elena lavorava al suo tavolino, ed il cugino sedeva dall'altro lato, in faccia a lei, come una volta. Parlavano della salute del babbo, delle sorelle lontane, di Vincenzo che stava per passare ufficiale; erano tanti affetti comuni, tanti vincoli che li legavano. Vicenzino narrava de' suoi poveri, de' suoi malati, che l'Elena prendeva molto a cuore. La vita omai pareva facile e dolce al giovane prete, confortata da quella pura affezione fraterna, e dalla calda amicizia di Vincenzo. Omai le prove erano finite, le tempeste erano cessate; qualche anno ancora, poi Vicenzino prenderebbe il posto del vecchio parroco che pensava a ritirarsi, accoglierebbe i suoi due parenti nella casa parrocchiale, e vivrebbero assolutamente in famiglia. E quando, per disgrazia, dovesse mancare il sig. Dogliani, sarebbe passato del tempo, del tempo assai. I due cugini non sarebbero più giovani, avrebbero presa l'abitudine di vivere uniti, e potrebbero continuare a vivere così, come buoni fratelli, senza pericolo. E chissà, forse allora anche Vincenzo, stanco della vita militare, avrebbe ascoltato il consiglio del suo cuore affettuoso e riconoscente, sarebbe venuto a vivere presso il suo salvatore, con una sposa e dei bambini, riscaldando il suo triste focolare da prete colla vista di quella felicità di cui andava debitore a lui. Gli pareva di vederle, intorno alla sua mensa, le dolci testine bionde, e di udire la voce di Vincenzo a dirgli:

- La gioia d'essere sposo e padre sei tu che me l'hai data.... Quella gioia Vicenzino se l'era strappata dal cuore per cederla al cugino; ma era contento del suo sacrificio, pensando che l'Elena l'aveva compreso e ne aveva accettata la sua parte, che aveva lei pure rinunciato ad esser sposa e madre, per esser fedele a quel primo raggio d'amore che le era balenato davanti un momento; e che il pensiero di lei tornava col suo, alla dolcezza di quel ricordo.

 

 

 




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