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Maria Antonietta Torriani Torelli-Viollier alias Marchesa Colombi
Senz'amore

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XII.

 

Vicenzino stette un pezzo accanto al letto, contemplando quel bel volto di una pallidezza marmorea, quegli occhi profondamente infossati, curvandosi coll'orecchio sulle labbra di Vincenzo per udirne il respiro lieve come un soffio. Oh! era così felice di poter udire quel respiro! Era stato lui che glielo aveva dato. Gli pareva che Vincenzo gli appartenesse come cosa sua, dopo che, in un modo qualunque, aveva contribuito a richiamarlo alla vita. Provava un sentimento grave di responsabilità, come se omai toccasse a lui di render conto al mondo della felicità di quell'esistenza che aveva voluto ad ogni costo strappare alla morte. La sua amicizia si riscaldava d'una tenerezza protettrice, paterna. Sentiva un gran desiderio di togliere all'immobilità quella creatura che aveva un po' messa al mondo lui, di abbracciarla, di farla parlare, di sentirla vivere. Dovette allontanarsi per resistere alla tentazione.

Pian piano, camminando in punta di piedi, andò a sedere accanto alla finestra aperta. Nell'immenso buio di quella notte soffocante d'agosto, nel silenzio profondo del villaggio addormentato, la sua fantasia da poeta evocava come un'oasi laggiù, lontano, la casa di Santhià, coi vetri delle finestre scintillanti al sole, e la porta aperta, e sulla soglia il bel vecchio coi capelli bianchi, e le fanciulle sorridenti, e tutte le braccia stese verso di lui, portatore della lieta novella. Si ricordava tremando il bacio dell'Elena quand'era tornato dal campo. Ora tornava da ben altra battaglia. Aveva lottato colla morte e riconduceva un figlio a suo padre.

Ad un tratto, un pensiero terribile gli balenò alla mente. Quale sarebbe ora l'avvenire di Vincenzo? Aveva voluto uccidersi per non farsi prete, ed era per rimetterlo in quella condizione odiosa ch'egli l'aveva salvato? Salvarlo dalla morte non era più un bene, se non poteva anche salvarlo da quel destino che gli faceva orrore, se non poteva renderlo felice. A queste riflessioni gravi e penose, il sentimento di responsabilità si faceva sentire potentemente nel cuore onesto di Vicenzino, e lo turbava come una minaccia.

Ne' suoi tre mesi di vita militare Vincenzo si era lasciata crescere la barba che, con quel pallore da moribondo, con quelle traccie di patimento sul volto, gli dava l'aria di un Nazzareno. La fantasia eccitabile di Vicenzino se lo figurava nei giorni di tortura che aveva passati errando solo per la campagna, implorando come Cristo: «Allontanate da me questo calice», quando per allontanarlo si era rassegnato a morire a ventun'anni, nel fiore della gioventù e della salute. Ed egli, l'amico fedele, il parente vincolato da tanta gratitudine, era andato a cercarlo nella pace fredda della morte, per dirgli: «Sorgi, povero spirito abbattuto dalle lotte, ricomincia a lottare; povero corpo sfinito dalla emorragia, torna a curvarti sotto la tua croce». No. Questo non poteva essere. Sarebbe stato crudele. Bisognava ad ogni costo che Vincenzo, ricuperando i sensi, potesse consolarsi di essere tornato alla vita, e non maledirla un'altra volta.

Ma come fare? Come? Persuadendo il signor Dogliani a perdere il benefizio? Non sarebbe stato difficile, perchè amava molto suo figlio, e non avrebbe voluto punto sacrificarlo. Ma poi, come avrebbe vissuto, povero vecchio? Vincenzo l'aveva detto: doveva immolare sè stesso, o condannare suo padre alla miseria. Essere un cattivo prete o un figlio ingrato.

Vicenzino ripetè a sè stesso tutta la storia del passato. La generosità dello zio pe' suoi genitori, la loro sconoscenza, e (nel segreto del suo cuore lo diceva con amarezza) la loro slealtà. Si rammentò la devozione riconoscente ed il desiderio profondo di espansione che avevano travagliata la sua infanzia sentimentale ed i sacrifici che avrebbe voluto fare per dimostrare a quei parenti la sua gratitudine. Con che cuore avrebbe dato la vita per loro!

Ebbene, ora era venuto il momento di mostrarsi grato, di compensare benefizio per benefizio. Era venuta l'ora d'essere eroico. Ma non si trattava di buttarsi in Po, di ricevere un colpo di fucile nel petto, di quegli atti di devozione istantanei che si compiono in un eccitamento di passione e durante un attimo. Era un eroismo di tutti i giorni, di tutte le ore, che il suo gran cuore generoso suggeriva alla sua immaginazione atterrita. Era l'immolazione della sua libertà, del suo avvenire, delle sue aspirazioni, delle sue speranze. Della sua libertà, che si sentirebbe vincolata in tutti gli istanti della sua vita, del suo avvenire condannato a battere tutt'altra via di quella a cui tendevano le sue aspirazioni, delle sue speranze, che gli sorgerebbero ogni giorno impetuose nel cuore, per essere di nuovo ogni giorno con una lotta violenta respinte e soffocate.

Doveva prendere per sè il calice che Vincenzo aveva voluto allontanare, la croce sotto la quale era caduto: una vita senza amore. Doveva farsi prete.

Il benefizio, per volere del testatore, in caso che il ramo primogenito dei Dogliani non avesse un figlio prete, doveva passare ad un figlio del ramo secondogenito, che volesse abbracciare la carriera ecclesiastica. E, soltanto nel caso che anche questi mancasse, il capitale sarebbe passato ad un'opera pia. Egli solo dunque era come fatalmente indicato, per risolvere la situazione dolorosa che aveva portato il carattere violento di Vincenzo ad un partito disperato.

Anche l'anima generosa di Vicenzino si ribellava a quell'immenso sacrificio. I suoi vent'anni l'impaurivano; il pensiero dell'Elena lo faceva piangere.

E pianse lungamente, scosso da forti singhiozzi, un pianto amaro, disperato. Aveva sempre dinanzi al pensiero il giorno in cui Vincenzo era andato a cercarlo alla fattoria, orfano, solo, miserabile, e l'aveva condotto a suo padre; e questi, aprendogli la sua casa, gli aveva detto: «Entra.»

Sentiva che doveva tutto in compenso di quella generosa ospitalità; eppure rimaneva perplesso, raccapricciava dinanzi all'audacia di quella risoluzione.

Prima dell'alba s'udì un rumore affrettato di zoccoli, ed un contadinello portò un biglietto desolato dell'Elena.

Il signor Dogliani, riportato in casa la sera come svenuto, era stato colpito poco dopo da un attacco d'aploplessia. Soltanto molto tardi nella notte aveva ricuperato i sensi e la parola, ma tutto il lato destro era rimasto paralizzato. Il medico aveva detto che, quando pure potesse guarire, sarebbe infermo pel resto de' suoi giorni. Intanto stava ancora assai male, e le figlie, che lo curavano tremando per la sua vita, non potevano abbandonarlo, neppure per correre presso l'altro malato di San Germano, altrettanto caro.

Erano tutti ansiosissimi per Vincenzo. Sapevano appena dal cocchiere che aveva condotto Vicenzino, che non era morto. Il povero vecchio non faceva che disperarsi all'idea di perdere il figlio, e di lasciare le figliole nella miseria; non v'era modo di calmarlo....

Dinanzi alla scena straziante che gli presentava quella lettera, le esitazioni di Vicenzino cessarono. Con un sospiro, che gli veniva dal fondo del cuore, gemette: «È necessario.» E scrisse all'Elena un biglietto che le mandò dallo stesso contadino:

«Vincenzo è fuori di pericolo; vivrà, e sarà felice. Rassicura il babbo; non sarete nella miseria; il beneficio che Vincenzo perde lo acquisto io; rimane nella famiglia, dacchè tuo padre m'ha accolto come un figlio. Sarò io il fratello prete.»

Era la prima lettera che scriveva all'Elena; ed era per chiamarsi il fratello prete! le lagrime gli oscuravano la vista, e cadevano grosse e fitte sulla carta; eppure a lui pareva di compiere un dovere inevitabile, di fare una cosa naturale. Pensava: «Chiunque nel caso mio farebbe lo stesso.» Era della creta di cui si fanno gli eroi.

 

 

 




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