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Carolina Invernizio I misteri delle soffitte IntraText CT - Lettura del testo |
II.
Benchè Stefana fosse divenuta una di quelle celebrate signore il cui nome si vede spesso comparire nelle cronache dei giornali mondani, benchè fosse circondata di adoratori, tutti erano concordi nel dire che essa era onestissima, che adorava il marito e che niuno avrebbe preso nel suo cuore il posto occupato da lui.
Il conte Sebastiano Rossano si felicitava ogni giorno della sua scelta.
Nella immensità della sua ebbrezza, il conte non vedeva lo sperpero del denaro che si faceva in casa. Tutte le condizioni imposte da Stefana erano da lui scrupolosamente rispettate: qualunque desiderio della moglie era un ordine.
La contessa divenne madre di un bel fanciullo, che fu chiamato Livio.
Stefana amò suo figlio con una passione quasi selvaggia, e fu l'unico, vero amore della sua vita.
Essa volle allattarlo, e così ebbe un appartamento per sè e per il bimbo: il conte riprese possesso del suo appartamento da scapolo, situato al lato opposto della palazzina.
La contessa aveva fatto spese straordinarie per Livio. Il corredo era bello come quello d'un principe.
La culla era costata diecimila lire.
Oltre la cameriera della contessa, maritata al cocchiere, due persone, che già avevano servito Stefana quando era ragazza e si sarebbero fatte squartare per lei, due altre cameriere dovevano servire esclusivamente per il bambino.
Un giorno il conte si accòrse che, andando di quel passo, in pochi anni il patrimonio suo e quello di Stefana sarebbe divorato. In tre anni aveva già dovuto alienare una parte del capitale perchè la rendita non bastava a far fronte a tutte le spese.
Tuttavia il gentiluomo si guardò bene dal farne parola alla moglie.
- Posso io pagare abbastanza la felicità che la mia adorata Stefana mi procura? - pensava. - Posso privarla di qualche cosa? No, no! Mi rimetterò a lavorare e procurerò che ella non sappia mai che spende troppo denaro e quale sacrificio io farò per lei allontanandomi spesso dal suo fianco. -
Un giorno che il conte aveva tardato più del solito all'ora del pranzo, tornato a casa trovò Stefana triste, inquieta, che gli gettò piangendo le braccia al collo.
- Porche quest'assenza? Dove sei stato? Non mi ami dunque più? -
- Stefana, come puoi pensare così? Guardami, guardami bene: ho la faccia di un colpevole? -
Stefana fissò i suoi splendidi occhi ammaliatori in quelli di lui.
- No; - rispose - ma tu mi nascondi qualche cosa.
- Sì, e faccio male, perchè non devo avere segreti per te. Le mie assenze hanno un giusto motivo: lavoro per te e per nostro figlio.
- Come?
- Non comprendi? Noi siamo ricchi, è vero, ma voglio che Livio lo sia ancora più; per cui mi sono rimesso agli affari.
Stefana si strinse a lui con un grido di gioia.
- Come sei buono! Quanto, quanto ti amo! -
E l'inebriò di sorrisi, di carezze.
Fin da quel momento, Stefana non si curò più delle assenze del marito, anzi, le desiderava.
Era la stagione dei bagni, ed ella vi si recò col bambino e la madre, in una bella villa di Pegli, presa in affitto dal conte, che rimase a Torino, facendo ogni tanto una scappata colà per abbracciare la moglie e il figlio.
Stefana aveva trovato a Pegli molti conoscenti. Alla sera ella riceveva amici e conoscenti, e vegliava fino a tarda ora.
Una notte tutto taceva nella villa, quando la signora Mestre, che soffriva di cuore, essendosi messa alla finestra per respirare, sentì un rumore di passi in giardino ed al chiarore della luna vide sua figlia al braccio di un uomo. Si dirigevano verso un piccolo padiglione.
Quantunque il turbamento le togliesse quasi il respiro, la signora Mestre lasciò la finestra, scese con precauzione in giardino e si avvicinò al padiglione, illuminato.
Da una delle vetrate guardò nell'interno.
Ciò che vide la povera donna dovette essere orribile, perchè indietreggiò con un grido di spavento e cadde distesa al suolo.
La porta del padiglione non tardò a spalancarsi e Stefana si precipitò fuori, seguìta da un giovane quasi imberbe, che mostrava sul volto i segni dello spavento.
- Che c'è? - chiese con voce soffocata.
La contessa, veduto il corpo di sua madre, comprese tutto.
Allora, calmissima, rivoltasi al giovane:
- Vattene subito; - disse - tu non hai nulla da temere! -
Egli disparve tosto, mentre Stefana si chinava sul corpo della madre, appoggiava il suo orecchio al cuore di lei.
Quando comprese che era solo svenuta, sollevatala per le spalle la trascinò nel padiglione, la stese sull'agrippina.
La signora Mestre non tardò a rinvenire, e veduta sua figlia gridò con disperato accento:
- Sciagurata!... Sciagurata!... Hai dunque l'anima impastata di fango? Tradire il più onesto dogli uomini, tu, madre della sua creatura!...
- Basta! - interruppe con impeto Stefana. - Non tediarmi. Perchè venire a spiare i miei passi come una suocera?
- Ed è così che rispondi a tua madre? Non provi rossore al pensiero dell'azione commessa? Non pensi che, invece di me, poteva esser qui tuo marito? -
Stefana alzò con aria di disprezzo le spalle.
- Credi che sia venuta ai bagni per far la balia al bambino? L'adoro, il bimbo, ma egli non deve essermi d'inciampo. Tu sei una mamma dalle idee antidiluviane! Io, invece, sono una donna moderna: voglio avere degli amanti, schiavi sommessi, pronti a versare tutto il loro sangue per me, e li avrò! Voglio essere ammirata, e in pari tempo creduta da tutti la donna più onesta del mondo! -
La signora Mestre ascoltava terrorizzata quelle massime vergognose: tremava a verga a verga, anelante.
- Disgraziata figliuola! - balbettò. - Dove hai imparato un simile modo di pensare e di parlare? Io ti ho dato solo esempi di virtù; tuo padre era l'uomo più onesto che esistesse, la tua istitutrice era una santa donna. E tu...? -
L'infelice si mise a singhiozzare.
- Oh! dimmi che vaneggi, che hai avuto un istante di follìa, - soggiunse con accento supplichevole - ma che ti penti, che il tuo cuore non è così traviato come vuoi farmi credere! Vieni meco a pregar Dio che ti perdoni: d'ora innanzi io non ti lascerò un solo istante! -
Lo sguardo di Stefana divenne quasi feroce.
- Credi che la tua presenza m'impedirebbe di fare il comodo mio? - interruppe con cinismo. - Ma non voglio infliggerti un tal supplizio, e scriverò a mio marito che l'aria di mare ti è nociva, che tornerai con lui a Torino, così non avrai più ragione di scandalizzarti. -
Un singhiozzo sfuggì dalle labbra della sventurata; ella sentiva che se rimaneva lì ancora un istante non avrebbe più la forza di ritornare nella propria camera; onde fuggì barcollando, dopo aver gridato a sua figlia:
L'infelice passò la notte in ginocchioni, chiamando in aiuto Dio e suo marito.
La mattina dopo la cameriera, entrando in camera, trovò la signora stesa al suolo, immobile, morta.