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Carolina Invernizio
I misteri delle soffitte

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VI.

 

Mentre succedevano queste scene, il vero Fabio Ribera disimpegnava con zelo il suo modesto ufficio, acquistandosi ogni giorno più la stima del principale.

Fabio era sempre il primo al lavoro, l'ultimo ad uscire dal magazzino.

Non chiedeva mai permessi, non andava mai al teatro.

- Ma come passate le sere? - chiedevano gli altri commessi.

- Studio, - rispondeva - perchè ho ancora molto da imparare.

- Avete idea di cambiare posizione?

- No, ma l'istruirsi giova sempre. -

Fabio non aveva mai fatto allusione al conte: teneva per il suo dolce segreto. Le commesse, e non erano poche, gli rivolgevano occhiate incendiarie. Ma egli fingeva di non accorgersene. Solo una bimba pallida, dall'aspetto un po' sofferente, sebbene bellissima, aveva acquistata la sua simpatia.

Era Ilda, che si trovava da poco tempo nel magazzino e che nonostante il fondo ardito del suo carattere rimaneva come impaurita dal contegno spesso insolente delle altre commesse. Era ancora così giovane! Aveva appena quindici anni, ed era stata educata in convento!

Il tempo scorreva.

Già da molte settimane il conte non era stato a trovar Fabio, tanto che questi cominciava ad essere inquieto, quando una sera Livio comparve con aria sorridente, ed abbracciando il giovane esclamò:

- Credevi ti avessi dimenticato, non è vero?

- No, ma temevo che foste ammalato.... e soffrivo.

- Povero ragazzo! Invece io stavo benissimo, vivevo in piena luna di miele, avendo raggiunto il colmo della felicità. -

Fabio lo guardava estatico.

- Avete preso moglie?

- No, mio caro, ma sono stato e sono l'amante della ragazza più adorabile che esista. Te la farò conoscere, avrai mai veduto nulla di più bello e perfetto. -

Il conte rimase con Fabio fino alla mezzanotte e promise di tornare presto.

Ma scorsero due mesi senza che comparisse.

Fabio deperiva: era diventato taciturno.

Passava ore intiere col ritratto del conte fra le mani, e s'irritava contro la sconosciuta che si era impadronita del suo benefattore.

Finalmente, non potendo più resistere alla smania che l'agitava, scrisse a Livio una lettera quasi supplichevole come faceva quando era ancora in collegio.

 

«Mio benefattore,

«Ogni giorno che passa è un nuovo tormento per me non vedendovi, e pensando che mi abbiate dimenticato.... So bene che io sono misera cosa, di cui avete ragione di non curarvi: io non posso offrirvi altro che la mia devozione; ma a voi costerebbe così poco ridonarmi la felicità! Mi basterebbe una vostra parola scritta, o vedervi per pochi minuti.

«A momenti odio quasi colei che vi distacca da me. Oh! perdonatemi, perdonatemi, e non scacciatemi dalla vostra via, voi che avete avuto tanta bontà per me! Se io dovessi perdervi, morirei.

«Il vostro schiavo devoto

 

«Fabio Ribera

 

Il giovane chiuse la lettera in una busta e la impostò; poi attese col cuore palpitante, come se dovesse ricevere la risposta o la visita di una donna adorata.

La mattina seguente trovò in portineria un biglietto del conte al suo indirizzo. L'aprì e lesse:

 

«Stasera, uscendo dal magazzino, vieni da me. Ti presenterai come commesso del mio sarto, senza dare il tuo nome: sarai subito introdotto

 

Fabio, appena uscito dal magazzino, si avviò senz'altro all'abitazione del conte.

Il domestico che gli aprì, sentito che era il commesso del sarto, gli disse:

- Venite: il conte vi aspetta. -

Gli fece attraversare alcune stanze elegantissime e, sollevata una portiera, picchiò ad un uscio chiuso.

La voce di Livio disse:

- Entrate. -

Il domestico aprì per avvertire che era giunto il commesso che aspettava.

- Ebbene, venga subito, - esclamò il conte - e bada bene che non ci sono più per alcuno!

- Ho capito. -

Fabio era entrato e rimaneva in atteggiamento umile, rispettoso.

Ma quando il cameriere ebbe richiuso l'uscio, il giovane si slanciò ai piedi del suo benefattore, che non si era alzato dalla poltrona su cui stava seduto, e gli prese una mano coprendola di baci, balbettando:

- Grazie, grazie di avermi concesso di vedervi: se sapeste quanto ho sofferto! -

Livio sembrava lusingato da quell'omaggio affettuoso.

- Povero Fabio! Ma alzati; ho da parlarti seriamente! -

Il giovane obbedì: sedette di faccia al conte, come questi gli aveva indicato, e lo fissò avidamente.

Allora si accòrse che la fisonomia di Livio non aveva più la freschezza di due mesi prima, si mostrava raggiante di piacere. Una ruga gli attraversava la fronte, un sorriso pieno di amarezza gl'incurvava la bocca.

- Siete stato ammalato? - chiese con segreta angoscia.

- No, Fabio, rassicurati; ho soltanto avuto una disillusione. Ti parlai pure di una ragazza di cui mi ero innamorato...?

- Sì; ebbene?

- Ebbene, caro mio, quella ragazza si è presa giuoco di me, che ho fatto tante bestialità per cagion sua. Basta, ora tutto è finito! ma ne ho avuto uno strappo al cuore.

- Miserabile sgualdrina! - esclamò Fabio. - Se la conoscessi, vorrei farle pagar caro il dispiacere che vi ha dato! -

Livio assunse un tono dolce, commovente.

- Ti ringrazio; ma è meglio non pensarci più. Parliamo piuttosto di te. Stai per compiere vent'anni, non è vero?

- Sì, conte.

- Io sono molto contento di te, ragazzo mio: hai superato tutte le mie aspettative e quelle di mia madre: sei un vero uomo. Vado orgoglioso di proteggerti, e sebbene tu non abbia ormai bisogno del mio aiuto, potrai in qualunque occasione rivolgerti a me.

- Ah! vorrei poter dare io la mia vita per voi!

- Può darsi benissimo che un giorno o l'altro abbia bisogno di te!

- Venga quel giorno benedetto: mi vedrà alla prova.

- Non ne dubito, mio buon Fabio; ma per ora mi basta solo il tuo affetto, la tua amicizia. E se ti ho fatto venir qui, invece di venire io da te, è stato per consegnarti una reliquia che non potevo darti prima. -

E presa una cassettina d'ebano la porse a Fabio soggiungendo:

- Qui dentro troverai due lettere che ti saranno più care di qualsiasi cosa al mondo: l'una di tua madre, l'altra della mia, lettere scritte da quelle sante pochi giorni prima di morire. Mia madre le affidò a me, pregandomi di consegnartele quando tu avessi vent'anni. -

Fabio, tremante per la commozione, prese la cassettina e ringraziò Livio, che lo accomiatò stringendogli la mano con affetto.

Poi il conte suonò il campanello, perchè il domestico accompagnasse il giovane commesso alla porta.

Appena solo, un singolare sorriso dischiuse le labbra di Livio.

- Com'è ingenuo! - pensava.

Egli non aveva detto a Fabio la verità qual'era, circa i suoi amori con Giulietta.

La fanciulla, affascinata dal libertino, aveva creduto a tutto quello che egli volle darle ad intendere.

Per quasi un mese Livio si condusse con lei come il più timido degli uomini, facendo bei propositi per l'avvenire.

- Come saremo felici! - le diceva. - Alla sera, tornando a casa, troverò la mia adorata mogliettina ad aspettarmi, a farmi dimenticare le cure dell'ufficio. Quando poi avremo un figlio.... -

Giulietta tremava ed arrossiva.

Livio sorrideva di quell'adorabile confusione.

Giulietta si lasciava cullare da quelle promesse, accompagnate da sguardi teneri, da dolci sorrisi.

Un giorno Livio le disse come avesse trovato un bell'appartamentino, che sembrava fatto per loro.

- Voglio spendere tutti i miei risparmi per rendere il nido degno di te, - aggiunse con tenerezza. - A proposito: hai pensato alle carte occorrenti per il nostro matrimonio? -

Giulietta provò una dolce commozione.

- No, non ancora; - rispose debolmente - ma posso averle in settimana.

- Brava! Le consegnerai a me, ed io provvederò per le pubblicazioni. -

Ormai si vedevano ogni giorno, ed egli era salito più volte nella soffitta di Giulietta, dove ottenne qualche puro bacio.

Una mattina che il conte andò a prenderla per fare una passeggiata prima di recarsi all'ufficio, come egli diceva, appena in istrada la prese allegramente a braccetto, esclamando:

- Indovina un po' dove ti conduco?

- Non so! - ella rispose guardandolo, raggiante di amore.

- Ebbene, ti conduco a visitare il nostro nido, che ieri ultimarono. Voglio sentire il tuo parere. -

Giulietta arrossì dalla gioia.

Il quartierino in parola era al secondo piano, in fondo al cortile di un vasto casamento sulla piazza Vittorio Emanuele I.

Livio aveva in tasca la chiave dell'appartamento, che era stato mobiliato in quei giorni. Entrarono in una piccola anticamera, un po' oscura, ma nella quale Giulietta scòrse subito una bella giardiniera piena di fiori.

Livio aprì l'uscio a destra, che metteva in un graziosissimo salotto azzurro pallido.

- È troppo bello per me! - esclamò Giulietta, confusa dal piacere.

Dal salotto passarono nella camera da letto, spaziosa, elegantissima.

La giovane credeva di sognare. Fabio aveva fatto tutte quelle spese per lei! Ancora poche settimane, ed ella sarebbe regina di quell'incantevole nido!

Livio notava quella commozione, e la sua perfida anima ne gioiva.

- Ti piace? - chiese con accento carezzevole, cingendole con un braccio la vita.

Giulietta lo guardò colle lacrime negli occhi.

- Oh! tanto, tanto; come sono felice!

- Se tu sapessi quanto mi rendi contento! Ma vieni: non hai ancora veduto la nostra cucinetta. -

Era graziosa anche quella, col fornello a gas, un armadio che conteneva tutto un servito per la tavola, un cestino di posaterie, diverse bottiglie di liquori.

- Vedi, - disse Livio con tono dolcissimo - i giorni feriali potremo pranzare in cucina; le feste, voglio che ce le godiamo a tavola in salotto: non sei del mio parere?

- Tutto quello che piace a te piace a me pure.

- Sei un angelo! Intanto mi permetterai, mogliettina mia, che ti faccia gli onori di casa: ho preparato un piatto di biscottini ed una bottiglia di vecchio marsala. -

Li tolse dall'armadio.

Giulietta volle aiutarlo a ripulire due bicchieri, a portarli sul vassoio. Egli la seguì colla bottiglia e i dolci. Misero tutto sul tavolino del salotto, poi Livio tolse il cappellino alla fanciulla, dicendole che gl'impediva di ammirare i suoi splendidi capelli d'oro.

Sedettero vicini, sul divano, dimentichi del mondo intero.

Duo ore dopo, quando uscirono da quella casa, Giulietta non era più pura come vi era entrata.

Non sapeva come fosse caduta, poteva darne colpa a Livio.

Egli nulla le aveva chiesto, non aveva preteso nulla, ma la voce fascinatrice di lui, le sue parole, l'avevano immersa in un'estasi, in cui non sapeva distinguere il sogno dalla realtà. E si era abbandonata senza riserva, incosciente, felice.

Quando riprese possesso di , pianse a calde lacrime. Ma Livio seppe sopire il suo rimorso e farle coraggio.

- Perchè piangi? Tu hai ceduto al tuo cuore, come io ho obbedito al mio. Saremo tra pochi giorni marito e moglie. Chi potrebbe rimproverarci la nostra felicità? -

Così soffocò i suoi ultimi scrupoli. Fin da quel momento Giulietta non seppe rifiutargli più nulla, visse in pieno idillio, attendendo il giorno in cui si sarebbero sposati.

Ma il libertino, ottenuto il suo intento, già pensava di abbandonare la poveretta.

Egli, riannodato con Cinzia, le raccontò ridendo la sua avventura sotto le spoglie di un commesso di banca, e le chiese consiglio per liberarsi della sedotta.

- Colei non sa davvero chi tu sia? - chiese Cinzia.

- No.

- Le hai scritto?

- Sì, ma firmavo le lettere col nome falso, quindi non ho nulla da temere da quel lato.

- Ebbene, fai scomparire il commesso di banca, ritorna il conte Livio Rossano, ed accompagnami a Montecarlo senza rivedere colei. Se tornando a Torino tu la incontrassi, fingi di non conoscerla; se ti venisse incontro, dimostrale che si inganna.

- Farò così. -

Il giorno stesso portò via la sua piccola valigia dalla camera ammobiliata presa in affitto come commesso. Pagò inoltre alla padrona del quartiere che Giulietta credette ammobiliato per il loro matrimonio, il prezzo di quei giorni, ed alla sera partì con Cinzia per Montecarlo, senza curarsi della sventurata che abbandonava dietro di .

Il conte per tre settimane fu di nuovo felicissimo con Cinzia, nonostante le perdite subite a Montecarlo.

Ma la ballerina partì con un altro per la Russia, e Livio fece ritorno a Torino.

Egli aveva dimenticato Giulietta.

Peraltro, quasi presentisse che un giorno o l'altro Fabio Ribera potrebbe avere parte in quest'avventura, pensò di raggirarlo fingendosi abbandonato dalla giovane, e consegnandogli quelle due lettere che dovevano sempre più avvincerlo alla sua persona.

Tuttavia nessun pensiero delittuoso era mai passato per la mente di Livio, che, datosi a nuovi capricci, continuò a dissipare il suo patrimonio, del quale stava per vedere il fondo.

Fu allora che la sua buona stella lo unì a Bianca Moreno.

 

 

 




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