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Carolina Invernizio I misteri delle soffitte IntraText CT - Lettura del testo |
II.
Bianca era irriconoscibile: pallida e magra come uno spettro. I suoi stupendi capelli neri le scendevano in trecce disordinate sulle spalle; gli occhi sembravano smisuratamente ingranditi, cerchiati di nero; le labbra scolorite mostravano, schiudendosi, gengive esangui; aveva il naso affilato come quello di un cadavere.
Eppure in quella figura spettrale vi era ancora tanto fascino, che non si poteva mirarla senza sentirsene attirati!
Come sappiamo, il conte Livio, il giorno stesso dell'arresto di Aldo, aveva detto al suocero che riprenderebbe tutti i suoi diritti sulla moglie, e il misero padre attese il ritorno di sua figlia per rivelarle tutto.
Quando Bianca, tornata al palazzo, si recò nelle stanze del padre, fu spaventata dall'alterazione dei lineamenti di lui.
- Che hai? - chiese agitata. - Ti senti male?
- No, cara. Ma dammi il braccio: ti accompagno nella tua camera perchè ho da parlarti. -
Ella si sentì terrorizzata come se avesse scoperto ai suoi piedi un abisso.
Calmatala, il signor Moreno le narrò tutti gli avvenimenti della notte, e infine la minaccia del conte di riprendere i suoi diritti di marito.
Bianca sembrava fulminata. Tutte quelle rivelazioni l'avevano schiacciata; ma il suo abbattimento non durò a lungo.
Un grido d'orrore sfuggì dalla sua bocca, ed afferrandosi con angoscia al padre:
- Tu non mi lascerai in sua balìa, non è vero? - esclamò. - Uccidimi, piuttosto, uccidimi!
- Bianca! -
Fu un tal grido pieno di strazio, che bastò a richiamare in sè la giovane.
Ella si gettò ai piedi del padre.
- Perdonami, perdonami: tutti questi dolori li devi a me; io sono stata la sola colpevole; ma non lotterò più,
purchè tu ritorni tranquillo, non mi maledica!
- Oh! maledirti, amor mio, mia gioia! - esclamò come delirante il padre, sollevandola. - Io vorrei salvarti a prezzo della vita! -
Egli rimase quella notte presso sua figlia, coricato sul divano attiguo alla sua camera, attendendo il conte. Ma Livio non comparve, nè lo videro il giorno seguente.
- Eppure egli trama qualche cosa! - disse il signor Moreno alla figlia.
Ella ormai pensava alla sorte di Aldo, di Aldo innocente, eppure accusato di tentato strangolamento e furto!
- Io reco danno a tutti quelli che avvicino! - mormorò la sventurata.
Da Celia seppero poi che Ilda era scomparsa da Torino, nè il signor Moreno ebbe una sola riga che l'avvertisse di quella scomparsa.
La sera, il signor Moreno si trovava da sua figlia, quando il conte apparve alla loro presenza.
Bianca, scorgendolo, divenne cadaverica.
Il conte era calmo, e con accento gentile:
- Non temete, Bianca, - disse - non sono qui per farvi del male, quantunque voi ne abbiate fatto moltissimo a me. Vengo solo ad avvertirvi che sarete chiamata dal giudice istruttore con vostro padre.
- Vi andremo, giacchè è necessario, - rispose per la figlia il padre - e non nasconderemo la verità!
- È quello che desidero!-soggiunse il conte inchinandosi e ritirandosi.
- Mi fa più paura il vederlo così calmo, che se fosse in collera! - disse Bianca.
- Egli è sicuro di sè, - rispose il signor Moreno - mentre noi, innocenti, abbiamo contro tali prove da renderci inquieti. Ti sentirai tu la forza di recarti dal giudice istruttore?
- Sì, padre mio, perchè la mia coscienza di nulla mi rimprovera, e poi tu sarai con me. -
Ma allorquando il signor Moreno tornò dall'interrogatorio, aveva le vene della fronte gonfie ed il viso di porpora, mentre Bianca appariva più livida di un cadavere.
- Tutti proclamano la sua innocenza, tutti; - proruppe con un riso sibilante il vecchio quando fu nell'appartamento della figlia - noi soli siamo i colpevoli: io temo d'impazzire! -
Fu la volta di Bianca di consolarlo, benchè essa pure avesse il cuore lacerato.
Il conte non si lasciava più vedere dalla moglie e dal suocero; eppure si sapeva che passava molte ore nel suo appartamento. Che faceva?
Dopo alcune notti passate insonni, il signor Moreno scrisse il suo testamento.
Egli lasciava metà del suo patrimonio alla figlia, l'altra metà divisa in parti eguali fra Aldo Pomigliano, Ilda e la piccola Gina, la figlia di Giulietta Lovera, l'assassinata «e ciò per riparare un'enorme ingiustizia del mondo.» Vi erano inoltre due vistosi legati per miss Lucia e Celia.
Mentre era intento a scrivere, fu bussato al suo uscio.
- Chi è? - chiese il signor Moreno.
- Io! - rispose il conte con voce tranquilla.
Il vecchio fu subito in piedi, nè pensò più al testamento che andava scrivendo. Si recò ad aprir l'uscio, chiuso per di dentro.
Il signor Moreno indicò al genero da sedere e sedette egli pure.
- Che avete da dirmi?
- Vengo a dirvi che sopra un giornale molto diffuso della città è comparso un articolo che aggrava la condizione del vostro protetto, signor Pomigliano, e la vostra.
- La mia? Che intendete dire, signor conte?
- Leggete, ciò mi eviterà di rispondervi. -
Gli porse il giornale in cui era segnato l'articolo: «Mistero svelato». Il signor Moreno lo afferrò con le dita convulse, e percorse avidamente il foglio cogli occhi.
Immerso in quella lettura che gli infiammava il sangue nelle vene, gli dava le vertigini, non s'accorse che Livio s'era alzato, avvicinandosi allo scrittoio.
Il conte aveva guardato macchinalmente il foglio sul quale il suocero stava poco prima scrivendo.
Ma alcune parole gli corsero sotto gli occhi, facendolo rabbrividire. Allora si chinò, e cogli occhi dilatati da una rabbia interna, lesse quel testamento inaspettato e per lui terribile.
Aveva appena finito, che una voce gridò alle sue orecchie:
- È un'infamia, un'infamia!... -
Il conte si volse di scatto, ed i due uomini si trovarono di fronte; il conte livido, ma in apparenza calmo, il signor Moreno congesto, con gli occhi striati di rosso, la bocca piena di schiuma.
- Sì, è un'infamia! - ripetè Livio lentamente.
- Miserabile, dite così, mentre voi stesso l'avete scritto, voi che ideaste tutto l'intrigo fra me, Aldo e gli altri!
- Vorreste negare che sia la verità? Ma ecco qui una nuova, luminosa prova: il vostro testamento. -
Il signor Moreno cacciò un urlo da belva.
- Lasciate quel foglio, datemi quel foglio! -
Livio lo sollevava al di sopra del suo capo.
- Non sono così pazzo: questo sarà una nuova prova che dimostrerà sempre più la mia innocenza. -
Un fiotto di sangue salì al cervello del signor Moreno, che non distingueva più nulla.
- Ah! furfante, non mi sfiderete più a lungo! - rantolò.
E a testa bassa, con un impeto terribile, fece per slanciarsi contro Livio; ma il conte saltò rapidamente di fianco, ed il vecchio, trascinato dal proprio slancio, cadde disteso bocconi, rimanendo immobile.
Il conte si pose il foglio nella tasca interna del soprabito ed attese che il suocero si rialzasse.
Il vecchio non si muoveva. Allora Livio si curvò su lui e fremette: il signor Moreno era morto.
Il conte sonò con violenza il campanello, si mise a gridare aiuto.
Accorsero i domestici, ed il conte spiegò loro come, mentre parlava col suocero, questi avesse ad un tratto stese le mani verso lui quasi per cercare un appoggio, ma egli non era giunto in tempo ad afferrarle, e il vecchio era caduto.
- Bisogna trasportarlo sul letto, andar subito in cerca di un medico. -
I suoi ordini vennero eseguiti.
In quel mentre Bianca rientrava al palazzo con Lucia, e furono sorprese di trovare le porte spalancate e nessun domestico in anticamera.
La contessa ebbe il presentimento di una sciagura e si slanciò verso l'appartamento del padre.
Ma ad un tratto le si fece incontro il conte che le disse con le lacrime nella voce:
- Bianca, te ne prego, non entrare là; vieni prima con me nel salotto! -
Ella lo fissò cogli occhi stravolti.
- Coraggio, Bianca, tuo padre.... -
La contessa non lo lasciò finire: diede in un grido acutissimo e, respingendolo, volò nella camera del padre.
Alcuni domestici erano nella stanza, ed il medico presso al letto si chinava ancora una volta verso il cadavere; poi, rialzandosi, confermò:
- Morto! -
Bianca lo vedeva bene, là disteso sul letto, immobile, ma il volto di suo padre conservava ancora il colore della vita, gli occhi stranamente aperti.
No, non poteva essere morto, non era possibile!
- Signore, vi ingannate, il babbo non è morto! L'ho lasciato due ore fa che stava benissimo.
- Vi credo, signora, ma purtroppo non posso darvi alcuna speranza: il povero signore ha dovuto soccombere ad una congestione cerebrale fulminea, un accesso di sangue al cervello....
- Prodotto da che cosa? - chiese macchinalmente Bianca, mentre i denti le stridevano.
- Vi sono tante cause che possono condurre ad un tal risultato: un eccesso di collera, una profonda commozione, una fatica intellettuale. -
Bianca non l'ascoltava più. Si era gettata sul cadavere del padre, lo copriva di baci e lacrime, ripetendo fra i singhiozzi:
- No, tu non puoi avermi lasciata così sola.... sola!... Se tu sei morto, qualcuno ti ha ucciso! -
Ad un tratto si raddrizzò, ed i suoi sguardi, incontrati quelli del conte, espressero il raccapriccio, mentre ella, stendendo il braccio verso lui:
- Assassino, assassino! - gridò.
- Poveretta, il dolore le sconvolge la ragione! - disse il medico.
Il conte si era avvicinato.
- Bianca, torna in te; tutti qui possono testimoniare se io ho colpa nella morte di tuo padre!
- Sì.... voi l'avete ucciso.... via di qui.... la vostra presenza è un insulto alla vittima....
- Ma che io debba dunque essere sempre sospettato da te? - disse con angoscia il conte, - Ah! se tuo padre potesse parlare ancora, egli ti griderebbe che io sono innocente: te lo giuro sul suo cadavere!
- Non vi credo.... non vi credo!... -
Il conte fu costretto a ritirarsi, celando, sotto un apparente dolore, la rabbia che lo divorava. Ma ormai sua moglie rimaneva in sua balìa, e, quel che più importava, il patrimonio del suocero non gli sfuggiva più.
Bianca chiese il parere di altri medici, e tutti furono concordi nella diagnosi del male che aveva fulminato suo padre.
Il conte fece chiamare alcune suore perchè non abbandonassero la contessa e le facessero intendere che ella incolpava a torto il marito.
Quando fu il momento di deporre il cadavere nella cassa, Bianca, afferrandosi alla fredda salma:
- Voglio esser seppellita con lui! - diceva.
Dovettero trarla via a forza, ed allora si dibattè in convulsioni, finchè cadde svenuta.
Per qualche settimana si temette che soccombesse. Poi cominciò a riaversi, ma la sua mente era alquanto scossa.
- Io pure - pensava - ho aiutato ad uccidere mio padre. Se non avessi commesso quella follia quando scopersi il tradimento di Livio, sarei stata sventurata, ma la mia coscienza di nulla mi avrebbe rimproverata: mio padre non sarebbe morto, nè Aldo rovinato, nè Ilda vagante per il mondo. Anch'io merito una punizione, nè cercherò di sottrarmi colla morte al castigo che mi spetta! -
E fu così. Bianca si ritenne legata alla vita per espiazione. Se alla vista del conte tremava come una foglia scossa dal vento, se lo fissava con gli occhi stralunati, ripetendo senza esaltazione che egli era stato l'assassino di suo padre, di Aldo, le stesse cose ripeteva a sè stessa, rodendosi dal rimorso di essersi mostrata cattiva figlia, di essersi incamminata in una via orribile, nella quale non calpestava che morti.
Era una specie di pazzia la sua, una pazzia calma, commovente, che non richiedeva alcuna sorveglianza speciale.
Il signor Moreno non aveva lasciato testamento, quindi Bianca diveniva la sola erede del padre.
Il conte Livio, dietro consiglio del suo avvocato, si recò da Bianca onde ottenere da lei la procura per l'amministrazione del patrimonio.
Il conte aveva posta al fianco di Bianca una donna che si era votata a lui per sempre, perchè con quel posto la salvava dalla miseria, dal disonore. Era una certa Milia Lezzani, una vedova che fu in procinto d'affogarsi per la fame volendo conservare la propria onestà. Milia credeva all'innocenza del conte, e promise che avrebbe cercato di trasfondere la sua convinzione nella povera contessa.
Essa non era cattiva, sebbene avesse un'apparenza piuttosto burbera. Era una donna forte, robustissima, sui trent'anni: aveva un carattere integro, un'onestà senza limiti ed era di una segretezza a tutta prova. Il conte poteva fidarsi di lei.
Bianca, ritornando alla vita, si era trovata costei al fianco, ma non chiese chi fosse.
Quando il conte entrò dalla moglie con le carte inerenti alla procura che essa doveva firmare, Milia si trovava seduta presso la contessa.
Livio le fece cenno di ritirarsi e si avvicinò a Bianca.
A misura che il conte si avvicinava, essa cominciò a tremare, a battere i denti, il suo respiro divenne affannoso.
- Bianca, puoi ascoltarmi? - chiese con dolcezza Livio.
Ella trasalì a quella voce, e gridò con violenza:
- Volete uccidermi, come faceste di mio padre? Ma io chiamerò aiuto!
- Calmati, Bianca, io non voglio farti alcun male; vorrei soltanto che tu firmassi queste carte.
- Firmerò tutto quello che volete; ma non uccidetemi.
- Non ne ho alcuna intenzione. Lascia che io ti spieghi il contenuto di queste carte....
- Non voglio saper nulla.... Firmerò, purchè andiate via! -
La firma, sebbene fatta con mano tremante, riuscì perfettamente leggibile.
Pochi giorni dopo partivano per la Sicilia, d'onde poi tornarono per stabilirsi nella villa comprata dal conte ed alla quale Livio pose il nome di Bianca.
Nei due anni che stettero assenti da Torino, i rapporti fra Bianca e suo marito non mutarono.
Ma nella solitudine della villa il conte volle qualche volta dare sfogo al fiele che aveva nell'animo.
Un giorno entrò nel salotto di Bianca, mentre questa dormiva su di una poltrona.
Per una completa evoluzione del suo spirito, Livio provava ormai per Bianca una passione così violenta, come non l'aveva mai sentita per lei.
Quel giorno il conte, vedendo la moglie che dormiva con un dolce sorriso sulle labbra, chiese a Milia, che sedeva poco lungi dalla contessa, lavorando:
- Da quanto tempo riposa così?
- Da quasi un'ora, - rispose la donna.
- Chi c'è? - chiese in quel momento la contessa aprendo gli occhi.
- Sono io, Bianca, - rispose il conte avvicinandosi a lei.
- Indietro, indietro! - gridò la contessa, i cui lineamenti si sconvolsero, - Non voglio vedervi!
- La sentite, Milia? - esclamò il conte con una lugubre risata. - Quella donna colpevole, che anche in questo istante sognava forse il suo amante, respinge il marito, che ha avuto la debolezza di perdonarla e di lasciar credere a tutti che ella era una vittima incosciente.
- Assassino!
- Ancora? Vuoi che ti ripeta ad alta voce le frasi d'amore da lui scritte, quelle lettere che io porto sempre con me? Oh! io le ho impresse nella mente, parola per parola; ascoltate, Milia!
- No, per pietà, tacete! - supplicò Bianca rabbrividendo.
- Hai tu pietà per me? Io sono stanco dei tuoi insulti, del tuo disprezzo! Sono tuo marito ed ho diritto di possederti! -
Si chinò sfiorandole colle labbra i capelli.
Bianca gettò un grido, respingendolo.
- No, non sarà mai, mai! Vi odio, perchè avete ucciso mio padre, debbo a voi tutte le mie sventure! Lasciatemi.... lasciatemi!... -
Livido, il conte seppe dominarsi, e indietreggiando disse con voce cupa:
- Ti lascio, ma ritornerò ogni giorno per dirti che sei la più sprezzabile delle creature! -
Appena si fu ritirato, Milia disse:
- Senta, se fossi io suo marito, non avrei tanta pazienza! E bisogna dire che lei abbia un cuore ben duro per trattarlo così!
- Voi non sapete.... - interruppe Bianca.
Ma la vedova non la lasciò finire.
- Io sto a quel che vedo, a quello che sento. Lei accusa suo marito di averle ucciso il padre, e tutti i medici hanno ripetuto che il povero signore è morto di un colpo.
- Se il conte non gli avesse fatto salire il sangue al cervello, mio padre non sarebbe morto. Dio, che sa tutto, farà un giorno giustizia! - mormorò Bianca.
Quelle scene si rinnovarono spesso, alterando sempre più la salute della contessa, accrescendo la passione morbosa di Livio.
A Milia sembrava che, continuando in tal modo, un giorno o l'altro sarebbe avvenuta una lotta spaventosa.
Pure vi fu un momento che quella situazione parve cambiata.
Bianca non usciva più in escandescenze, e dinanzi al conte rimaneva calma e fredda come una morta.
Così erano giunti al giorno dell'arrivo di Fabio e delle confidenze strazianti fatte dal conte al giovane prima d'introdurlo nell'appartamento della contessa.