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Carolina Invernizio I misteri delle soffitte IntraText CT - Lettura del testo |
PARTE QUINTA
Il castigo del colpevole.
I.
Erano le due di notte.
Il conte Livio Rossano usciva dalla casa di Passiflora, dove aveva vuotato il suo portafogli, perchè la sorte gli era stata sfavorevole.
Egli era di cattivissimo umore, mentre tornava a piedi all'albergo.
Cinzia, dopo avere stretto un patto segreto con lui, era partita da Torino, ingiungendogli di rimaner lì per non dare sospetti, fino a che l'ostacolo che impediva la loro unione fosse stato tolto di mezzo per sempre. La cortigiana gli aveva bensì promesso di scrivergli, ma ancora non si era fatta viva, nè da Fabio aveva avuto alcuna nuova sul risultato del miracoloso elixir, che doveva compiere la guarigione della contessa.
Ciò lo rendeva nervosissimo, inquieto.
Quella notte il cielo era oscuro, piovigginoso: nelle strade buie, deserte, tutto ora triste, silenzioso.
Livio era giunto all'angolo di una strada deserta, allorchè un uomo di alta statura gli si fece dinanzi, balbettando con voce commossa:
- Ho bisogno di parlarvi, signor conte! -
Livio fece istintivamente un passo indietro.
- Parlarmi a quest'ora? - esclamò. - Che cosa volete? Io non vi conosco.
- Mi farò conoscere, conte. - interruppe l'altro togliendosi il cappello e mostrando un volto pallido, patito, con grand'occhi luccicanti, coronato da capelli bianchi come la neve. - Guardatemi bene. Io sono un uomo onesto, non vi ho mai fatto del male, ma voi mi condannaste ad una vita d'inferno, non pensando che io potessi un momento o l'altro cogliervi a vostra volta. -
Livio l'osservava con stupore, non conoscendo affatto quei lineamenti.
- Io credo, signore, - gli disse - che i fumi del vino vi abbiano dato al cervello, perchè più vi guardo, meno mi ricordo di avervi già veduto.
- Il mio volto non vi è certo familiare, ma io non sono ubriaco nè pazzo, conte; se non mi conoscete di figura, mi conoscete di nome: sono Guglielmo Rivalta, il cognato di Aldo Pomigliano.
- Ah! - esclamò il conte, lieto di trovare qualcuno su cui sfogare i suoi nervi. - Capisco! Siete il galantuomo che aiutava lo studente galante a mangiare i denari di mia moglie.
- Vile, miserabile! - urlò Guglielmo facendo l'atto di gettarsi su lui.
Ma il conte aveva fatto un salto indietro, e con un rapido mulinello, girando il bastoncino, ne lasciò cadere il pomo di piombo sul capo scoperto dello sventurato che cadde di peso al suolo.
Livio non stette ad osservare se fosse ferito o morto: nessuno aveva assistito a quella rapida scena, onde si allontanò lestamente, fischiando un'aria di operetta.
L'avventura gli aveva calmato i nervi.
Intanto Guglielmo, che per il colpo perdeva sangue dal capo, sotto la pioggia incominciava a rinvenire, quando sentì alcune voci che dicevano:
- È ubriaco!
- No, è ferito!
- Bisogna trasportarlo all'ospedale!
- Aspettate che cerchi alla meglio di fermargli il sangue! -
Sotto la pressione della mano che gli fasciava il capo con un fazzoletto, Guglielmo si riebbe e disse:
- Non è nulla, credo di potere alzarmi e andare a casa. -
Gli uomini che si erano presi cura di lui, erano dei bravi operai, che a quell'ora già si recavano al lavoro.
Essi si mostrarono lieti, sentendo che il ferito parlava.
- Aspettate, signore, vi sosterremo e vi accompagneremo fino a casa.
- Vi ringrazio, vi ringrazio mille volte! - disse Guglielmo. - Ma posso andar solo. Ho avuto uno svenimento, e nel cadere mi sono ferito. Ma ora sto bene. -
E salutati gli operai si allontanò.
Guglielmo Rivalta aveva preso alloggio nella casa stessa dove era stata assassinata la povera Giulietta, e non avrebbe neppure egli saputo dire il perchè. Nel casamento avevano dimenticato il dramma accaduto. La soffitta abitata un giorno da Giulietta, quindi da Ilda, era stata presa in affitto da un venditore ambulante che vi depositava la sua merce.
Guglielmo Rivalta aveva affittato una camera all'ultimo piano, qualificandosi sensale. Appena si trovò nella sua cameretta, Guglielmo si sfasciò la testa: il sangue non colava più. Egli empì una catinella d'acqua, si lavò, poi, fasciatosi di nuovo, si stese vestito sul letto, a meditare.
Egli era sparito da Ivrea senza lasciar detto dove si recasse, perchè nessuno potesse dubitare dell'idea che si era messa in mente.
Guglielmo voleva provocare il conte, costringerlo a battersi con lui, ucciderlo per vendicare tutte le vittime del miserabile e soprattutto il suo povero cognato, la sua adorata Severina e sè stesso.
Il signor Rivalta era un valentissimo schermitore, per cui era sicuro del fatto suo, nè gli sorgeva neppure il pensiero che in un duello potesse esser vinto.
Aveva cercato a lungo il conte e l'aveva ritrovato per esserne quasi aggredito in quel modo!
Guglielmo digrignò i denti, si morse lo dita. Il suo odio contro Livio si esasperava.
Vendicarsi, vendicare Severina, Aldo e tutti gl'innocenti! Ciò diventava un vero fanatismo nella mente di Guglielmo.
Il giorno dopo uscì di casa e si diresse senz'altro verso l'albergo, dove sapeva che il conte alloggiava, per averlo già pedinato.
- Si potrebbe parlare col conte Livio Rossano? - chiese gentilmente Guglielmo al segretario dell'albergo.
- Il conte è partito per la sua villa di Moncalieri, - rispose. - Ha ricevuto un telegramma che lo chiamava colà: sembra che la contessa si sia improvvisamente aggravata. -
Guglielmo si sentì venir freddo.
- Stava male, la contessa?
- Oh! da molto tempo non si muove più dalla villa: il conte non teneva neppur più casa a Torino; venendo qui per i suoi interessi, si tratteneva nel nostro albergo.
- Lo so, e mi dispiace della nuova che mi dà; gli scriverò. -
Allontanandosi, agitava nella sua mente terribili idee.
- Anche lei, anche lei!... Ah! questo pone il colmo a tutte le sue iniquità. Ma sarà l'ultima, lo giuro! -
Guglielmo salì in tranvai per recarsi a casa. Si mise nelle tasche della giacca una rivoltella carica a sei colpi, un paio di fazzoletti, il portafogli.
Guglielmo non sapeva dove si trovasse la villa del conte, ma era sicuro che, giunto a Moncalieri, tutti gliel'avrebbero indicata.
Era di domenica. Il signor Rivalta prese il tranvai che partiva almeno un'ora prima del treno, e arrivato a destinazione si fece indicare da un trattore la villa del conte. Era distante: un'ora di cammino; ma Guglielmo non si sgomentò.
Giunto nei pressi della villa, si fermò e sedette.
Come entrare là dentro?
- Che stupido! - disse a un tratto. - Se la contessa è aggravata andrà bene il medico a curarla, le si chiamerà anche il prete. Ebbene, per mezzo di questi, io entrerò nella villa. -
E soddisfatto della sua idea, si rialzò e camminò gesticolando, minacciando un fantasma invisibile.