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Carolina Invernizio I misteri delle soffitte IntraText CT - Lettura del testo |
XI.
Il giorno del processo di Fabio Ribera era giunto.
L'udienza era fissata per le dieci, ma fino dal mattino la folla si pigiava alle porte dell'aula di giustizia.
Ed appena quelle porte si aprirono, tutto il recinto riservato al pubblico fu pieno in un attimo.
Nei posti riservati presero posto diverse signore e qualche titolato, fra cui il conte Livio Rossano. Più lungi, in compagnia di una signorina, sedeva la contessa Bianca.
Entrò la Corte.
Dopo le formalità preliminari, il presidente disse:
- Introducete l'imputato. -
Vi fu un mormorio di curiosità.
Fabio comparve, vestito di nero, pallidissimo ma calmo.
Egli volse uno sguardo tranquillo sulla folla curiosa, ma ad un tratto quello sguardo s'illuminò, un roseo colore gli si diffuse sulle guance.
Forse aveva veduto qualcuno che conosceva, ma nessuno avrebbe potuto dire chi fosse la persona che destava in lui quella rapida commozione.
Il silenzio nell'aula era perfetto.
Declinate, a richiesta del presidente, le sue generalità, Fabio sedette finchè il cancelliere non ebbe letto l'atto di accusa, che l'accusato ascoltò senza il minimo trasalimento, cogli occhi perduti come in un sogno, la fronte alta e fiera.
Cessata la lettura, la voce del presidente annunziò l'interrogatorio.
- Fabio Ribera, avete udito l'atto d'accusa? Che avete da rispondere?
- Che i fatti sono quali io stesso ho confessati: mi riconosco colpevole. Nego peraltro d'aver premeditato il delitto e ripeto che la vittima stessa mi spinse a commetterlo. -
Un mormorio di disapprovazione accolse queste parole.
L'accusato rimase calmo e con fermezza narrò l'accaduto, come l'aveva raccontato al giudice istruttore, non commovendosi che al momento in cui parlò della fidanzata, della sua Ilda, non nascondendo la sua intensa passione per lei, le angosce del suo cuore, le sue atroci angosce all'idea di dover rinunziare per sempre a farla sua moglie.
Il suo accento profondo scosse l'uditorio.
Un uomo si era accigliato: il conte Livio Rossano.
- Ora si comprende la causa del delitto! - diceva la gente. - Quell'Ilda gli ha fatto girare la testa, forse l'ha spinto ad uccidere quella sventurata. Lei sola dovrebbe trovarsi in quella gabbia! -
L'interrogatorio era finito: incominciava la sfilata dei testimoni.
Tutti furono concordi nell'affermare la rettitudine della povera Giulietta, tutti ebbero imprecazioni per l'assassino, parole di profondo compianto per la vittima.
Quando il presidente dette ordine di introdurre la fidanzata di Fabio, vi fu un vivo sentimento di curiosità nel pubblico.
Ma nessuna commozione poteva uguagliare quella dell'imputato e del conte Rossano.
Livio, divenuto pallidissimo, fu còlto da un brivido dal capo alle piante.
Fabio tremò convulsamente; i suoi occhi sbarrati, pieni di angoscia, seguirono la direzione degli occhi del pubblico.
Ilda entrò.
Il suo primo sguardo fu per l'imputato, sguardo d'amore, di pietà.
Il cuore di Fabio ne fu squarciato.
Poi ella girò gli occhi sul pubblico, impressionando anche i più indifferenti.
Ilda si spiegò senza enfasi, ma con fermezza, raccontando la sua semplice storia, il suo incontro con Fabio, il loro casto amore, fino al momento della partenza del giovane per recarsi a cercare le carte riguardanti il loro matrimonio.
Poi raccontò come avesse saputo del suo arresto e del delitto di cui l'accusavano.
A questo punto, ergendo la bella e pallida testa, esclamò con voce sonora:
- Il delitto è stato commesso: la mano del mio fidanzato l'ha compiuto, ma il vero colpevole non è lui. L'uomo che l'ha spinto a perdersi è forse in questa stessa aula ed assiste imperterrito alla condanna della vittima. Ebbene, colui che Fabio non vuole accusare, preferendo l'infamia, preferendo di rinunziare a me piuttosto che denunziarlo, colui che io non conosco, ma che intuisco chi sia, colui fu il vero amante della povera Giulietta, il suo seduttore. Teresa Pavin lo scambia col mio fidanzato, ma io lo ritroverò un giorno, lo giuro, e quel giorno il mio povero Fabio e la misera Giulietta saranno vendicati! -
Questa dichiarazione produsse un effetto immenso, inaspettato. Ilda aveva ad un tratto conquistato il pubblico, che si abbandonò ad alta voce a mille commenti. L'imputato si piegò sulla panca e svenne.
Lo trasportarono fuori dell'aula e l'udienza fu sospesa per alcuni momenti. Nessuno pose mente al conte Livio Rossano, che fino dalle prime parole della fanciulla era stato assalito da un tremito convulso ed i suoi denti mordevano rabbiosamente le labbra.
E appena Ilda tacque, il conte lasciò la sala.
L'udienza fu ripresa poco dopo.
Fabio era tornato al suo posto, abbattutissimo.
Gli fu chiesto quanto vi fosse di vero nelle parole della fidanzata, ed egli rispose debolmente:
- Ella cerca di difendermi, ma non lo merito: io solo sono colpevole. Ho detto la verità. -
Ilda ebbe un sorriso pieno di compassione.
- Povero Fabio! - disse. - Credi che il tuo sacrifizio sia apprezzato da colui che armò la tua mano? Scommetto che il vile trema nel timore che tu venga assolto, perchè la tua condanna sarà la sua vita. Ah! potessi avere una sola prova contro lui! Ma la troverò. In quanto a me, Fabio, giuro su quel crocifisso che, colpevole o no, non cesserò mai di amarti, e puoi contare ora e sempre sul mio affetto. -
Un singhiozzo strinse la gola dell'imputato, mentre i suoi occhi si empivano di lacrime.
Nella sala vi fu un tentativo d'applausi.
L'idea della fanciulla era stata accolta. Quanto ella aveva detto poteva esser vero.
Incominciò l'interrogatorio a favore dell'imputato. Il suo principale, i commessi, diversi clienti del negozio, tutti attestarono dell'onestà di Fabio, della vita modesta che conduceva, del suo sviscerato amore per Ilda. Nessuno gli aveva conosciuto altre amanti: era rispettosissimo colle commesse e preferito dalle clienti per il suo contegno riservato.
Fabio era commosso, agitato.
Il suo principale lo salutò, dicendo ad alta voce:
- A rivederci, Fabio: io pure, come la tua fidanzata, non ti credo il vero colpevole, e quando uscirai di prigione, troverai sempre il tuo posto presso di me, ti stenderò sempre la mano da amico. -
Fabio si mise a piangere e balbettò a stento:
- Grazie, grazie! Che Dio la ricompensi della sua bontà, che io non merito! -
Continuò l'interrogatorio dei testimoni, ma non ebbero più importanza.
Nella seduta pomeridiana ebbe luogo una requisitoria schiacciante per l'imputato.
Ma la difesa, quantunque riconoscesse che tutte le prove erano contro l'accusato, volle difendere il giovane. Rivelò la dichiarazione della fidanzata, ed aggiunse abilmente che esistevano molti punti oscuri nella faccenda, e sperava che un giorno si facesse piena luce, benchè l'accusato si ostinasse a farsi credere il solo colpevole. Finì col dichiarare che Fabio Ribera poteva sostenere benissimo la sua colpa, i giurati condannarlo, ma che la sua convinzione e quella del pubblico sarebbe quella della coraggiosa Ilda: che l'imputato fosse una vittima.
L'uditorio accolse con simpatia quella difesa, perchè Fabio si era conquistato l'interesse di tutti, e quando i giurati si ritirarono per deliberare, molti fecero voti perchè la condanna fosse mite.
La deliberazione non fu lunga. Il verdetto era affermativo, ma ammetteva le circostanze attenuanti.
Fabio Ribera fu condannato a sei anni di reclusione.
- Non avete nulla da dire? - chiese il presidente all'imputato.
Questi si alzò, e con voce commossa rispose:
- Ringrazio il signor presidente ed i giurati della loro clemenza: sono colpevole, ho assassinato, meritavo anch'io la morte. Ma cercherò di espiare il mio delitto col pentimento. -
La commozione aveva invaso tutti, e mentre il pubblico usciva dall'aula, si abbandonava ancora a mille commenti.
L'imputato era uscito dalla gabbia, ma prima di essere ricondotto in prigione s'incontrò nel corridoio con Ilda, che una persona pietosa aveva fatta passare colà.
A quella vista, il povero giovane scoppiò in dirotto pianto, e mentre ella, con uno slancio spontaneo, gli gettava le braccia al collo, balbettò fra i singhiozzi:
- Grazie, Ilda, angelo mio, posso morire adesso, che non avrei pagata abbastanza cara la felicità di sentirmi così amato da te!
- Tu non devi morire, ma vivere per me, che ti aspetterò. Coraggio! Ne avrò anch'io! -
Furono subito separati, ma essi avevano in quel momento un paradiso nel cuore, e l'ultimo sguardo che si ricambiarono valeva più d'un giuramento.
In quell'istante stesso il conte usciva dalla Corte d'Assise, ed accendendo una sigaretta, mormorava fra sè:
- Sei anni? Sono pochi, ma in questo frattempo cercherò il mezzo di sbarazzarmene per sempre e di ridurre Ilda ad ogni mio volere. -
E salì in carrozza per tornare a casa.