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Carolina Invernizio
I misteri delle soffitte

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V.

 

Il conte Livio era tornato a Torino di cattivissimo umore: ormai Cinzia l'annoiava, eppure non voleva sbarazzarsi di lei, forse perchè la giovane era la sola che avesse penetrati molti dei suoi segreti.

Egli aveva ceduto all'amante il suo elegante quartierino da scapolo, non potendo per il momento sobbarcarsi troppe spese. Una settimana dopo il suo ritorno scrisse un biglietto alla contessa, per avvertirla che aveva necessità di parlarle.

Livio era sicuro che sua moglie non gli avrebbe dato un rifiuto, onde la sera stessa disse allegramente a Cinzia:

- Vedrai che fra qualche giorno potrò offrirti un appartamento migliore di questo, con mobili di palissandro, e comprarti quel fermaglio di brillanti che tanto desideri.

- Sei sicuro che la contessa cederà alle tue minacce? - disse Cinzia.

Livio si arricciò i baffi con aria spavalda.

- Sicurissimo, - rispose - perchè Bianca ha troppa paura dello scandalo, a cagione di suo padre. Firmerà e tacerà! -

Due giorni dopo, verso mezzogiorno, Livio, sempre in attesa della moglie, stava per mettersi a tavola nella sala da pranzo del proprio palazzo, allorchè un cameriere annunziò:

- Il signor Moreno! -

Se un fulmine fosse caduto ai piedi di Livio, non l'avrebbe maggiormente stordito.

In un attimo pensò che Bianca avesse confidato tutto al padre, e fremette.

Il suocero entrò, sorridente, disinvolto, esclamando:

- Se ti trovo a pranzo, vuoldire che non c'è nulla di grave. Bianca ha avuto torto a spaventarsi! -

Livio riacquistò subito la baldanza.

Il signor Moreno nulla sapeva. Bianca non aveva parlato.

Per cui si slanciò incontro al suocero, stendendogli le mani e dicendo con voce commossa:

- Mi aspettavo così poco la tua venuta, che ne sono ancora stordito. Bianca non si sentirà male, spero?

- No, no, rassicurati; è soltanto infreddata, ed io ho trovato imprudente che si mettesse in viaggio, tanto più che io stesso avevo bisogno di venire a Torino. -

Mentre parlava, il conte gli teneva fissi gli occhi addosso, con aria di maraviglia.

Il signor Moreno sembrava ringiovanito. La sua persona, per il solito un po' cascante, si raddrizzava come quella di un giovinotto.

- Hai un aspetto magnifico, - disse il conte - e mi congratulo di vederti così bene. I tuoi dolori reumatici ti hanno lasciato?

- Interamente. Ma giacchè sono giunto in buon punto, non faccio complimenti, mi metto a tavola con te. -

Livio diè l'ordine di mettere un'altra posata.

Il signor Moreno sedette fregandosi le mani con aria soddisfatta e disse a Livio:

- Scommetto che la tua lettera è stata semplicemente un tranello per far venire Bianca, sembrandoti abbastanza lungo il tempo senza lei. -

Livio soffocò la rabbia che internamente lo divorava.

- È vero; - rispose - a te non lo posso nascondere.

- Io l'avevo indovinato; - soggiunse il signor Moreno - ma quella benedetta figliuola è così impressionabile, che ha subito creduto ti fosse accaduto qualche sventura. Basta, oggi stesso le scriverò per tranquillarla, perchè io debbo trattenermi a Torino. -

Durante il pranzo, parlarono di cose futili, ma quando furono passati nel salottino da fumo, il signor Moreno, col sigaro fra le labbra, disse sorridendo:

- Tu non immagini certo ciò che ho deliberato di fare. -

Livio provò una vaga inquietudine.

- Sentiamo, - disse con simulata allegria.

- Vengo a stabilirmi presso di voi. Sono stanco di vivere lontano da mia figlia e di condurre una vita da orso. Io non vi darò noia, perchè ho la mia servitù, e se mangeremo tutti insieme, pagherò la mia pensione. Del resto, piena libertà da ambe le parti. Come capirai, Bianca è contenta della mia decisione. E tu?

- Io pure, padre mio, - disse Livio con dolcezza.

Poi, cambiando tono e fisionomia, avvicinatosi al suocero, disse con accento turbato:

- Posso confidarti una cosa?

- Per certo. Dove potresti trovare un confidente migliore di me?

- Hai ragione. Ah! perchè prima di sobbarcarmi in false speculazioni non mi sono rivolto a te? -

Il volto del signor Moreno non esprimeva alcuna diffidenza.

- È vero! Bianca mi ha parlato alto alto di certi affari da te intrapresi. Ti sono forse andati male?

- Purtroppo! - mormorò Livio con aria compunta. - Sono stato raggirato da un birbante che ha fatto rilucere dinanzi ai miei occhi una vera miniera d'oro, mentre portava via il mio.

- Sei stato troppo ingenuo; non dovevi arrischiare del denaro in speculazioni sconosciute. Che bisogno ne avevi?

- Arrossivo di dover tutto a mia moglie, e sognavo di diventar ricco, di elevare Bianca sopra una montagna d'oro. -

La sua voce si era fatta convulsa.

Il signor Moreno non perdeva la sua espressione bonaria.

- Il tuo pensiero era lodevole; - disse - ma Bianca è ricca abbastanza per due. Quando io più non sarò, la montagna d'oro per lei si troverà inalzata. Intanto spero che la lezione ti avrà servito e non intraprenderai altri affari senza consultarmi. Quando Bianca, la settimana scorsa, venne a trovarti, a passare due giorni con te, le facesti parte della tua sconfitta?

- No, non ne ebbi il coraggio, - disse il conte, che trasalì sentendo che Bianca si era allontanata dalla tenuta col pretesto di raggiungerlo.

Dove si era recata?

Il signor Moreno sorrise.

- Capisco! Tu non hai pensato che al piacere di abbracciarla, - esclamò - e di rinnovare una breve luna di miele! So che conducesti Bianca ad Ivrea.

- Chi te l'ha detto? - balbettò il conte, livido.

- Bianca stessa, - rispose con bonomia il signor Moreno. - Le avevi proibito di farmene parte?

- No, no. -

Egli era spaventato di quanto sentiva, e chinava gli occhi dinanzi agli sguardi del signor Moreno, che rimaneva quieto, sorridente.

- Basta! - disse questi con dolce accento. - Hai fatto bene a non turbare Bianca col racconto della tua sconfitta, alla quale rimedierò io stesso. A quanto ammonta la tua perdita? -

Era il momento decisivo.

Il conte mandò un sospiro, esitò un istante, poi rispose con voce debole:

- A quattrocentomila lire! -

Il signor Moreno non battè palpebra.

- Dammi un calamaio ed una penna, - disse.

Livio si affrettò ad obbedirlo.

Il signor Moreno si tolse di tasca un libretto, ne staccò un foglio, vi scrisse alcune parole e porgendolo al genero:

- Oggi stesso - disse - potrai presentarti dal mio banchiere a ritirare la somma che, m'immagino, non hai pagata.

- No, padre mio.... mi ero reso garante.... firmai delle cambiali....

- Bene, bene: non voglio saper nulla della trappola che ti avevano preparata; paga il tuo debito e non se ne parli più.

- Come ringraziarti? -

E l'ipocrita ruppe in pianto.

Il signor Moreno si alzò, nervoso.

- Se fai così, ti lascio! - disse. - Non occorrono queste scene fra noi! Se ti hanno giuocato un brutto tiro, il tuo onore è salvo, dal momento che io posso pagare. Via, asciuga quelle lacrime, vai a riscuotere il tuo chèque, mentre io mi ritiro a riposare nel mio appartamento. -

Il conte volle accompagnarlo fino alla sua camera e diede ordine al suo domestico di mettersi a disposizione del suocero.

Poi lasciò il palazzo, sollevato.

L'arrivo del suocero l'aveva sconcertato, ma ormai aveva il cuore tranquillo. Peraltro non capiva come Bianca avesse potuto dire a suo padre di essere stata ad Ivrea. Che qualcuno l'avesse avvertita che egli viaggiava in compagnia di Cinzia facendola passare per moglie?

Non volle più stare a riflettere, dal momento che sua moglie stessa lo sosteneva per non dispiacere al padre.

Infatti, se il signor Moreno avesse avuto qualche dubbio sulle infedeltà di lui, non gli avrebbe dato quel denaro!

Riscosso lo chèque, pagato un debito di giuoco, si trovò ancora in possesso di centocinquantamila lire.

Allora si recò a comprare il fermaglio per Cinzia e, andato da lei, glielo presentò con aria trionfante.

- Hai dunque vinto? - chiese ella ridendo.

- Completamente; ma la partita è stata col suocero.

- Come? Come? -

E narrò l'arrivo del signor Moreno, il colloquio avuto con lui. -

Cinzia aggrottava le ciglia.

- Non rallegrarti troppo! - disse infine. - Io non ci vedo chiaro nella generosità del vecchio e nella sua determinazione di stabilirsi a Torino. Gatta ci cova: quell'allusione alla gita di sua figlia con te ad Ivrea mi sa di mistero. -

Quando il conte tornò al palazzo trovò il suocero già alzato e di eccellente umore.

- Che cosa c'è di spettacoli divertenti? - chiese al genero.

Livio lo guardò stupito, tuttavia rispose:

- Una compagnia di operette all'Alfieri.

- Ebbene, andremo ad ammirarla. -

Il conte cadeva dalle nuvole.

Il suocero, così austero, tanto avverso alla società, cambiava ad un tratto di abitudini?

Il signor Moreno pranzò con appetito, mostrandosi molto allegro, incitando il genero ad imitarlo.

Quando giunsero all'Alfieri, il primo atto dell'operetta era quasi al termine.

I due uomini presero posto nella seconda fila delle poltrone e dovettero passare innanzi ad una bellissima bruna, elegante, con un largo cappello alla moschettiera e grossi brillanti agli orecchi.

Era Cinzia che, vedendo il suo amante con quel signore, trasalì, perchè comprese che era il suocero del conte.

Livio non potè trattenere una smorfia vedendo la giovane, e la fissò con uno sguardo corrucciato, che ella ricambiò sdegnosamente.

Il signor Moreno vide quello occhiate, e quando fu seduto, disse al genero:

- Hai veduto quella bruna, nella nostra fila?

- No, - rispose il conte con noncuranza.

- E una bella donna; ma io conosco di meglio: un bocconcino da re: sedici anni o poco più, capelli neri, alta, ben fatta, occhi da far impazzire.

- E dove hai trovata questa fenice?

- Non te lo dirò: è il mio segreto; soltanto non ti nascondo che devo a quell'ammaliatrice la risoluzione di venire a Torino.

- Tanto meglio! - pensò il conte. - Se egli commette delle follìe, saprà scusare le mie! -

L'atto era finito, quando un giovane elegantissimo, dall'aria di buontempone, si avvicinò al conte, stendendogli la mano.

- Buona sera, Livio: vieni stanotte al circolo?

- No, - rispose bruscamente il conte, toccando appena la mano del giovane.

Ma questi non si sgomentò, e senza badare che l'amico era in compagnia di un altro:

- Dimmi, è vero che hai lasciato Cinzia? - chiese.

Il conte, stizzito, chiese:

- Chi è Cinzia? Non la conosco.

- Ah! ah! si vede che sei in collera con lei. Ma scommetto che stasera rifarete la pace: non per niente l'hai seguita al teatro; guardala, com'è bella, con quel cappellone alla moschettiera!

- Ti dico che sei pazzo! Non so di chi tu voglia parlare! -

L'altro divenne subito serio, e togliendosi il cappello, con un'aria fra comica e sprezzante:

- Scusate! - disse.

E andò a sedere vicino a Cinzia.

Livio, livido di rabbia, si volse al suocero:

- È un imbecille, quel giovanotto!

- Perchè? - rispose calmo il signor Moreno. - Ti ha fatto delle domande naturalissime, e tu non dovevi prenderti soggezione di me e rispondere la verità. Io compatisco le debolezze altrui.

- Ti assicuro che colui si è ingannato: io non conosco quella donna.

- Meglio così! -

E siccome l'orchestra aveva sonate le prime battute del secondo atto e il telone si era alzato, il signor Moreno si occupò a guardare la scena.

Il conte e il suocero tornarono al palazzo insieme.

Il signor Moreno si ritirò nel suo appartamento.

Il conte, invece di coricarsi, era uscito novamente per recarsi ad un circolo, dove si giuocava tutta la notte.

Ma non era il giuoco che ve lo attirava: voleva trovare l'amico che aveva osato parlargli di Cinzia in faccia al suocero.

La sua presenza al circolo fu accolta da esclamazioni di gioia, ed il primo che il conte si vide dinanzi fu appunto il giovane che cercava.

Allora, squadrandolo da capo a piedi:

- Chi ti ha dato il diritto - disse - di farmi stasera quelle stupide domande al teatro?

- Il diritto me lo sono arrogato io, - rispose l'altro - perchè credevo di rivolgermi al compagno che si era compiaciuto altra volta di raccontarmi le sue avventure amorose e non mi aveva nascosta la sua relazione con Cinzia, relazione che tutti conoscono, me ne appello a questi signori.

- Ma questi signori ti diranno pure che bisogna essere imbecilli per venire a interrogarmi su tale relazione mentre mi trovavo in compagnia di mio suocero. -

Un sonoro scoppio di risa risonò da tutte le parti. Il giovane rimase scombussolato, e con l'accento del più sincero cordoglio:

- Scusami, amico; - disse - ti assicuro che se avessi potuto immaginare che quel signore era in tua compagnia, non ti avrei rivolte quelle domande stupide, come ben dici. Ma io ti credevo solo, e supponevo che per semplice dispetto tu non fossi vicino a Cinzia. -

Livio parve esitare un istante, poi sorrise, e stendendo la mano al giovane:

- Accetto le scuse, - esclamò - e non ne parliamo più! -

Quella notte giocò, e la fortuna gli fu favorevole.

Quando abbandonò il suo posto per tornare a casa, aveva trentamila lire di più.

La mattina seguente, alzatosi verso le nove, seppe che il suocero era già uscito. Il vecchio tornò a mezzogiorno. Sembrava molto contento.

Il conte fu proprio persuaso che il signor Moreno ignorasse totalmente la sua condotta verso la moglie, e nella sua fatuità credette che Bianca avesse spinto il padre a recarsi a Torino per potere, col suo mezzo, riconciliarsi con lui.

Per cui, quando il suocero gli chiese se voleva accompagnarlo alla tenuta, accettò con entusiasmo.

Si sentiva quasi felice all'idea di riavvicinarsi alla moglie.

Avvertì con un biglietto Cinzia della sua assenza di qualche giorno e partì col signor Moreno.

Quando arrivarono al castello, Bianca abbracciò il padre, quindi porse la mano al conte. Ma quella mano era così fredda, che gli fece capire come egli avesse sperato invano nell'indulgenza di lei.

Tuttavia, trovandosi più tardi solo con Bianca, assunse un'aria compunta, piena di dolore e mormorò:

- Signora, la visita improvvisa di vostro padre aveva aperto il mio cuore alla più dolce delle speranze: speravo che per lui, se non per me, avreste dimenticato e perdonato. -

Ella lo fissò con uno sguardo pieno di disprezzo.

- Dimenticare, perdonare? - ripetè. - Si può farlo per un uomo onesto che un istante di traviamento ha fatto deviare dalla retta via; ma per voi che avete mentito sempre, per voi che, calpestando ogni riserbo, aveste perfino la temerità di presentare come vostra moglie una sgualdrina non può esservi nel mio cuore che odio e repulsione. Evitate dunque di avvicinarmi se non volete che io mi ribelli e vi schiacci! -

E voltategli le spalle, lasciò il conte quasi fuori di sè dalla rabbia.

- Me la pagherà! - pensò, stringendo i pugni.

E uscito dalla tenuta per non incontrarsi in quel momento col signor Moreno, diresse i suoi passi verso la villa del marchese Passiflora. Immerso nei suoi pensieri, il conte camminava con la testa china, quando una voce ironica lo fece trasalire. Era il marchese Passiflora.

- Sempre pensieroso, sempre innamorato! - diceva.

E stendendo la mano a Livio:

- Ti sei dunque deciso a venire un po' in campagna? - soggiunse ridendo.

Il conte si era rasserenato.

- Sono venuto a riprendere la contessa, - rispose. - Ma ti assicuro che, sebbene giunto da poche ore, sono già annoiato. -

Il marchese Passiflora lo prese a braccetto.

- Capisco, birbante, rimpiangi Cinzia! Ma, bada, è pericoloso lasciar per lungo tempo sola una moglie come la tua. Essa potrebbe fare qualche scappatella, che suo padre non si curerebbe di tenerle dietro.

- Per parlare così, tu devi sapere qualche cosa; ma bada, io ho troppa fiducia in mia moglie per nutrire il minimo sospetto contro lei, tanto più se fatto nascere da un uomo che non può dimenticare di essere stato respinto come marito. -

Passiflora aveva tolto il suo braccio da quello del conte, e fermatosi su due piedi lo guardò fisso, seriamente.

- È vero; - rispose - non posso dimenticare il rifiuto di quella giovinetta che mi avrebbe reso felice, come ho l'orgoglio di credere che sarei stato per lei il migliore dei mariti, e fremo pensando che quella felicità è toccata a te, che eri meno degno di ottenerla.

- Marchese!

- Non ti alterare, è la verità! Non credo di offenderti, perchè so quanto vali. Però il tuo trionfo non è durato a lungo. -

Il conte impallidì.

- Che ne sai tu?

- Più di quello che credi, perchè tu e Bianca, da quel tempo, mi siete sempre stati a cuore. Essa non ha tardato a scoprire che il suo prescelto non valeva il rifiutato; e per consolarsi di veder distrutta la sua cara illusione, è andata in cerca di un altro. -

Il conte gettò un grido di furore.

- Marchese, voi insultate mia moglie e me ne renderete conto!

- Quando vorrete, mio caro! - rispose senza scomporsi il marchese. - La contessa almeno mi sarà grata di averla sbarazzata di voi.

- Non so che mi tenga dallo schiaffeggiarvi! -

Passiflora si mise a ridere.

- Ve lo dirò io, conte: la paura. Perchè voi siete audace soltanto con le donne, di cui sapete benissimo sbarazzarvi quando ne siete stanco. -

Queste ultime parole, dette a caso, ebbero un effetto fulminante sul conte. Egli indietreggiò livido, barcollante,

Passiflora rideva sempre.

- Vedete, caro conte, - soggiunse - che ho còlto nel segno. Ma rinfrancatevi, io non ho alcuna volontà di battermi con voi: lo farei soltanto se vostra moglie chiedesse il mio appoggio. Sfortunatamente Bianca mi odia, perchè mi crede vostro amico, mi giudica forse alla stessa stregua, e va in cerca di un puro ideale. -

Il conte, furente, si riavvicinò al marchese.

- Voi vorreste farmi credere che mia moglie ha un amante; - disse con voce alterata - ma non ci riuscirete.

- Ne sono persuaso, - rispose il marchese con oltraggiosa disinvoltura. - Da questo lato vi torna più comodo fare il sordo. -

Gli voltò le spalle e si allontanò.

Livio ristette immobile, finchè non lo vide sparire fra un gruppo di alberi. Tuttavia mai il suo orgoglio aveva tanto sanguinato. Era stato insultato dal marchese, che forse narrerebbe la scena gettando il ridicolo su lui!

Sua moglie aveva un amante?

- Lo saprò, - disse con la gola stretta.

 

 

 




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