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Carolina Invernizio
I misteri delle soffitte

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VI.

 

Mentre si svolgevano queste scene, Fabio scontava il suo delitto in prigione, rassegnato al suo destino. Egli lavorava nell'amministrazione delle carceri, dove sono ammessi i detenuti di ottima condotta, e così le sue giornate, sebbene monotone, trascorrevano abbastanza presto.

Le notti erano terribili: nel silenzio della cella, Fabio si abbandonava a spaventevoli scoppi di dolore, di collera, di disperazione. Rivedeva la sua vittima, ricostruiva l'orribile scena di quella notte, si contorceva sotto accessi di convulsioni, fino a che cadeva inerte sul giaciglio ed un sonno pesante scendeva a lenire i suoi rimorsi, i suoi dolori.

Poi, a poco a poco, anche quegli accessi si calmarono e le sue notti furono meno agitate.

Quando pensava a Ilda, gli sembrava che tutto il sangue gli affluisse al cuore con violenza, trovava in sè un tesoro di energia sublime che gli faceva dimenticare il luogo dove si trovava, quanto era accaduto.

Ah! se avesse potuto dire almeno a lei...!

Ma no, egli avrebbe taciuto sempre: era necessario, lo doveva: una morta gliel'aveva imposto.

Fabio parlava pochissimo coi suoi compagni di carcere, ma si mostrava così buono con tutti, che nessuno nutriva astio contro lui.

I giorni, i mesi scorrevano.

Per Natale quasi tutti i prigionieri ricevono qualche regalo.

A Fabio pervennero diversi doni della fidanzata, del suo principale, e alcuni doni anonimi, ma che egli doveva ben sapere da chi gli pervenivano.

Libri, oggetti, dolci, erano stati prima minutamente visitati, ma i pochi biglietti che li accompagnavano potevano essere consegnati al prigioniero.

Quello di Ilda diceva:

«Coraggio e speranza in Dio: lavoro per te, non ti dimentico, ti sono sempre vicina col cuore.»

Il suo principale gli scrisse, inviandogli una scatola di dolci squisiti:

«Perchè tu veda che non sei dimenticato. Buon Natale!»

E «Buon Natale!» stampato, ripeteva l'invio dei doni anonimi.

Fabio pianse di gioia; distribuì i dolci fra i suoi compagni; per sè tenne soltanto un libro rilegato, Le mie prigioni di Silvio Pellico. Si mise sul cuore il biglietto di Ilda.

Quella notte egli si addormentò col sorriso sulle labbra.

Il giorno dopo, all'ora della ricreazione, incominciò la lettura delle Mie prigioni.

Aveva già percorse alcune pagine, quando sussultò.

Nelle interlinee di un foglio vi erano scritte delle parole in un carattere minutissimo.

Lo scritto diceva:

 

«Tu hai presunto troppo della fedeltà di Ilda: essa ha un amante che le ha regalato una palazzina, carrozza e cavalli ed è diventata una delle mantenute più in voga.

«Ilda ha sprezzato l'appoggio del sincero amico che tu le lasciasti, ha riso di lui, l'ha perfino minacciato, sperando di farlo tacere. Ma ho voluto avvertirti, a costo di tutto, perchè mi si strazia il cuore nel vederti così ingannato. Io continuerò a vegliare su lei, e qualunque cosa succeda ti avvertirò. Intanto, se puoi, dimenticala: essa è indegna di te.

«Tu hai avuto troppa fiducia in lei.»

 

Fabio rimase come stupidito.

Chiuse il libro e dopo poco tornò al lavoro, che disimpegnò macchinalmente.

Quella sera, gettatosi bocconi sul pagliericcio, scoppiò in singhiozzi.

Tradito, tradito da lei, che il giorno prima gli aveva scritto quel biglietto che teneva sul cuore.

Eppure l'uomo che aveva vergate quelle parole, il conte Livio, il suo protettore, non poteva ingannarlo!

Ma perchè Ilda gli scriveva: «Coraggio e speranza in Dio: lavoro per te, non ti dimentico, ti sono sempre vicina col cuore»?

Per alcuni giorni Fabio ebbe nuovamente accessi di disperazione che sembrava dovessero renderlo pazzo; poi, un senso di stanchezza lo colse, ed egli continuò ad eseguire macchinalmente il suo lavoro; ma era pallido, accasciato.

Per certo se il conte lo avesse veduto in quei giorni, avrebbe pensato che Fabio non uscirebbe più da quel carcere che cadavere.

Ma anche Livio non si trovava sopra un letto di rose!

Dopo la scena avvenuta col marchese Passiflora, il conte nascose il suo avvilimento e ingoiò tutto l'amaro versatogli dal marchese, col pensiero di vendicarsi un momento o l'altro di lui.

Intanto il signor Moreno tutto disponeva per la propria partenza.

- Ora sono tranquilla! - disse la buona Celia alla sua cara padrona. - Lei non ha più nulla da temere. Con suo padre vicino, il conte si guarderà bene dal recarle un dispiacere.

- È vero; - rispose Bianca - ma d'ora innanzi non mi sarà più concesso di vedere Aldo ed abbracciare quella bambina: l'ho promesso a mio padre, e manterrò la mia promessa fino a quando il conte non verrà smascherato e tutto sarà finito fra noi.

- Ma lei può scrivere al giovane ed avere notizie della bambina.

- Questo sì; se il babbo me l'avesse proibito, ne sarei morta. -

Il conte conservava la sua perfetta disinvoltura dinanzi al suocero e sembrava il migliore dei mariti.

Al loro arrivo a Torino, il signor Moreno si stabilì nel suo appartamento, perfettamente libero, dove poteva tenere presso di sè Lucia ed il suo fidato cameriere. Egli fece fare una porticina segreta che metteva in comunicazione le sue stanze con quelle della figlia.

Al conte Livio fu nascosta l'esistenza di quella porticina.

Incominciava il dicembre.

Verso le quattro, i portici erano affollati.

Un giorno Livio, con alcuni amici, si era diretto verso Baratti.... Camminavano chiacchierando, ridendo, ammirando le belle che passavano loro vicino.

Dinanzi alla confetteria Baratti si fermarono in gruppo. In quel momento uno dei compagni di Livio disse ad alta voce: - Ecco la Cleo. Fortunato il mortale che la possiede! -

Livio si volse e rimase trasecolato. La giovane che il suo compagno aveva chiamata Cleo era Ilda, la fidanzata di Fabio, la fanciulla che avrebbe voluto far sua a costo di un delitto.

Ella appariva di una bellezza maravigliosa, vestita con eleganza suprema. Sotto il largo cappello a piume, i capelli nerissimi, divisi sulla fronte, le scendevano fino agli orecchi, ai quali scintillavano due brillanti di una grossezza straordinaria. Nulla di più voluttuoso del pallore del suo volto, dei suoi occhi bistrati, color verde-mare. Le labbra provocanti, di un rosso acceso, mettevano in mostra, nel sorriso, denti di una bianchezza lattea.

Passò altera dinanzi al gruppo dei giovani, entrò da Baratti e non tardò ad uscirne, tenendo fra le dita inguantate un pacco di caramelle. Sali in un superbo coupè a due cavalli, che attendeva fuori dei portici.

Tutto ciò era avvenuto in così breve tempo, che il conte credette di essere vittima di un'allucinazione, nè si scosse che quando Ilda si fu allontanata.

Allora si volse vivamente al compagno chiedendogli:

- Chi è quella Cleo? Che fa? Come la conosci?

- Ih! ih! quante domande! - risposo l'altro ridendo. - Ti ha dunque subito stregato, la bella ammaliatrice? Essa è mantenuta da un milionario incognito. Già da un mese frequenta i ritrovi eleganti, e so che molti vanno pazzi per lei, ma inutilmente. Il suo Creso, che qualcuno dice sia un russo, ha acquistato per lei una palazzina stupenda. La giovane ha preso il nome di Cleo, perchè per l'addietro fu protagonista di un dramma da Corte d'Assise. -

Il conte aveva il cervello in fiamme; i suoi occhi lanciavano foschi lampi.

Ilda si era presa giuoco di lui!

Ilda era l'amante di un altro, mentre egli, per averla, avrebbe dato la vita!

E Fabio ignorava tutto, passava i suoi giorni fiducioso nella fedeltà della fanciulla che l'aveva difeso con tanta passione!

Ma egli l'avrebbe avvertito, anche per dargli così un colpo terribile, forse mortale. Sbarazzarsi di quell'uomo, il cui pensiero lo tormentava ogni notte, impadronirsi di Ilda, era in quell'istante il suo desiderio unico.

Come fare?

Dopo avere a lungo pensato, si recò quella stessa sera a casa di Cinzia.

L'ex ballerina od il conte si erano nuovamente divisi con tacito accordo: Cinzia, ripresa la propria libertà, si era stabilita a Torino, ed un negoziante di cereali aveva preso il posto di Livio. Però fra il conte e Cinzia rimaneva un'apparenza di amicizia: avevano stabilito che entrambi, all'occasione, si sarebbero scambievolmente aiutati.

Livio trovò la giovane a casa e sola.

Ella stava cenando, e veduta alla luce del gas, appariva seducentissima nell'abito rosa.

- Che buon vento ti guida? - chiese stendendo la mano al conte.

- Vorrei sapere se conosci una certa Cleo. -

Cinzia fece un brusco movimento, guardò il conte con occhi fiammeggianti.

- Se la conosco? - proruppe con accento d'odio. - È una mia rivale! Quando m'incontra mi guarda con aria di sfida, sorride con disprezzo.... Ah! se potessi schiacciarla! -

Livio era ritornato calmo.

- Te no darò i mezzi io, - disse.

- Se tu farai questo, - esclamò Cinzia con voce carezzevole - io ti obbedirò come una schiava! -

Il conte, fissando i suoi occhi in quelli di lei, disse con voce bassa e fremente:

- Ebbene, ascoltami.... -

 

 

 




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