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Carolina Invernizio
I misteri delle soffitte

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IV.

 

Passato l'anno del lutto, Livio menò vita scapigliata E dispendiosa.

Il conte Sebastiano seppe presto dei disordini di suo figlio.

Un giorno, durante il pranzo, egli osservò che Livio era molto turbato, per cui nell'alzarsi da tavola gli disse:

- Ho da parlarti: andiamo nel salotto da fumo. -

Il giovane divenne livido, ma rispose con abbastanza disinvoltura:

- Sono ai tuoi ordini, babbo! -

Seduti l'uno di faccia all'altro, il conte, guardando il figlio con espressione d'immenso amore, gli disse con accento pieno di paterna tenerezza:

- Perchè non hai fiducia in me, figlio mio? Io so che hai perduto al giuoco cinquantamila lire in una notte, e per pagarle ti sei messo in mano agli strozzini. -

Il giovane stava per negare, ma comprese che avrebbe commesso una pazzia. Allora pensò bene di cadere alle ginocchia del padre, e mentre grosse e bugiarde lacrime comparivano nei suoi occhi:

- È vero! - balbettò. - Perdono, padre mio, perdono: ti prometto di non toccare mai più una carta. Mai!

- Va bene; alzati e siedi; non ti ho detto ancor tutto. -

Il giovane sembrò attendere umilmente.

- Mi hanno poi detto che mantieni una ballerina, una minorenne, cui hai regalato gioielli, carrozze e cavalli, come se tu fossi un milionario.... È vero? -

Livio mostrò una certa audacia.

- Sì, non lo nego! - rispose. - Ma suppongo che la povera mamma mi abbia lasciato un vistoso patrimonio. -

Quell'allusione afflisse il conte Sebastiano. Per quanto grande fosse la sua adorazione per la defunta, non voleva che suo figlio si facesse delle illusioni.

- La tua povera mamma non ha lasciato nulla, - rispose con tono grave - ed ho dovuto pagare molti suoi debiti perchè non venisse profanata la sua memoria. Non faccio un rimprovero a quella santa; essa non conosceva il valore del denaro. -

Livio era alquanto scombussolato.

- La mamma mi disse più volte che ti aveva portato in dote centomila lire di reddito.

- È verissimo; ma stante la sua prodigalità, in pochi anni finì la sua dote e più della metà di ciò che io stesso possedevo. Col mio lavoro potei salvare il resto ed aumentare a poco a poco il patrimonio, riuscendo in tal modo a non turbare la tua povera mamma, a lasciarle continuare la sua esistenza di lusso. Ed è morta, ignorando tutti i sacrifizi da me fatti per lei. -

Livio rimaneva a capo chino.

Il conte proseguì:

- Sarei però un cattivo padre se lasciassi percorrere a te la stessa china fatale, mentre ormai sei un uomo e puoi comprendere come l'esistenza non sia fatta di soli piaceri. Io ho sempre lavorato, e d'ora innanzi lavorerai anche tu. Pagherò tutti i debiti da te fatti, purchè tu mi prometta di nuovo di non più frequentare case da giuoco e di lasciare quella ballerina.

- Te lo prometto; - disse Livio - d'ora innanzi mi lascerò guidare da te. -

Livio mentiva come sempre. Tuttavia per qualche tempo sembrò tornasse savio. Pagati i debiti, lasciata l'amante, si mise al lavoro. Suo padre gli affidò la contabilità.

Un giorno il conte affidò al figlio ventimila lire per fare un pagamento. Appena Livio ebbe quel denaro nelle mani, fece un viaggetto di piacere con una canzonettista, ed appena a Milano, telegrafò al padre:

 

«Non ho resistito alla tentazione. Fai tu il pagamento. Tornerò presto.»

 

E tornò infatti dopo una settimana, completamente al verde.

Questa volta il conte Sebastiano ebbe per lui parole roventi di rimprovero. Suo figlio aveva abusato della sua fiducia; era doppiamente colpevole.

Livio, invece di chiedergli perdono, si ribellò, mostrandosi quale veramente era: cinico, audace, vizioso. Voleva imporre al padre, ma non ci riuscì: il conte tenne duro, gli lesinò il denaro, gli disse che non avrebbe più riconosciuto alcun debito fatto da lui.

Frattanto lo sventurato padre si sentiva morire di cordoglio.

Una mattina il conte Sebastiano, còlto da grave malore, spirò in meno di un'ora.

Livio era libero! Libero di divertirsi, di spendere, di godersi la vita, senza che alcuno controllasse le sue azioni.

 

 

 




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