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Carolina Invernizio I misteri delle soffitte IntraText CT - Lettura del testo |
PARTE QUARTA
Dramma fraterno.
I.
La villa Bianca, situata sulla collina di Moncalieri, in un'altura dominante le ville circostanti e lontana da tutte, era un vasto fabbricato, circondato da un parco grandissimo.
Livio Rossano, compratala, vi si era stabilito colla moglie.
Si diceva che tanto il conte quanto la contessa, dopo i dolorosi avvenimenti che avevano funestata la loro vita, sentivano la necessità della solitudine.
Tornati da un viaggio che durò quasi due anni, si erano ritirati alla villa Bianca, e da tre anni che vi abitavano
nessuno aveva ancora veduto la contessa: essa non riceveva, nè voleva vedere alcuno.
La servitù era stata cambiata. Celia fu rimandata al suo paese, e al fianco della contessa era una donna di fiducia di Livio: il conte non aveva preso cameriere, perchè diceva di attenderne uno che doveva venire da lontano e l'aveva servito altre volte con perfetta devozione. Anche la scelta della cuoca, del cocchiere, del giardiniere e degli altri domestici era stata fatta da lui. Tutti avevano ordini precisi, e guai se li avessero trasgrediti! Nessuno poteva penetrare negli appartamenti del conte e della contessa senza essere chiamato. Si sapeva che il conte e la contessa non mangiavano insieme, ma nessuno ne stupiva, perchè Bianca, per la sua salute malferma, aveva bisogno di un regime particolare. Del resto, se qualche volta si bisbigliava in cucina sui rapporti fra marito e moglie, quelle voci non uscivano al di fuori e nessuno avrebbe pensato a trasgredire gli ordini del conte.
La contessa Bianca aveva ereditato dal padre un patrimonio colossale ed aveva lasciato piena procura al marito di amministrarla.
Ed il conte non abusava di quella fiducia: si sapeva che non giuocava più, non si occupava più di altre donne che della propria.
Eravamo sul finire di maggio. Verso il tramonto di un sabato, sulla lunga erta che conduceva alla villa, saliva penosamente un uomo sui trent'anni, con una valigia e un nodoso bastone. Era un individuo dalla faccia sparuta, circondata da barba folta e lunga, di un biondo cinereo. Il largo cappello di feltro nascondeva la capigliatura. Un fazzoletto di seta gli cingeva il collo.
Egli si fermava ad ogni tratto per guardarsi attorno. Sulla sua bocca esangue errava un sorriso di soddisfazione. L'uomo era giunto quasi alla metà dell'erta, quando un altro individuo che veniva dalla villa gli si fece incontro correndo.
- Fabio, Fabio, sei tu, finalmente! - esclamò. L'uomo, lasciando cadere valigia e bastone, stendeva le mani scarne, balbettando:
- Voi? Voi, conte? Quanto siete buono! La gioia di rivedervi mi fa dimenticare tutto! -
Barcollava. Livio, giacchè era lui, lo trasse al suo petto e lo baciò.
- Se tu sapessi come ti attendevo! - mormorò. - Io ho bisogno di avere un amico come te al fianco. Non credo più a nulla, all'infuori di te!
- Tutta la mia vita vi è dedicata.... - rispose Fabio con voce alterata, tremante.
- Grazie, ma ora cerca di rimetterti! Devi essere stanco; perdonami di averti fatto venire a piedi dalla stazione, ma non volevo dar sospetti.
- Non sento più alcuna fatica vicino a voi! -
E lo guardava, mentre camminavano vicini. Come gli parve invecchiato, benchè a prima vista questo cambiamento non lo avesse colpito!
I due uomini erano giunti alla villa. Presso il cancello, attendevano un domestico ed il giardiniere.
Il primo, ad un cenno di Livio, tolse dalle mani di Fabio la valigetta, l'altro salutò. Nessuno disse parola.
Livio condusse Fabio nella camera che gli aveva destinata, divisa dalla sua da un breve corridoio. Era una bella camera spaziosa, tappezzata graziosamente di carta a fiorami. Ma ciò che commosse soprattutto Fabio fu di trovare a capo del letto due ritratti: quello della contessa Rossano e quello della presunta madre di Fabio.
Il povero giovane rimase per un momento stordito, incapace di articolar parola; poi si volse al conte per ringraziarlo, e con una commozione mista a spavento, lo vide inginocchiarsi davanti a lui, lo sentì dirgli:
- Io sono stato un infame con te, Fabio: ti ho disonorato, reso assassino; e tu, generoso, non ti smentisti mai, non mi accusasti.... Perdonami.... perdonami!... -
Fabio lo rialzò con un grido.
- Non parlate così: io sono cosa vostra: voi solo eravate padrone di disporre della mia vita, del mio onore. Io tutto avrei fatto per voi! -
Livio lo strinse al suo petto.
- Oh! mio solo amico! - mormorò singhiozzando.
Livio volle che Fabio, appena rifocillatosi, si coricasse.
La mattina dopo, Fabio dormiva ancora, quando il conte entrò nella sua camera.
- Caro Fabio, - gli disse sedendosi accanto al letto - come sono contento di vederti! Ho tanto bisogno di discorrere con qualcuno che mi comprenda! -
Egli chinò il capo sulla coperta, come se non potesse ritenere le lacrime.
Fabio era commosso.
- Sono stati molto cattivi con voi, ma hanno avuto la loro punizione! - disse con un tremito.
Il conte alzò all'improvviso il capo mostrando il volto contratto.
- Io ho sofferto più di tutti! - disse. - Ascoltami, voglio aprirti il mio cuore. Tu conosci ormai la trama ordita contro me, la lega formata fra il miserabile che ti arrestò e la tua perfida fidanzata.... Ma tu, l'ami ancora?
- No: la odiai un istante, poi quell'odio si è spento, dando luogo al più profondo disprezzo. Essa è morta per me! -
Rimasero un istante silenziosi, quindi il conte riprese lentamente:
- La condanna di Aldo, la scomparsa di Ilda che seppe sottrarsi colla fuga all'arresto, la scoperta di tutti questi orribili intrighi, furono un colpo supremo per mio suocero. Una congestione lo fulminò. Ma come se questo non bastasse, sua figlia, la mia sventurata Bianca, smarrì la ragione. La sua pazzia non è terribile! Essa non strepita, non grida; ma se io mi avvicino, è presa da un fremito, il suo occhio spento s'illumina, il suo volto si contrae con un'espressione di spavento e di orrore. Bianca è persuasa che io le abbia assassinato il padre, e che ora voglia attentare alla stessa sua vita. Invano io la supplico di credere alla mia innocenza, invano le ho mostrato il rapporto del medico sulla morte del signor Moreno. Bianca non mi crede. -
Fabio aveva l'animo straziato.
- Non vi è speranza di guarigione? - mormorò.
Il conte scosse il capo.
- Ho tutto tentato, ma inutilmente! Dio solo potrebbe compiere un miracolo. Mi avevano suggerito di metterla in una casa di salute, ma non avrei la forza di separarmi da lei. Non ti nascondo che tanto qui come a Torino ignorano la pazzia di Bianca: la credono soltanto malaticcia. Io attendevo ansiosamente la tua venuta, perchè almeno di te posso fidarmi.
- Oh! disponete pure della mia vita!
- Ecco quello che desidero da te. Io ti presenterò alla servitù come il cameriere fidato che attendevo, al quale dovranno obbedire come a me stesso. Sarà necessario ti cambi il nome: ti chiamerò Martino. Tu stesso farai la pulizia della mia stanza e di quella della contessa, alla quale ti presenterò, dandoti tutte le mie istruzioni. Tu sorveglierai tutto e tutti, riportandomi i discorsi che udrai. Fra me e te parleremo in tedesco, lingua che nessun altro qui conosce.
- Farò tutto quanto desiderate. -
Il conte ebbe un nuovo impeto di espansione.
- Ah! qual sollievo provo nell'aprirti tutto il mio cuore! Adesso tu mi aiuterai a sopportare la mia sventura. Venisse un giorno che Bianca guarisse!
- Sperate, conte, sperate! -
Lo stesso giorno Fabio, rivestito di nuovi abiti, coi capelli e la barba accuratamente aggiustati, venne presentato al servidorame come il cameriere di fiducia del conte, sotto il nome di Martino. Livio dette ordine che fosse obbedito come lui stesso.
Quando ebbe finito colla servitù, il conte si rivolse a Fabio e gli disse:
- Ed ora andiamo dalla contessa! -