I
Dopo l'infelice giornata di Custoza, Brescia, ritornata colla Lombardia
sotto l'austriaco reggimento, o per meglio dire sotto la militare licenza, aveva
serbato il più austero, il più dignitoso contegno. Mesi lunghi e lentissimi
corsero per quella generosa città dall'agosto 1848, al marzo 1849, se si pensi
che l'un di più che l'altro crescevano i motivi all'odio contro i truculenti
generali dell'Austria, e la baldanza a questi e la disperazione d'ogni indugio;
e più ancora se si consideri che molti incitamenti e d'uomini e di circostanze
rinfuocavano le speranze e irritavano l'impazienza dei popoli. Ma nè lo scoppio
della rivoluzione avvenuta in Vienna nell'ottobre, nè i moti della Valle
Intelvi scossero la forte Brescia, a cui pareva che fossero da aspettare più
sicuri segni e più fidi consigli.
Intanto infuriavano gli invasori, ebbri di paura e di vendetta. Oltre alle
prescrizioni, agli assassini legali, ai sequestri, alle multe, che ingoiavano
interi patrimonî, alle bastonature e alle prigionie mettevano mano ai più
strani ed insoliti argomenti di tirannide. Bandivano una tassa sulle pietre e
sui mattoni che si fossero trovati altrove che nei fondachi dei venditori, o in
sull'opera dei manovali; richiamavano i disertori, che era quanto dire la
gioventù profuga oltre il Ticino o pei monti, minacciando di trascinare al
servizio militare i parenti di quelli, e non erano pochi, che non rispondessero
all'appello; reprimevano peggio che con parole una scaramuccia infantile,
animoso simulacro di guerra; giungevano fino alla stoltezza di comandare la
gioia e di obbligare i cittadini a mostrarsi frequenti ai teatri. Non contenti
di queste prepotenze, presto si misero sul truffare e sull'insidiare. Sitibondi
d'oro, fabbricavano larve di congiure, e assoldavano sicarî e spie per
ripescare multe e confische. Fra gli iniqui fatti, fu iniquissimo il sequestro
di molti arredi militari, appartenenti al cessato Governo Provvisorio, di cui
già il Municipio aveva dato nota al Comandante austriaco, e che nondimeno gli
valsero pretesto per taglieggiare la città d'un mezzo milione di lire. Ma le
minacce, le angherie e le estorsioni non piegavano gli animi invitti e fissi nell'avvenire:
lusinghe e terrori non valsero a fare che la Congregazione Provinciale mandasse
a Vienna, come ne aveva comando, a promettere fedeltà e ad invocare perdono al
nuovo imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe. L'avvocato Saleri, probo e
venerando vecchio, e dopo di lui il Sangervasio, eletti, non senza recondito
consiglio, a curvarsi sotto quelle forche caudine, rifiutarono con risoluta
fierezza: e la plebe, vedendo uomini cresciuti nella mollezza degli agi e degli
studi sfidare l'esilio e il gibetto, imparava come si dovesse amare la patria,
e come fosse onorevole e desiderabile di patire per essa.
Quelle enormezze soffriva Brescia con fiera dignità, senza infingersi, ma
senza correre a precipitosi consigli. Per lo che gli Austriaci, dopo avere indarno
usato le blandizie e le provocazioni, querelavansi nei loro bandi, che tutta la
popolazione bresciana si mostrasse incocciata nelle tristizie liberali. Ma i
Bresciani lasciavano strepitare i generali Haynau e d'Appel, e attendevano a
riaversi dallo sbalordimento, e a raccogliere in una muta e generale congiura
tutte le forze della provincia.
A confermarli in questo proposito si aggiunsero verso la metà di novembre i
conforti de' fuorusciti lombardi, che, in gran numero, raccozzatisi in
Piemonte, assediavano re Carlo Alberto e il Parlamento e l'Esercito perchè non
venissero meno ai patti giurati della unione, e commuovevano l'opinione
pubblica, mirabilmente spalleggiati da quanti erano in quelle provincie amatori
del vivere libero e teneri dell'onore italiano.
«E scrive il Correnti1, tanto valse la fede recente del più solenne
patto politico, di cui la storia dia esempio, e la pietà d'un popolo intero di
profughi, che protestavano di non esser stati vinti e di non volersi rendere
vinti, ed il dispetto di una fuga inesplicabile, che in breve il Piemonte si
rincuorò e tornò a credere a' propri destini. E anche i più restii per
diffidenza o i più avversi per interesse alla guerra di libertà, sentendo
rinforzare il vento contrario, non osavano più predicar la pace ad ogni costo,
e aspettavano l'opportunità, o di rompere la guerra, quando altro non si
potesse, o di far la pace in termini meno disonesti. Ma nell'ottobre e nel
novembre, giunte le novelle della rivoluzione viennese e della guerra fra l'Austria
e l'Ungheria, fuggito Pio IX, e prevalente la democrazia in Roma ed in Toscana,
più si rinfiammarono le impazienze del partito della guerra in Piemonte, e le
speranze dei Lombardi. E il Ministero, benchè tutti lo giudicassero deliberato
a temporeggiare insino all'ultimo, pure, non sappiamo se per tenersi aperta
anche la via delle armi o se per qualche più cupo consiglio, cominciò ad
accogliere più benignamente i capi dei fuorusciti e ad assecondarli. Di che
tosto si videro i frutti: perchè in poche settimane furono annodate infinite
corrispondenze coll'interno di Lombardia, e si vennero formando lungo il
confine molti Comitati, ove i profughi di maggior seguito e i più operosi
raccoglievansi a dare in comune il miglior indirizzo alla vasta cospirazione, che
dovea dar vinta in tutta Italia la seconda guerra dell'indipendenza.»
La provincia di Brescia, animosa e concorde, rispose anch'essa all'invito
de' fuorusciti e del governo piemontese; e mostrò di correre volonterosissima
incontro ai nuovi pericoli. A Torino temevasi da que' popoli qualche precipizio
fuori di tempo; se non che la prudenza fu pari all'ardore. Nè mai le spie
dell'Austria seppero fiutare dove mettesse capo il Comitato insurrezionale;
chè, se le forze pubbliche e regolari non avessero fatta sì misera prova,
avrebbe presi tutti ad un colpo gli oppressori d'Italia.
Nel cuore dell'inverno chi teneva in Brescia il filo della vasta trama,
sovvenuto da alcun poco di danaro, cominciò ad avviare, per un giro lunghissimo
di valli e di monti, verso il Piemonte, i disertori ed i coscritti affinchè
ingrossassero le file di quella divisione, che, conservando il nome di Lombarda,
era simbolo della unione italiana e pegno di guerra. Altri coscritti e
disertori, con infinito pericolo, soccorse di denaro e di consigli, perchè in
quell'aspra stagione potessero annidarsi per entro le valli meno accessibili, e
indurarvisi alle armi e alle abitudini dei guerriglieri.
Frattanto in Brescia, sotto gli occhi della polizia militare, in mezzo a
numero grande di cagnotti e di delatori, correvano letti, ricopiati, imparati a
memoria certi foglietti a stampa, mandati dai fuorusciti, ove brevemente si
narravano le speranze della causa italiana, si indicavano gli ostacoli, si
incuoravano i buoni, si minacciavano i seminatori di scandali e gli uomini
venali. «Questi fogli, scrive il Correnti, che non tanto creavano quanto
esprimevano i sentimenti popolari, diedero occasione e modo di riconoscere la
mirabile e profonda concordia degli animi e la forza, infino allora latente, della
opinione. I tristi impaurirono, gli astuti assecondarono, gli incerti e i
tiepidi si rinfrancarono; e una vasta, universale, muta ma nondimeno quasi
direbbesi pubblica congiura si venne ramificando e rassodando senza bisogno di
assembramenti e di complicate affigliazioni. Così nel mentre il Comitato
segreto attendeva con infinite cautele a comprar armi, ammannir munizioni,
levare le piante de' fortilizi eretti d'intorno al castello e in sulle Alpi
Camunie, tessere una vasta rete e sicura di corrispondenze e di esplorazioni,
lo spirito pubblico con quella misteriosa sagacità che tiene del divino,
sembrava indovinare e presentire quel che si andava preparando. I cittadini
guardandosi negli occhi s'intendevano e si favellavano. Tutti dicevansi: il
Piemonte è in armi, Roma e Toscana si mettono in punto, dieci milioni di
Italiani sono liberi di pensare e di concertare la vendetta: alla prima novella
che l'esercito nazionale siasi mosso, noi faremo in modo che cotesti cani non
possano nè corrergli incontro, nè ritirarsi a salvamento nelle fortezze.»
Tra le speranze e i timori, sotto il permanente patibolo, in mezzo alle
insidie nostrali e straniere, passò l'inverno del 1849, memorabile per coloro
che lo vissero tra le incertezze dell'esilio, ma più ancora per coloro, che,
prigionieri e quasi esuli in patria, lontani e segregati dalle notizie degli
eventi da cui pendeva il loro destino, sospesi tra l'infamia e la gloria,
passavano le notti insonni; aspettavano ogni domani il giorno della vendetta, e
della libertà.
Più la primavera veniva avvicinandosi, più riavvampavano gli animi;
crescevano le speranze, e con queste i timori.
Il 14 marzo giunse la notizia che l'armistizio tra l'Austria ed il
Piemonte, era stato disdetto due giorni prima a mezzodì; che il 20 comincerebbero
le ostilità, che i fuorusciti sarebbero entrati coll'esercito, e prima
dell'esercito; che cento mila soldati stavano lungo il Ticino, pronti a
rivendicare i diritti d'Italia.
Il dì 16 la guarnigione austriaca partiva da Brescia. Il generale d'Appel lasciava
nel castello cinquecento uomini con quattordici pezzi di cannone, sotto gli
ordini del capitano Leshke; alle falde di quello, nel Quartiere di Sant'Urbano,
oltre sessanta gendarmi; nel Broletto, ov'era la Delegazione, il Tribunale
della cassa pupillare e l'Ufficio della Polizia, un buon polso di soldati:
nella sua solita stanza il Comandante di Piazza; negli ospedali di San Luca,
Sant'Eufemia e San Gaetano da settecento in ottocento ammalati e un certo
numero di medici.
Cogli Austriaci partivano le spie più notorie, gli sgherrani d'Haynau e
d'Appel, e i pochissimi partigiani del dominio dell'oppressione.
Tant'era la fede in Dio e nella patria, che i Bresciani, senza distinzione,
pronti aspettavano un cenno per insorgere; e nessun altro timore o dubbio
avevano che quello di parere, per intemperanza di coraggio, o troppo
impazienti, o poco disciplinati.
Appena gli Austriaci ebbero sgombrata la città, il Municipio, che era stato
ricomposto poche settimane prima a capriccio dell'autorità militare, e alla cui
direzione era stato messo Giovanni Zambelli, uomo tenuto ligio agli
stranieri2, mandò fuori due bandi: in uno raccomandava ai cittadini la
prudenza, e prometteva la guardia civica, perchè più facilmente si potesse
mantenere la quiete: nell'altro, che faceva imponente la guarnigione del
castello, minacciava in caso di disordini, il bombardamento. Codeste scede non
piacevano punto a quelli che erano deliberati a far davvero; nè piaceva loro il
Zambelli. E ormai il tempo degli indugi era trascorso; imperocchè le prime
ostilità s'erano già rotte dalle bande montanare, le quali, guidate
dall'animoso curato di Serle, don Pietro Boifava, il giorno 19, per consiglio
del Comitato segreto insurrezionale, che a ciò da quasi un mese le aveva
armate, spesate e ammaestrate, vennero a postarsi sui colli suburbani, e di là
percorrendo le strade avevano predato i traini e le staffette dell'esercito
nemico. Il dì 20 gran folla di popolo si mosse fin sotto la loggia del
Municipio, chiedendo al Zambelli desse luogo ad uomo più degno di reggere il
freno della città in sì gravi momenti. Nella vegnente sera il Zambelli
rinunziava la carica3. Il Consiglio Comunale, presieduto dall'aggiunto
di delegazione Dehò, acclamava allora capo del Municipio l'avvocato Saleri, con
incarico di istituire subito la guardia nazionale per conservare il buon ordine
nella città. Questa istituzione era tanto più urgente, in quanto che i
gendarmi, per aver fatto da sicari durante il terrorismo d'Haynau e di Appel,
erano odiati da tutti i cittadini. Era certo che col loro servizio non li
avrebbero che maggiormente irritati, suscitando intempestiva sommossa.
L'avvocato Saleri, uomo pur distinto per talenti, per specchiata probità e
filantropico sentire, e benemerito alla patria pei miglioramenti sociali che
cercò mai sempre d'introdurre, e, da ultimo, per il nobile rifiuto d'andarsene
nunzio di sommessione a Vienna, forse per l'età sua avanzata o per troppa
dolcezza di carattere, o fors'anche perchè oppresso da una crisi di famiglia
cui era soggetto in quei giorni per grave malattia della moglie, che la
conduceva poscia al sepolcro, mancava di quell'energia che si richiedeva per
simile posto fra un popolo che divampava furore insurrezionale.
Comunque fosse, la città tutta aveva applaudito alla di lui nomina; per lo
che il Saleri, più per riconoscenza che per propria volontà, accettava il posto
conferitogli, e attivava subito la guardia cittadina, eleggendone capi i
dottori Pietro Buffali e Carlo Tibaldi, giovani per capacità, per entusiasmo e
per coraggio adattissimi. Chiedeva armi all'uopo al Comandante del forte, il
quale, dietro replicate istanze, piegando alla necessità, prometteva
quattrocento sciabole; ma come è di solito in tutti i generali austriaci, che
hanno l'inganno a base della loro politica, ne consegnava, come vedremo,
soltanto quaranta. In tal modo la guardia civica riesciva assai difficile ad
effettuarsi, anche per la circostanza che pochi cittadini si facevano
inscrivere, avversi come erano ai servigi che a quella venivano imposti, i
quali non si confacevano punto alla santa causa cui avrebbero voluto
coadiuvare.
Intanto giungeva in Brescia un messo, spedito dalla Giunta insurrezionale
stanziata in Torino, il quale recava le istruzioni del generalissimo
Charnowski, col piano dell'insurrezione lombarda, e coll'ordine che si dovesse
incominciare il moto non più tardi del 21 marzo.
«I fuorusciti, scrive il Correnti, credevano utilissimo che in uno stesso
giorno l'esercito regolare aprisse le sue mosse sul Ticino e sul Po, e le popolazioni
lombarde tutte assieme insorgessero; di maniera che il maresciallo Radetzky,
trovandosi asserragliate le vie, mozzate le comunicazioni, minacciati i fianchi
e le spalle, non potesse concentrare lungo i confini le sue masse in tempo e in
luogo da opporre valido contrasto agli irruenti Piemontesi, nè potesse staccare
grosse colonne a sterminio delle città levatesi in armi, nè quieto ed intero
ricovrare ai covili delle sue fortezze: e così messo in mezzo ad un incendio
universale, trovasse pericoloso tanto il combattere, quanto il ritirarsi. Ma
questo diviso venne a risolversi in nulla nel puntiglio dei capi di guerra
piemontesi, che vollero intimare la cessazione dell'armistizio, comunque essi
stessi confessassero, che gli Austriaci ne avevano violati svergognatamente e
più volte i patti. Data agli Austriaci cogli otto giorni di disdetta ogni
abilità di concentrarsi, l'insurrezione lombarda dovea di necessità riuscire
secondaria; essendo evidente che, posti a fronte i due eserciti interi come in
prefissa arena, la fortuna della guerra sarebbesi decisa in una battaglia
campale. Ma ancora molto rimaneva a fare ai fuorusciti ed ai popoli lombardi;
rumoreggiare alle spalle e sui fianchi dell'esercito nemico, interciderne le
comunicazioni colle fortezze, preparare libero qualche punto sulla sinistra del
Po, per agevolare il passo alle divisioni La Marmora ed Apice, che scendendo
dall'Apennino accennavano a Mantova: portar il grido di guerra sulle soglie di
Verona e nel Tirolo, e di là dar mano ai Veneti, i quali poi dal Cadore e dalle
Lagune avrebber potuto correre su Padova e su Treviso, minacciare Vicenza, e
congiungersi colle truppe della Repubblica Romana, che venivano a campo tra
Ferrara e Bologna. Tutte queste cose, che ora sembrano quasi poetiche, si potevano
allora compiere agevolmente, e si sarebbero senza alcun dubbio compiute, non
diremo se Radetzky fosse stato vinto a Novara, ma soltanto se l'esercito Sardo
avesse fatto testa per quindici giorni al nemico.»
La città di Brescia, riparata dalle estreme falde montane e signora delle
valli armigere, che fanno strada dall'una parte al Tirolo italiano, e
dall'altra a quel vasto labirinto prealpino, dove vive la più vigorosa razza
d'Italia, e nel tempo stesso collocata quasi verso il mezzo della pianura a vigilare
i passi dell'alto Mincio, era quella che meglio di ogni altra si prestava a
quel piano d'insurrezione, e in essa appunto s'incardinava il vasto disegno. Il
Municipio cercava, ma invano, di rattenere l'entusiasmo che infiammava ogni
petto bresciano; chè questo veniva mirabilmente accresciuto dagli armati
raccolti sui Ronchi. I cittadini d'ogni età e condizione si portavano a frotte
a visitarli con espansione di gioia, comechè a pochi soltanto fosse accordato
l'ingresso nel recinto dei locali in cui quelli si trovavano.
La guarnigione del castello s'era accorta della comparsa dei corpi-franchi,
ed aveva fatto trasportare due cannoni nella parte del colle che guarda i
Ronchi, e li aveva livellati contro di loro.
Il giorno 22 si leggeva affissa pei canti della città un'esortazione ai
cittadini, che convenissero il dì appresso a mezzogiorno sotto la loggia
municipale. Non era indicato da chi quella esortazione fosse stata promossa, nè
perchè; onde gli animi ne erano tanto più scossi. Il Municipio, vedendosi
disarmato ed incerto, e i tempi ingrossare, chiedeva tosto al Comando della
piazza le armi per la milizia civica, ed a' suoi compatrioti soccorso d'opera e
di consigli.
La mattina del 23 il Comando militare faceva consegnare quaranta sciabole;
ma nel tempo stesso, quasi a ricompensa di quella maravigliosa larghezza, osava
chiedere che gli sborsassero in sull'atto lire 130.000, porzione della
ingiustissima multa di lire 500.000, con cui Haynau faceva pagare alla città
una di lui menzogna.
Il Saleri allora raccolse in una sala del teatro tutti quelli che già si
erano scritti per la guardia civica, e ristrettosi co' più savi veniva
divisando come si potesse, senza disdire apertamente la soggezione,
apparecchiare le armi, indugiare il pagamento dell'iniquo balzello e misurare
agli incastellati le provigioni, sì che non se ne rifornissero troppo
lautamente.
Ma intanto il popolo, tenendo l'invito delle scritte anonime, traeva in
piazza; e avuto sentore dei denari che si chiedevano e si promettevano,
cominciò a strepitare e a gridare: «Ai predoni si mandi piombo e non oro!»
Il caso volle che in quel punto avessero a passare per la via degli
Orefici, proprio in su gli occhi dell'indignata moltitudine, certe carra di
viveri e di legna che in mezzo ai soldati s'avviavano al castello. Non ci volle
altro. I più impazienti diedero mano a quelle scheggie da ardere, e
palleggiandole a modo di clava, con disperato coraggio si scagliarono sulla
scorta, e, in un attimo, la disarmarono; predarono il convoglio, e corsero per
le vie mettendo in fuga i soldati e gli accorsi gendarmi, strappando e
calpestando quante insegne austriache loro venivano vedute, e levando il grido
di viva il Piemonte! e morte ai barbari!
Ecco come descrive il Cassola quell'episodio:
«La caccia proseguiva in tutte le parti della città, e i pochi soldati
della guarnigione degli spedali che si trovavano sbandati, venivano inseguiti
ed arrestati, e quelli che osavano rivolgersi colle armi alla mano, erano a
colpi di bastone feriti o massacrati. Finita questa caccia selvaggia, che
avrebbe destato orrore se la santità della causa non l'avesse giustificata, e
dirò anzi nobilitata, succedeva una scena ben più aggradevole a vedersi; era
l'atterrarsi e la distruzione degli abborriti stemmi. Ad ogni aquila bicipite
che veniva precipitata a terra, succedevano acclamazioni di gioia: quelle che
erano formate di legno venivano spaccate, ed esultanti i cittadini si armavano
con que' pezzi, che a qualche soldato riescivano ben dolorosi.»
Quel
primo moto, che era costato la vita di uno de' nostri, non era ancora sbollito,
che in mal punto si presentavano al Municipio, per ripetere la somma, il signor
Pomo, comandante di piazza, unitamente al signor Canali, commissario de'
viveri. La folla li serrò dappresso, e, riversatasi nelle aule municipali, li
avrebbe spacciati senz'altri complimenti, se non era un tal Maraffio, popolano
audacissimo e caporione dei macellai, che, pregato dal Sangervasio, dal Rossa e
da altri cittadini, si prese i due male arrivati sotto il braccio, e gridando
ch'ei ne rispondeva sulla sua testa, con piglio minaccevole, si schiuse il
passo tra la folla, e condusse i prigionieri fuori delle porte sui Ronchi
«dove, come soleva dire il popolo bresciano, magnificando col desiderio le cose,
era il campo del general Boifava, cioè dove erano appostate le bande del curato
di Serle, accresciute allora di altre guidate dal dottore Maselli, giovine
ardentissimo di patrio amore.»
Il Comandante di piazza, fatto prigione, dovette per iscritto ordinare a'
suoi di cedere alla guardia nazionale i fucili dei soldati, che erano ancora
negli ospitali militari. L'ospitale di San Luca e quello di San Gaetano
obbedirono senza porre tempo in mezzo: ma l'altro di Santa Eufemia rifiutò, e
si fece a sparare sulla moltitudine: un cittadino in quella fazione cadeva
morto, un altro gravemente ferito.
Quel tradimento portò al colmo l'irritazione del popolo, e sebbene soltanto
otto o dieci cittadini vi si trovassero muniti di schioppi, parte de' quali
anco in mal essere, tuttavolta scambiarono alcune fucilate.
Venuta la sera quasi trecento convalescenti ne uscirono e, sgominate o
ferite le sentinelle cittadine, si aprirono coll'armi un varco al castello,
lasciando i malati alla misericordia del popolo. Anche i gendarmi in quella
sera riparavano in castello.
Ormai il dado era tratto; epperò con ottimo avvedimento i capi del Comitato
divulgarono quei segreti che insino allora erano andati dubbiamente bucinando;
e recate al Municipio le copie dei dispacci del Ministero e della Commissione
insurrezionale di Torino, aprirono tutto l'ordine della congiura. Quasi
nell'ora istessa giungevano dal Piemonte i cittadini Martinengo, Borghetti e
Maffei, dando certezza, che già molte armi e munizioni erano in sulla strada
d'Iseo, che le colonne degli emigrati movevano verso Bergamo, guidate da
Camozzi, che in breve il campo degli insorti sarebbe raccolto intorno a
Brescia: infine portavano liete non soltanto novelle, ma testimonianze della
guerra, rotta da tre giorni coll'ingresso delle divisioni piemontesi in
Lombardia per la via di Boffalora.
La certezza delle armi vicine e le speranze buone infiammarono il popolo
meravigliosamente. Esso, sdegnoso d'ogni indugio, gridava concorde che si
smettessero le pratiche e si venisse al ferro. Allora si cominciarono a vedere
per le vie quei fucili irruginiti, che per sette mesi, sotto le minacce della
legge marziale, erano stati guardati a rischio di vita, spettacolo minaccioso e
commovente, che, mostrando quanto era stata infino allora la virtù segreta di
Brescia, prometteva nuovi miracoli.
Intanto pareva che gli Austriaci a disegno irritassero quelle forti nature
e volessero, così rintanati com'erano dietro i baluardi e i cannoni,
comportarsi con baldanza da vincitori e con durezza da padroni.
Quando giunse al Leshke la notizia, che la città si era levata a rumore,
egli gettò, quasi per saggio, dieci bombe, che non recarono danno notabile.
Alle quattro mandava, a mezza d'un manuale muratore, ordine al Municipio, che
rendesse i prigioni. Un'ora dopo, altro ordine che sciogliesse i prigioni, e
tornassero tutti all'obbedienza; se prima di notte non fosse fatta ragione alla
domanda, palle e bombe.
Il Saleri chiedeva tempo a pensare, a provvedere, a persuadere; dava in
pegno la sua fede per la vita dei prigioni; e intanto convocava i Consiglieri
comunali, e s'ingegnava per ogni via a guadagnare qualche ora di respiro.
L'austriaco però era duro, e più duro il popolo; tantochè e lettere e preghiere
poco fruttarono da una parte, e meno dall'altra.
A mezzanotte, quando già la città era tornata alla quiete, il Leshke, come
ne aveva data parola, cominciò a bombardare: e per oltre due ore durò quel
rovinìo. Ne infuriavano i bresciani, a cui non pareva essere secondo le giuste
e onorate leggi di guerra quella tempesta di fuoco, lanciata a caso per le
tenebre della notte, e paurosa e mortifera, non già agli uomini vigili ed
armati, alle donne ed ai bimbi dormenti.
La città tutta, desta in sussulto, corse animosamente alle armi; gli
incendi che qua e là scoppiavano furono spenti in poco d'ora; gli uomini armati
traevano a furia verso il castello a bersagliarvi i cannonieri austriaci; i
fanciulli correvamo alle campane, rispondevano ai cannoni martellando a stormo;
le donne e gli inermi s'affaccendavano ad asserragliare le vie; e le bande dei
disertori, annidate sui Ronchi, scendevano a battere le strade. Grandissimo era
nei popolani il furore, ma più grande la fede: per cui quella scena di notturna
lotta aveva quasi l'aspetto d'una festa promessa e lungamente desiderata.
«Le canzoni patriottiche, scrive Cassola, le grida di viva l'Italia e
fuori i lumi, per invitare i cittadini ad illuminare la città, si
confondevano nell'aere col fragore del bombardamento, e producevano sugli
animi, specialmente dei giovani, quelle sensazioni per cui l'uomo s'innalza a
tutta la sua dignità.»
Il bombardamento di quella notte aveva apportato la morte a due fanciulli,
e il guasto di poche case e delle suppellettili che contenevano; ma aveva pur
dimostrato che l'effetto devastatore delle bombe non è quale i tiranni
vorrebbero far credere per atterrire i popoli. Una città predominata dal
sentimento nazionale sfida i bombardatori e ride dei loro mezzi distruttori.
Il dì vegnente, in sull'albeggiare, Leshke, vedutosi stretto da ogni parte
dalle compagnie del Boifava e del Maselli, e veduto come le scolte popolane,
alla loro volta, già gli impedissero dal lato della città di fornirsi di acqua,
di cui sul colle pativasi grande difetto, temendo di non poter resistere
lungamente, mandò fuori alcuni gendarmi, due dei quali sgattaiolatisi tra le
sentinelle dei disertori, che battevano le campagne, volarono a Mantova a
chiedervi pronti soccorsi. Intanto teneva a bada i Bresciani, ora minacciando
di nuovo le bombe, ora promettendo di sospendere le ostilità.
Dal canto loro i patrioti bresciani, volendo crescere forza ed autorità
alla insurrezione, elessero duumviri a reggere lo sforzo delle armi cittadine e
la pubblica difesa, l'ingegnere Luigi Contratti e li dottore Carro Cassola,
uomini noti all'universale per devozione e per fede alla causa italiana. Essi
tosto curarono di porre qualche ordine nell'impeto delle moltitudini, creando
molti capi-squadre che guidassero i cittadini al fuoco, creando pure tre
commissioni, una che sopravvedesse l'ordinamento e il servizio delle guardie
nazionali, l'altra che facesse incetta d'armi, la terza che attendesse ad
afforzare le mura e a piantare serraglie, secondo la necessità dei luoghi.
Inoltre mandarono esploratori a spiare le mosse del nemico, e uomini autorevoli
che chiamassero all'armi le campagne, e s'abboccassero coi fuorusciti, coi
Bergamaschi e coi Riveriani del Mincio e del Po. Le 130 mila lire che la città
aveva raccolte per saziare l'ingordigia d'Haynau, furono assegnate al Comitato
di difesa, perché le erogasse a pro' della patria. «E anche questo pareva
ottimo augurio; che la taglia della tirannide servisse a ricomperare la
libertà4.»
Nella notte del 23 al 24, prendeva le redini del Municipio il Sangervasio;
imperocchè, il Saleri, ritornando dall'ufficio alla propria casa, inciampò
inavvertitamente in istrada e cadde, riportandone una contusione che lo tenne
obbligato a letto. Quest'avvenimento e le disgrazie di famiglia già enunciate,
riducevano quest'ottimo cittadino a rinunciare definitivamente alla sua carica.
Il giorno 24 passò tra timori e speranze, essendo l'animo di tutti vôlto
alle novelle che si aspettavano dal Ticino. Il Leshke due volte riprese il
bombardamento; la prima in sull'alba, per dar agio a' suoi messi di passare col
favore del disordine attraverso i posti bresciani, la seconda poco oltre il
mezzodì; ma l'una volta e l'altra molto debolmente; perchè anche gli Austriaci
stavano con timore ed ansietà grandissima attendendo avvisi dal campo. Questi a
dir vero, giunsero in quel dì medesimo anche in città recando il fatto di
Mortara e la prima fuga dei Piemontesi; ma i Bresciani giudicarono quella
essere un'avvisaglia di nessuna importanza, e il loro animo non fu minimamente
abbattuto.
Il dì 25 passò quieto più che le circostanze paressero concederlo. Tacque
il castello; la città preparava le armi. A crescere il numero e l'animo dei
difensori calavano dalle valli parecchie centinaia di Trumplini, Valsabbini e
Pedemontani, sui quali i capi della congiura avevano pur fatto assegnamento, armandoli
e ordinandoli. Ma gli aiuti aspettati dalle provincie non venivano, i
Pianigiani non davano sentore di volersi levare; nè dal teatro della guerra
giungevano notizie d'alcun fatto importante. Ben sulla sera fu predato il
corriere che dal campo portava lettere di privati e dispacci a Verona. Con
quanta ansietà si leggessero quei fogli è più facile immaginarlo, che dirlo. Ma
i dispacci non recavano cosa d'importanza, e le molte lettere non fecero che
crescere l'incertezza. Un ufficiale scriveva dal campo: vincemmo a Mortara,
d'un salto entreremo a Torino. Un altro scriveva da Pavia: i nostri
trascorrono oltre Mortara, mentre noi qui abbiamo a' fianchi integra e
minacciosa una divisione nemica.
I
Bresciani avevano fede nella lealtà dei capi e nel valore dell'esercito regio;
credevano, come tutti, italianissimo il generale Ramorino: e facilmente si
persuasero che gli Austriaci, cacciatisi innanzi a tentare un colpo disperato,
sarebbero stati côlti di fianco rituffati nel Po e nel Ticino, presi alle
spalle da Ramorino e da Lamarmora.
In quella notte giunsero avvisi sicuri che un corpo di soldati austriaci si
era mosso da Mantova; e sotto il comando del generale Nugent correva a marcia
precipitosa sovra Brescia.
In fatto, all'alba del 26 marzo, una colonna di mille uomini con due
cannoni sboccò a Montechiaro, e di là trasse a corsa verso Rezzato. Quivi, dopo
breve avvisaglia coi disertori e gli altri insorti sui colli, sostò per
aspettare rinforzi da Verona, ed a concedere un poco di respiro ai soldati
affranti dalla marcia.
Il Comitato di difesa, d'accordo col Municipio, spediva come parlamentario
a Nugent il capo-medico militare, dottor Lowestein, per saperne le intenzioni.
Quel generale con modi villani licenziava il povero medico, dicendogli che per
trattare con lui dovesse la città mandare una deputazione di cittadini. Non
perchè si credesse che vi fosse qualche probabilità di convenire
coll'Austriaco, ma per non lasciar nulla d'intentato che potesse risparmiare
l'effusione del sangue, veniva mandata una deputazione di tre distinti e
benemeriti cittadini, fra cui Pallavicini e Rossa, ai quali si aggiungeva il
medico militare suddetto. Questi presentatisi al generale, lo stesso intimava
loro che Brescia dovesse distruggere tosto le barricate, deporre le armi ed
arrendersi a discrezione. Diceva voler entrare per amore o per forza, dare
tempo quattr'ore a rispondere, intanto per misericordia avrebbe frenato i
soldati, e comandato silenzio ai cannoni.
La
Commissione riportò al Comitato l'arrogante proposta e le superbe minacce del
Nugent. Comechè non peranco fossero giunti i fucili mandati dal Piemonte,
Cassola e Contratti, fiduciosi nel valore cittadino, nella santità della causa,
abbracciavano senza porre tempo in mezzo il partito di sfidare il tracotante
straniero. Pubblicate al popolo dal balcone le esigenze di Nugent, esso colla
potente sua voce prorompeva in grida di guerra e di disfida al nemico. Allora i
duumviri ne scrivevano al generale austriaco, il quale, al messo che gli aveva
portata la lettera, disse che il Comitato avrebbe avuto a che fare con lui.
«Allora veramente, sclama il Correnti, si vide quanto possano in un popolo il
magnanimo sdegno e lo amor di patria.» Di tutta quella moltitudine, che era
convenuta in sulla gran piazza, non uscì infatti una voce che degna non fosse
di Brescia e del nome italiano. E sì che le notizie della guerra correvano
ancora dubbiose, e a moltissimi pareva pericolosa la condizione della città, la
quale, lontana e incerta degli amici, pressochè inerme e al tutto sprovvista di
cannoni e di milizie regolari, trovavasi avere sovracapo il castello, e alle
porte un nerbo di agguerriti nemici, che signoreggiavano la campagna; pure
tutti, come fosse ispirazione di istinto naturale, trovaronsi concordi nel
pensare che Brescia si avesse a difendere fino all'estremo. E l'impeto
cittadino parve torrente che, rotto l'argine, straripi.
All'ora fissata gli Austriaci, in numero di duemila, trassero ordinatamente
contro sant'Eufemia, grossa borgata che siede appiè dei colli, a tre miglia da
Brescia. I più animosi drappelli di cittadini e dei disertori si erano
appostati e asserragliati in santa Eufemia, deliberati a difendervisi ed a
ripulsare coi fucili e colle baionette le artiglierie nemiche. Arditi
bersaglieri si erano distesi in catena per la campagna da una parte verso il
piano, e dall'altra in sui monti di Caionvico ad impedire che gl'Imperiali
circuissero il borgo; un piccolo corpo di riserva si era infine stabilito a san
Francesco di Paola, che sorge a mezzo cammino tra Brescia e sant'Eufemia, dove
i colli serrandosi alla strada la rendono più difendevole. Poco prima di
mezzodì i nemici aprivano il fuoco, e irruivano più numerosi contro la sinistra
dei Bresciani, sperando forse trovare mal difese le alture, che dominano quella
posizione. Ma in quel primo scontro fu miracoloso il coraggio dei nostri, i
quali, benchè pochi di numero e nuovi alle arti del combattere, ributtarono gli
Austriaci, e li avrebbero inseguiti colla baionetta in resta sino al piano, se
non si fosse opposto Tito Speri, giovane ardentissimo per la causa
dell'indipendenza, che comandava quel pugno di bravi, e che ad una rara
intrepidezza congiungeva perspicacia naturale, e qualche esperienza
militare5.
Gli Italiani lietamente combattevano, e parimente morivano.
Un Raboldi, all'aprirsi del fuoco, côlto da una palla austriaca nel petto
spirava dicendo: Me fortunato! ho l'onore di morire per primo sul campo di
battaglia! e raccomandando al capitano che non dimenticasse di scrivere
primo il suo nome. E il mio secondo! gridava un altro, cadendo col
ventre squarciato dalla mitraglia; e i compagni che gli si affacendavano
intorno lo udirono mormorare fino all'ultimo sospiro: Viva l'Italia! Viva la
guerra! Un terzo, pericolosamente ferito, rifiutava con tenero disdegno i
soccorsi dei commilitoni, e li ricacciava al fuoco dicendo: Ben è assai che
manchi io: ma non comporterà mai che quattro sani per cagion mia lascino il
posto.
Questi magnanimi esempi, e la persuasione che in tutti era saldissima di
combattere col favore del cielo e per la giustizia, avevano infiammati i nostri
per modo che, più volte, lo Speri fu costretto ad esortare e a comandare che
più cautamente procedessero. Mostrando come i cacciatori nemici s'acquattassero
dietro gli alberi e le siepi, li pregava ad avanzarsi cauti e coperti e a
studiare il terreno. Ma con quella audacia che rare fiate si può biasimare,
perchè di rado s'incontra, i soldati della libertà rispondevano unanimi che
essi sdegnavano di imitare i soldati della tirannide; e cacciandosi innanzi
all'aperto, e talora salendo in sulle barricate tranquillamente, e come se
fossero dietro sicurissima trinciera, puntavano e sparavano su gli accovacciati
nemici. E con superba arguzia chiamavano codesto modo di combattere: alla
bresciana; modo che veramente doveva parere agli Austriaci non sappiamo se
più strano, o più terribile: onde forse erano indotti a credere che que' radi
ed audacissimi stracorridori fossero l'antiguardo di grosse schiere. Il fatto è
che essi, a quella tempesta, stavano spesso come smemorati. Fu veduto un
Bresciano, che aveva avuto il cappello forato da tre palle, scagliarsi ridendo
contro uno scarco di macerie, ove erano nascosti quattro cacciatori austriaci,
ucciderne uno, mandare in fuga gli altri, fermarsi a raccogliere le spoglie
nemiche, e tornarsene a'suoi dicendo: Ben mi pagai del mio cappello!
E veramente doveva essere sovrumano il valore de' nostri, se, pochi di
numero, tennero fermo più ore contro le truppe di Nugent. Mancate le munizioni,
i battaglieri di sant'Eufemia mandavano per queste al Comitato e per rinforzi;
ma s'ebbero invece comando di ritirarsi. Essi non sapevano risolversi a voltare
le spalle; epperò, raccozzatisi nelle vie di quel borgo, continuarono a
combattere.
Vedevi madri sorridere ai perigli de' figliuoli, e, baciandoli in fronte,
dire loro come le antiche romane: «Compite il debito vostro e riva l'Italia!»
Altre chiuder la casa ai figliuoli, che ritornavano stanchi dal combattimento,
e dire loro che non avrebbero aperto sinchè Brescia non fosse affatto libera. E
mariti distaccarsi senza pianto dalle non singhiozzanti loro consorti colle
parole: «Se noi morremo vendicateci!» E non mancarono donne, le quali
armate di moschetto escirono a combattere a lato degli amanti loro. E vecchi,
che nulla ormai potevano operare col braccio, udivi rammentare le atrocità dei
Croati, l'avarizia de' loro capi, le lascivie usate dai barbari dopo le civiche
sconfitte; e i meglio devoti e pii, magnificare il miracolo altra fiata compito
dai santi Faustino e Giovita, respingendo dalle protette mura le palle nemiche.
Un sacerdote, fra gli altri, levatosi a favellare, con infiammativo discorso
ricorda alla moltitudine lo strazio patito dal prete Attilio Pulusella e da Luigi
Usanza6.
Il Comitato di difesa aveva frattanto dato mano a quei provvedimenti, che
portava la gravità dei casi. Innanzi tutto prese ordine, che si chiudesse
compiutamente il blocco del castello, appostando scolte e pattuglie ove ne era
necessità; quindi si minassero i ponti, si tagliassero le strade minacciate;
poi provvide che si rafforzassero le barricate, che si murassero le porte
tutte, meno quella di san Giovanni e quella di Torrelunga. Oltre a ciò proibì
strettissimamente a chiunque l'uscita dalla città senza un passaporto del
Municipio; mandò lettere ai sacerdoti che predicassero per tutta la provincia
la guerra di popolo, e diede facoltà ai parrochi di disegnare le famiglie
povere, che nei giorni della battaglia dovessero venir mantenute dal pubblico
erario7.
In mezzo a quel generale fervore giungevano in Brescia, quasi a confermare
i generosi propositi, varie bande armate di valligiani, e un grosso traino che
recava parte dei fucili e delle munizioni dal Ministero di Torino assegnate ed
avviate alla provincia bresciana; carico affidato al signor Gabriele Camozzi,
insieme ad altre armi destinate per Bergamo. Le armi, che erano bellissime,
vennero distribuite a festa, ed impugnate con animo tanto più volonteroso, in
quanto divulgavasi allora per lettere venute da Codogno, la lieta e creduta
novella d'una gran vittoria piemontese. Ond'è che tutto il popolo, senza più
dubitare, corse alle serraglie ed alle mura, acclamando viva alla guerra ed
all'Italia, e rincalzando con terra e con altri munimenti le trinciere. E i più
animosi uscirono fuori ad ingrossare le fila dei combattenti che s'erano
appostati nelle case di San Francesco di Paola, e su pei Ronchi sovrastanti, da
dove con un vivissimo moschettare, quantunque pochi di numero, impedirono agli
Austriaci, forti di dieci compagnie di fanti, di procedere più oltre. Ma il
fulminare incessante di due cannoni puntati contro il villaggio, e le
difficoltà di guardare, durante la notte, con gente inesperta una lunga ed
aperta linea, consigliarono verso sera i nostri a ridursi dentro le mura.
In tal modo aveva fine il giorno 26 marzo, in cui il popolo fu sull'armi
dall'alba alla sera. Il Comitato di pubblica difesa emanava un ordine del
giorno in cui si gloriava del coraggio bresciano, che veramente si era mostrato
quel dì, come dissero i duumviri, con popolare efficacia, a prova di bomba.
Le ore notturne passarono senza molestie per parte del nemico; e l'alba del
27 sorgeva con ottime speranze. S'aspettava d'ora in ora Camozzi co' suoi
Bergamaschi e colle bande dei fuorusciti; dal Ticino non venivano notizie
certe, ma nessuno pensava che di là avessero a giungere altre notizie se non
buone.
Nugent aveva avuto il giorno prima una dura lezione; e innanzi cimentarsi
di nuovo attendeva altri rinforzi d'uomini e d'artiglieria; e appena li ebbe,
verso le due pomeridiane, mosse l'avanguardia per porta Torrelunga. Il corpo
austriaco era forte di 4,000 soldati e 5 pezzi di cannone.
Il Comitato di difesa, volendo risparmiare sangue e guadagnar tempo, aveva
quel dì preso ordine coi capi delle bande bresciane che s'uscisse all'aperto.
«Durò l'attacco quasi tre ore, scrive il Correnti; e come fu micidiale ai
nemici che procedevano in sullo stradale e spesso erano bersagliati di fianco
dalle bande dei disertori appostati sui Ronchi, così sarebbe riuscito quasi
incruenta ai Bresciani se il Leshke, battendo co' fuochi del sovraeminente
castello la fronte interna di porta Torrelunga e fulminando le vie adiacenti,
non avesse con più centinaia di bombe e di granate recato un danno gravissimo
alla città e posti i difensori della porta in fra due fuochi. Nè però se ne
sgominarono; chè anzi pareva in essi crescere l'animo, quanto più cresceva il
pericolo. Anche i cannoni di Nugent, tirati in su d'un colle suburbano, tempestavano
l'oppugnata porta, e spesso le palle di rimbalzo saltavano oltre la barricata,
e venivano a rotolare in sul corso, dove l'ardita ragazzaglia le inseguiva e
raccoglieva festosamente. Le bombe quasi subito seguite dai razzi, che
entravano a metter fuoco dove il peso e l'impeto del primo proiettile avea
aperta una rovina, presto ebbero desti molti incendi: e il popolo motteggiando
diceva: Vhe la tal casa e la tal'altra che hanno acceso il sigaro! e
senza punto badare a quella pioggia infernale, attendeva a spegnere il fuoco, a
soccorrere i feriti e portar armi in sulle mura. Quivi poi era una bella gara
di coraggio, anzi pur di fiera lietezza. Due de' più animosi e destri erano
alla vedetta, e appena vedevano fiammeggiare il cannone, gridavano: La viene!
e gli altri che stavano in sull'avviso, raccosciavansi un istante, poi
rimbalzavano più alacri in piedi rispondendo al tuono delle cannonate con un Viva
l'Italia, e collo sparo de' moschetti. Nè i feriti degnavansi turbare coi
lamenti quella festa di guerra: ed uno a cui una scaglia portò via il braccio
sinistro, si resse un istante in piedi, scaricò il fucile col braccio destro, e
cadde gridando: Viva! mi resta un braccio per la spada; mi faranno capitano!
Poco dopo era sepolto. Quasi nel tempo stesso lo scoppio d'una bomba levò di
mano il martello ad un artiere, che stava in sul torrione interno a non so
quali lavori, e il valent'uomo, senza mutarsi in viso, afferra un frammento
della bomba, e s'ingegna a pur ripicchiare con quell'informe arnese, dicendo: Mi
han tolto il martello di bottega, e mi han dato quello di guerra. Un altro,
a cui una palla da fucile avea forato una coscia, sorridendo guardavasi la
ferita, e diceva: Ih! che bel buco! ma io non voglio lasciar il ballo per
questa miseria: e bisognò portarlo di forza all'ospitale.»
«Ciò che
non si potè fare con un giovane a cui era entrata nelle carni una palla morta,
il quale confortato ad aversi cura e a ritirarsi, sclamava argutamente: Come?
Ora che io son maschio mezza volta più di voi? E fattosi levare la palla
rimase al suo posto. Dopo la prova di un'ora e assalitori e assaliti compresero
che le artiglierie facevano più fracasso che danno: e però scemava la baldanza
degli uni, e cresceva negli altri l'ardimento: i quali veggendo languire il fuoco
del cannone di Nugent, chiesero di sortire e di correre sui nemici. Detto,
fatto; e vi fu gran ressa alle porte, volendo ognuno uscire tra i primi. E
perché a schiudere il cancello era necessità di venire allo scoperto oltre le
barricate, e lo Speri, come capitano della porta, non volle concedere che altri
l'aprisse, e vi andò egli stesso; moltissimi accorsero a fargli scudo della
persona contro le palle nemiche che convergevano a quel punto pericoloso come a
metà di bersaglio. E sebbene Dio abbia voluto che niuno di quei bravi rimanesse
colpito, che in vero parve miracolo, noi volemmo ricordare questo fatto,
notabile in soldati di due giorni, non legati al loro capo da riverenza di
disciplina, e da consuetudine di connivenza. Ma l'amor di patria è sollecito e
mirabile maestro. E prova ne sia che i nostri, i quali non erano forse due
centinaia, correndo audacemente contro la linea degli Imperiali, la videro
rompersi e ritirarsi, e per poco stette che non riuscissero addosso ad un
cannone, il quale era rimasto a sostenere il retroguardo, e che dovette a gran
galoppo mettersi in salvo verso santa Eufemia.»
Côlto il buon punto, i disertori calavano dai Ronchi, ed occupavano le case
di Rebuffone, scalandone le mura e le finestre con impeto indicibili; quivi,
invece di trovarvi appiattati i cacciatori tirolesi, come se ne aveva avuto
avviso, non si rinvennero che alcuni cadaveri austriaci. Intanto annottava; e
benchè i nostri potessero spingere le loro scolte oltre il villaggio di san
Francesco, sgombro di nemici, parve ai capi di guerra più savio partito, che i
cittadini tornassero al sicuro e riposato posto delle mura, e le bande del
Boifava e del Maselli si riducessero di nuovo in sull'alto dei Ronchi.
Ad un giorno glorioso ne succedeva un altro più glorioso ancora; e ciò che
prima a molti era sembrato un prodigio di valore e di fortuna, dopo la doppia
prova del dì 26 e del dì 27 a tutti cominciava a parere cosa naturale.
La mattina del 28 marzo arrivava un altro convoglio di fucili e, secondo il
solita, una folla di popolo accorreva al Comitato per aspirare al possesso di
quegl'istromenti tanto desiderati; per cui in un momento venivano distribuiti.
Ma troppo scarso ne era ancora il numero al confronto di quelli che li
ricercavano, e molti perciò si allontanavano dolenti per non aver potuto
raggiungere la meta dei loro ardenti desideri.
Il Comitato di difesa, che mulinava come mettere in pensiero la guarnigione
del castello, affinchè più non potesse fulminare la città, faceva un'eletta
schiera de' più esperti bersaglieri, e, armatili di stutzen, li
appostava in sull'alba del giorno nel pendìo dei Ronchi, e sulla torre del
popolo, a cui quasi non partiva colpo, che non atterrasse in sugli spalti del
castello o sentinella, o cannoniere. Ne infuriava il Leshke; e mentre faceva in
fretta in fretta lavorare i parapetti, che mettessero i suoi al coperto,
minacciava nuovamente delle sue bombe la città.
Dalla parte di sant'Eufemia i nemici procedevano frattanto rimessamente.
Appena si vedevano venire con ogni cautela drappelli di Croati verso le mura, i
quali ritraevansi alle prime fucilate, poi riapparivano di nuovo, e di nuovo
andavano in volta. Ciò scorgendo, i nostri opinarono che gli Austriaci si
ritirassero; e per conseguenza nacque tosto in loro il pensiero d'inseguirli.
Ma lo Speri, che aveva occhio sicuro, da più indizi era stato condotto a
pensare che quella peritanza dei nemici non fosse altro che un'astuzia per
tenere i nostri lontani dalle mura, e averne buon mercato in rasa campagna. E
però ne avvisò i suoi, confortandoli a rimanersi dietro le barricate, ove non
poteva nè l'arte, nè la forza dei nemici. A molti parve, che insidia o non
insidia, si dovesse uscire, dacchè prosperamente si era combattuto anche il
giorno innanzi all'aperto. Per cui, contro le preghiere e i comandi di Speri e
d'altri influenti uomini, tumultuariamente sortirono, caricando gli avamposti
nemici, e respingendoli fin verso san Francesco di Paola.
Nugent li lasciò fare, perocchè voleva che si cacciassero innanzi e dessero
nella rete che egli aveva tesa con molta arte, disponendo due grandi catene
l'una verso il piano, l'altra in sui colli, e imponendo ai soldati che
diligentemente s'acquattassero per le fosse, nelle case, dietro i muriccioli e
sotto i vigneti. Oltre di che aveva imboscato tra due colline un mezzo
battaglione di fanteria, che a un dato segno doveva irruire di fianco o alle
spalle dei Bresciani. Ora quando le prime bande dei cittadini ebbero contro gli
ordini dato dentro, non parve agli altri di doverle abbandonare; e perciò fatte
due grosse squadre, l'una fiancheggiando a sinistra, sotto il comando dello
Speri, salì pei Ronchi, l'altra, sotto quello di Antonio Bosi, rimase come
retroguardo e riserva ad impedire che gli Austriaci, stesi dal lato della
pianura, circuissero i Bresciani ed occupassero la strada.
Lungo tutta la linea cominciò allora il fuoco assai vivamente; e i
cittadini con tanto impeto si scagliarono sugli Austriaci, che presto la
ritirata di costoro non fu più simulata. Di che Nugent, ammirato e sdegnoso,
veggendosi in sul punto d'essere ricacciato là, dove due giorni innanzi aveva
con tanta durezza accolti i messi del municipio e posto loro termine quattro
ore a pentirsi e a chiedere mercè, si trasse avanti ad incuorare i soldati: e
mentre stava accennando che si avanzasse un cannone e si puntasse contro
gl'infuriati Bresciani, cadde ferito d'un colpo che in pochi giorni lo trasse a
morte8.
Gli Austriaci, portando seco il ferito generale, abbandonarono san
Francesco; e i nostri ad inseguirli gridando: Avanti, avanti, a
sant'Eufemia! Viva l'Italia! La Vittoria è nostra! E sì forte e sì concorde
era il grido, e tanto l'impeto, che nè lo Speri, nè gli altri in influenti
valsero per ragione o per autorità a dissuadere o fermare quella mossa
dissennata.
Narrasi anzi che lo Speri, veduta l'impossibilità dell'impresa, e veduto
inutile il sacrificio de' suoi, ordinava alla colonna di ritirarsi verso la
città. Se non che taluni, dominati da disperato coraggio, insistevano perché
non si dovesse lasciar posa al nemico, e tacciavano di vile il loro capo, e lo
dicevano indegno di guidarli, ove non avesse abbracciato il partito d'inseguire
il nemico. Un tale rimprovero, quantunque immeritato, ridestava un incendio in
quell'intrepido cuore giovanile, e soffocava in lui ogni calcolo della mente;
per cui, alzata la spada, seguitemi, sclamò, e senza badare che
pochissimi uomini si mostravano determinati a quel sacrificio, si lanciava alla
loro testa sulla falange austriaca.
Anco i più circospetti, per non far peggio, si disposero allora d'aiutare
in tutto quello che non potevano impedire; e gittaronsi in sant'Eufemia. Mentre
si stava gagliardamente combattendo per le contrade, Speri commise ad un
Taglianini, giovane sopramodo intrepido, che, salito sul campanile, suonasse a
stormo: e mandò messi ai Botticini, a Rezzato, a Cajonvico, affinchè le
campagne si levassero in armi. I nemici si strinsero frattanto d'ogni parte
verso sant'Eufemia; occuparono la strada di Brescia, e presero in mezzo i
nostri. Il Taglianini, che attendeva a rintoccare a stormo, ebbe una palla in
bocca, e nondimeno, moribondo com'era, continuò a martellare gagliardamente,
finchè i Croati, saliti in sul campanile, non lo ebbero finito.
Infrattanto la prima brigata di Bresciani, che già era penetrata nel borgo,
vedutasi ormai in punto d'essere oppressa dal numero, e al tutto deliberata di
non volersi rendere, precipitossi in colonna serrata allo sbocco occidentale di
sant'Eufemia per guadagnare la strada di Brescia. Ivi assalita da una schiera
di cavalli la scompigliò con un fuoco a bruciapelo, e, passata oltre, rovesciò
colle bajonette un nodo di fanti, che stavano in riserva dietro la cavalleria;
così aprendosi il cammino fra un mucchio di cadaveri, potè congiungersi verso
san Francesco, coi soccorsi, che accorrevano da Brescia, e rinfrescare il
combattimento, che durò d'intorno a quel villaggio fino a notte.
La compagnia dello Speri, che, girando sant'Eufemia, era sboccata in
sull'altra estremità del borgo, trovossi a disperato partito, come quella che
aveva alle spalle tutte le forze di Nugent, nè poteva aprirsi il cammino se non
espugnando il paese, già venuto in mano degli Austriaci. Epperò lo Speri si
gettò co' suoi in sui colli, per vedere se con più lungo giro, e con una
deliberazione strana e forse non preveduta dai nemici, potesse uscir loro di
mano. Ma pare che la mala ventura lo portasse invece a dar di cozzo in quel
mezzo battaglione, che Nugent aveva appostato in riserva, per modo che alla
difficoltà della salita, s'aggiunse bentosto un fuoco di carabine, sì fitto,
incessante e crescente, che due terzi dei Bresciani ne restarono in sul luogo
morti o feriti. «Gli altri, nota il Correnti, respinti alle falde, si volsero
senza smarrirsi verso il borgo; e benchè non giungessero alla decina, tentarono
di attraversarlo colla baionetta in resta. La calca dei nemici li oppresse;
cinque furono presi vivi, e poco stante fucilati; gli altri morirono
combattendo9. I feriti, stesi al suolo o accoccolati, stavano
aspettando coll'armi in pugno che i predatori nemici si avvicinassero,
colpivano una volta ancora, e morivano. Di cinquanta, che erano collo Speri,
egli quasi solo potè trarsi a salvamento dopo aver tutte adempiute le parti di
soldato e di capitano, e cessata per alcun tempo con sottile accorgimento l'estrema
rovina dei suoi. Poichè, quando i nemici calati in folla dal Monte incalzavano
gli stremati Bresciani verso sant'Eufemia, lo Speri, gettandosi dietro le
spalle parte del denaro, ch'egli aveva seco per far le spese alla sua brigata,
più volte ritardò la furia dei perseguenti Croati, nei quali, sovra ogni altra
considerazione, può l'avidità della preda.
Circa cento de' nostri caddero tra morti, feriti e prigionieri in quella
terribile giornata del 28 marzo; ma doppia riescì la perdita dei nemico, che
rimase ammirato del valore dei Bresciani, e quasi inorridito per la loro
sovraumana pertinacia; e diceva essere essi più terribili quando cadevano, che
quando vincevano. «E perchè sia chiara l'indole di questa guerra e degli uomini
che la combattevano, scrive il Correnti, vuolsi ricordare un fatto, che occorse
in questo dì 28 a vista dell'uno e dell'altro campo. Un drappello di dragoni
trascinava fuori di sant'Eufemia due prigionieri bresciani. I bersaglieri
nostri s'appostarono per pur tentare di liberare i loro compatrioti. Al primo
suono delle fucilate i cavalli tedeschi si mossero per pigliare altra via: ma i
due prigioni, ch'erano in mezzo ad essi, afferrando le briglie e le staffe
tentarono d'impedir la mossa; percossi, feriti, atterrati non ristettero
dall'offendere: e l'uno d'essi, avvinghiata la gamba deretana del cavallo
dell'ufficiale che guidava il drappello, e cavato un pugnale, si tirò addosso
col cavallo il cavaliere, e prima di rendere l'estremo fiato lo trafisse.
Cinque ufficiali austriaci rimasero per un dì intiero insepolti sul campo
di battaglia. D'altri tre ufficiali furono recate in trofeo per tutta Brescia
le vesti e le insegne, colla spada d'un capitano presa dai nostri.
Il generale Nugent, in punto di morte, mandava per nuovi soccorsi ad
Haynau, che reggeva il blocco di Venezia, e al maresciallo Radetzky, che già
tornava vittorioso dal Ticino.
La mattina del 29 alcuni esploratori, i quali erano stati mandati a Milano con
lettere pel console di Francia, portarono una copia dell'armistizio di Novara.
Ma l'enormezza veramente incredibile del fatto, e le speranze che i Bresciani
avevano posto vivissime nell'esercito piemontese, non lasciava credere la
funesta novella, a cui toglieva fede anche il difetto degli inviati, che avuto
a Gorgonzola l'infelice bollettino, senza curarsi d'altro, e senza toccare
Milano, mezzo smarriti, se ne erano tornati a Brescia.
Intanto giungevano lettere e messaggi da varie parti, recando della guerra
novelle lietissime, ma con molta varietà di circostanze. In tre cose però tutte
le lettere cadevano d'accordo: che, cioè Carlo Alberto, dopo essere calato a
patti cogli Austriaci, avesse abbandonato la corona e la patria al suo
primogenito Vittorio Emanuele; che Radetzky, spintosi a fidanza nel cuore del
Piemonte, vi fosse stato combattuto e vinto dal Chzarnowsky; che la casa di
Savoja era stata dalle Camere dichiarata decaduta dal trono, e spiegata
bandiera rossa. Onde il Comitato di pubblica difesa, temendo che le
contraddicenti novelle fornissero materia a dispute oziose e a gelosie,
senz'ira di fazione, diè fuori un bando che acclamava Chzarnowsky salvatore e
dittatore d'Italia, e confortava i cittadini a seguire quella bandiera, che il
vittorioso Piemonte avrebbe inalberata.
I Bresciani non si lasciarono volgere dalle strane novelle a vanità di
giudizi; i migliori se ne stavano in sulle mura e per le barricate; e loro
bastava sapere che l'esercito piemontese vincesse.
Il fuoco era incominciato in sul mezzodì assai gagliardo; poiché gli
Austriaci, per soccorsi avuti da Peschiera e da Verona, si erano
considerevolmente ingrossati. I nostri tenevano ancora san Francesco di Paola;
ma essendo riuscito ai nemici di stendersi sui fianchi del Ronco sovrastante,
nè potendo la colonna dei volontari disertori, per difetto di munizioni,
opporre a loro valido contrasto, i Bresciani abbandonarono il villaggio. Ma il
prete Boifava, comechè stesse col sospetto di essere girato ed assediato su
quelle cime isolate, tuttavolta, ritrattosi verso la cresta dei colli, vi si
mantenne.
Mentre così con dubbia fortuna e senza molto sangue si combatteva fuor
delle mura, il Leshke bombardava dentro furiosamente: la maggior parte dei
proiettili cadeva nel quartiere di sant'Eufemia verso Torrelunga, ove i
cittadini facevano l'adunanza per le sortite. Ma quel dì non poche caddero
sull'ospitale civile. Di che il Comitato, giustamente commosso a sdegno, mandò
al capo medico dell'ospedale militare di sant'Eufemia, significandogli che se
Nugent non rispettava la bandiera sanitaria, esso e gli infermi suoi, che erano
nelle mani dei cittadini, ne avrebbero pagato il fio10. Il capo medico
spedì tosto taluno con bandiera bianca, perchè supplicasse Nugent di rispettare
il diritto delle genti, o almeno di aver riguardo alle vite dei suoi
compatrioti minacciate dalla legge del taglione.
«E qui occorse caso, racconta il Correnti, che mostrò quale veramente fosse
l'animo del popolo. Imperocchè veduta quella bandiera parlamentaria, e venuti
in sospetto che il Municipio trattasse la resa, colle grida e colle armi
impedirono al signifero che andasse alle mura, e bisognò che lo Speri e due
venerandi cittadini, che erano con lui, giurassero a nome di tutte le autorità
bresciane, d'altro non volersi parlare ai nemici se non del rispetto dovuto,
secondo la legge di guerra, ai sacri ospizi degli infermi.»
Gli Austriaci accolsero i nostri con piglio oltre dire superbo; e, fatto
mostra di credere che Brescia volesse capitolare, senza dar luogo ad alcuna
parola per parte de' parlamentari, concessero un'ora sola a mandare qualcuno,
che legalmente rappresentasse la città, e ritennero in ostaggio un degno
sacerdote, che era venuto agli avamposti coi parlamentari. Preso quel tempo,
gli Austriaci, contro ogni fede o ogni legge di guerra, si trassero fin sotto
la porta, e cacciatosi avanti il prete, senza guardare se fosse o no scoccata
l'ora pattuita, vennero a più stretto contatto e deliberato assalto; e per
crescere confusione e terrore, misero in fiamme molte case in sui Ronchi. A
quella vista i Bresciani, irritati oltremodo, strappavano la bandiera di pace,
e, calpestatala nel fango, gridavano di volere piuttosto seppellirsi colle
donne e coi figli loro sotto le rovine della città, che comportare siffatto
vituperio. E appunto mentre l'affollato popolo consigliavasi confusamente come
pigliare vendetta dell'insulto, una grossa bomba scoppiò quasi in sulla piazza;
e alcuno afferratone il più grosso frammento, recollo in mezzo; e su di esso,
come sul Vangelo, tutti stesero a gara la mano, consacrando così in modo
guerriero il giuramento di morire anzi che cedere.
«Del qual atto, scrive il Correnti, tanto fu la nobile fierezza e
l'umanità, che molti, come a religioso spettacolo, s'inginocchiarono, e molti
piangevano di tenerezza.»
Di repente il grido: Alle porte! Alla sortita! Sorse di mezzo alla
moltitudine; e moltissimi a quella voce aggiunsero l'atto, precipitandosi fuori
la porta. Il nemico, che aveva sperimentato di che sapesse la furia bresciana,
si ritrasse verso san Francesco.
Breve fu la notte ai cittadini, già affranti di sette giorni di incertezze,
di agitazioni e di battaglie. Il giorno 30 marzo, per tempissimo,
ricominciarono le offese dalle due parti, massime a porta Torrelunga, investita
da sei grosse compagnie di fanti, gente fresca e bene in punto, le quali
facevano prova di stendersi sotto le mura, e di congiungersi colla guarnigione
del castello. Ma il fuoco, spesso e giusto, dei cacciatori bresciani ruppe quel
disegno; tanto che quelle dovettero pigliare altro partito, e salire in colonna
sull'erta dei Ronchi per isboccare poi con lungo e faticoso rigiro alle spalle
del castello. Il che riuscì loro nè senza pena, nè senza sangue; imperocchè
innanzi tratto cozzarono coi volontari del Boifava, i quali, fatta quella
resistenza che loro concedeva il numero sottile e la scarsità delle munizioni,
si ritrassero quindi ordinati ed intieri verso le parti più aspre della
montagna.
Nello scendere dai Ronchi per venire verso la porta di soccorso del
castello, il nemico ebbe a sostenere, quasi scoperto, il fuoco dei cittadini,
che dalle mura e dal torrione della Pusterla sicuramente lo tempestavano, e più
fiate, comechè senza artiglieria, lo costrinsero a retrocedere. Seguendo il
vandalico sistema introdotto nell'esercito austriaco dalla ferina natura de'
capi, i truci si vendicavano delle perdite che soffrivano col saccheggiare i
casini di campagna. Dopo tali gesta, piombarono sulla città. Intrepidi i
Bresciani difendevano le serraglie; e nè le bombe del castello, nè il
cannoneggiamento al di fuori, nè la fitta moschetteria bastarono ad atterrire
quegli intrepidi petti, dai quali scoppiavano di tratto in tratto le grida di Viva
l'Italia! Soltanto la morte costringeva quei prodi a cedere il posto, il
quale veniva tosto rimpiazzato da altri; giacchè tutti gareggiavano nello
spingersi avanti per essere a migliore portata di offendere il nemico. Un
intrepido cittadino, fra le palle nemiche, osava salire sui cancelli di ferro
della porta e piantarvi una bandiera nazionale.
Il conflitto durò sino a sera, e sebbene guaste in ispecialità dalle palle
de' cannoni, nessuna serraglia fu abbandonata. Il nemico si ritirò di nuovo a
santa Eufemia, idrofobo per non aver potuto sfogare la sua rabbia sui
cittadini, come aveva fatto sui loro averi.
In quel giorno altre nuove fallaci giungevano del campo. Lettere da Crema e
da Lodi recavano essersi dopo le due infelici battaglie di Mortara e Novara,
combattuto di nuovo il 26 lungo la Sesia coll'ultimo esterminio dell'intera
vanguardia austriaca; avere il maresciallo toccata tale una rotta da dover d'un
tratto, come Melas, dopo la battaglia di Marengo, cedere tutta la Lombardia. I
corrispondenti, uomini autorevoli e credibili, allegavano in prova di quelle
notizie essere venuti in gran diligenza ordini che i prigionieri fatti sui
Piemontesi a Mortara, e sino dal 22 avviati per a Pavia e Cremona verso
Mantova, retrocedessero per essere restituiti al vincitore, e averne essi già
veduti gli effetti; aver letto coi loro occhi il bando stampato dal generale,
Chzarnowski ove celebrava le vittorie italiane e l'armistizio vendicatore delle
vergogne di Vigevano e di Novara.
Anzi di quest'armistizio fu mandata copia a Brescia. Numerava sei articoli,
che in sostanza portavano, doversi l'Austriaco ritirare oltre l'Adige,
sgombrando le provincie lombarde e le fortezze del Mincio, e serbando rispetto
alle vite ed alle proprietà delle popolazioni, framezzo alle quali gli si
concedeva la ritirata. «E quest'ultima condizione, narra il Correnti, che assai
bene quadrava ai Bresciani, indusse il Comitato a mandare un medico militare al
generale Nugent, perchè lo ammonisse a ritirarsi oltre l'Adige, senza più
molestare, violando i patti, i popoli lombardi. Il generale, il quale era, come
dicemmo, malamente ferito, appena sentì le parole del parlamentario, che, senza
più oltre chiarire le cose, come la giustizia e l'umanità avrebbero pur voluto,
gl'intimò di levarsegli d'innanzi e di tornare a' suoi infermi. Ma i cittadini,
ingannati da tanta concordia di liete novelle, e non disingannati nè dagli
amici, nè dai nemici, sempre più si persuadevano che gl'Imperiali, battuti e
perseguitati in sul Ticino dai Piemontesi, volessero per sete di vendetta e di
preda buttarsi su Brescia e farne strazio prima di ridursi entro le linee loro
assegnate dai Vincitori.»
Mentre di tali speranze si pascevano i Bresciani, le fanterie nemiche, le
quali, finchè bastò la luce diurna, erano state tenute in rispetto, col favore
delle tenebre, in silenzio e rapidamente, per la porta di soccorso, si
riducevano in castello. E poco oltre la mezzanotte vi giunse anche, da niuno
aspettato, il tenente maresciallo Haynau colla scorta del secondo battaglione
del reggimento fanti di Baden. Uditi i casi di Brescia e lo smacco che le armi
imperiali ne soffrivano, si era l'Haynau mosso segretamente da Mestre, e
soprarrivato improvviso agli avamposti di sant'Eufemia, con meraviglia dello
stesso Nugent, recossi in mano il comando dell'assedio, e prestamente divisò
come compiere l'eccidio di quella città, cui pochi mesi prima aveva bistrattata
e insultata sì bassamente, che i Bresciani solevano chiamarlo col nome di Jena.
Fu la notte quieta per Brescia quanto essere poteva tra i gridi d'allarme,
le fucilate delle scolte, il rintocco delle campane, e il barlume dei morenti
incendi, che i Croati avevano la sera accesi nelle case dei Ronchi, quasi per
documentare a lor modo che ne avevano preso possesso.
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