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Felice Venosta
Il martirio di Brescia: narrazione documentata

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  • IV
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IV

 

Le torme austriache si sguinzagliarono subito dopo la resa per le piazze e per le vie, gridando con efferata gioia: Viva l'imperatore, viva Radetzky, viva Haynau! Ma i cittadini, non potendo più rispondere a quegli insulti con colpi di moschetto, dimostrarono loro almeno che avevano aperte le porte alla forza brutale; ma che giammai il bombardatore fanciullo li avrebbe ridotti alla servilità di inchinarsi al suo nefando altare.

Lo stato maggiore mandò a chiedere al Municipio viveri ed alloggi; e non lasciò di far capire come i soldati fossero stanchi e riscaldati dalla lotta e dalle celeri marce nella speranza di saccheggiare la città. Il Municipio che, quantunque minacciato, per miracolo di virtù civile, non aveva abbandonato il posto, non sapeva come aderire alle domande degli Austriaci. Erano parecchi giorni che in Brescia non entravano più carni; e nella pressura dell'assalto non si era neppur pensato a far pane. Fuggiti o rintanati nei nascondigli i fornai, gli osti, i pizzicagnoli; morti od ancora ostinati all'ultima barricata i macellai; oscura la notte, spezzate le lampade, chiuse tutte le finestre, piene le vie di soldati, che, guidati dal sinistro chiarore degli incendi, traevano colle scuri a sfondare usci e botteghe; l'andare nelle strade portava pericolo di morte; per cui non si potevano neppure mandare avvisi, chiedere consigli, interporre le supplicazioni presso i generali, i quali, sia avanzo di pudore, sia arte di crudeltà, non si lasciarono trovare. Malgrado tutto ciò, il Municipio, a mezzo dei fornitori di viveri nel castello, provvide che si imbandissero per le vie quindici mila razioni di pane, vino e salumi. S'aggiunsero legna e strame in buon dato. Allora si accesero per la città i fuochi dei bivacchi, e intorno ad essi il tumulto barbarico e le gozzoviglie dei vincitori durarono sino all'alba.

La lunga agonia di quella notte non fu senza un ultimo raggio di speranza; imperocchè, in sulle undici ore, quando era dappertutto cessato ogni conato, i Bresciani, che, quantunque chiusi nelle più remote parti delle loro case, stavano tuttavolta vigili per timore d'una irruzione de' truci, udirono di repente a scoppiare e mano mano distendersi poco lungi dalla città, verso ponente, una viva fucilata. Durò quel tumulto, come d'un'avvisaglia d'avamposti, per alcune ore; poi svanì senza che altro per allora se ne sentisse. Seppesi poi che in quella notte si erano gli Austriaci azzuffati coi volontari di Camozzi e di Narducci, i quali, lasciata Bergamo quando già correvano tristi novelle della battaglia di Novara, e nondimeno deliberati di mettersi a qualsiasi rischio anzichè abbandonare i Bresciani, la resa dei quali ignoravano, erano per la strada di Fantasine pervenuti, con quasi ottocento uomini, e con un buon carico di polvere e di armi, in vista della città sul declinare della domenica, e si erano spinti con un'audace manovra e non senza sangue fino nel borgo di san Giovanni.

Se un tal Patuzzi, agente comunale, citiamo il nome a sua perenne infamia, non si fosse fatto delatore appo l'Haynau, col riferirgli come i posti avanzati del Camozzi fossero ad Ospedaletto del Mella, questi avrebbe potuto sorprendere gli Austriaci e rinfrescare la lotta. Disgrazia volle che oltre all'essere i volontari prevenuti, gli Austriaci ne trovarono l'antiguardo sorpreso nel sonno; essi lo cinsero e gli furono addosso uccidendo ventuno di que' generosi. Alla fucilata accorse il Camozzi; egli pugnò con estremo ardimento insino alla mattina, facendo non una volta retrocedere i nemici; ma saputo della capitolazione di Brescia, e come imponenti forze nemiche marciassero verso la città, riflettè che ormai non avrebbe potuto coi pochi suoi volontari occuparsi in imprese che rialzassero la bandiera italiana nella Lombardia; disciolse allora la sua gente e si congedò da loro.

In compagnia del generale Camozzi trovavasi un personaggio illustre per fama italiana, vogliamo dire il padre Massimino, uomo di vasta mente, di condotta rigorosamente evangelica, di cuore divampante d'amor patrio. Se il clero di Roma si componesse di sacerdoti simili al padre Massimino, l'Italia avrebbe ormai la sua capitale, alzerebbe le mani al cielo per ringraziare il Dio dell'amore e della fratellanza dei popoli.

Poco mancò che l'Italia non perdesse sotto le mura di Brescia questi due suoi prodi campioni, giacchè, essendosi avanzati in compagnia soltanto di un aiutante per osservare le mosse dei nemici, erano stati colti all'improvviso da un picchetto di cavalleria austriaca, che passò sul ponte sotto il quale essi ebbero appena il tempo di nascondersi. Fu al certo l'angelo della libertà che li salvò da quel pericolo.

 

———

 

Riferiamo alcuni fatti, i quali chiaramente dimostrano come i mercenari austriaci, lasciandosi uscire quasi sempre di mano i validi e i combattenti, si avventassero bramosamente contro gli infermi, le donne e i fanciulli.

La mattina della domenica, aprile, i Moravi dalla scala di sant'Urbano discesero dopo un fiero contrasto nel vicolo della Carità, e mandarono le case che erano intorno a fuoco ed a ruba; fra le quali era quella in cui un tal Guidi teneva un collegio d'educazione per fanciulli. Vi irruirono i soldati, non essendovi che la madre del Guidi, donna assai avanti negli anni, la moglie di lui e dodici alunni sotto la guardia di un servo. I saccomanni cominciarono a rompere, strepitare, minacciare, invano pregando loro d'innanzi le donne ed i fanciulli. Poi, cresciuto il furore, presero fra gli alunni il più tenerello di età, e lo sgozzarono. Il servo, che l'indegno strazio di quell'innocente non seppe sopportare, senza far prove di difenderlo, fu morto: e dopo di lui, le due donne e alla rinfusa quanti altri diedero nelle mani di quelle furie: appena alcuni di quei fanciulli furono salvati da un gendarme italiano. Di questo martirio andò subito il grido per la città; e benchè già a tutti e da tutte le parti sovrastassero supremi dolori, nondimeno fu grande la pietà delle molte madri accorrenti al Municipio per aver novelle de' loro figliuoli.

Più fiero fu lo strazio dei Parolari, mercanti onorati alle Cantarane, poco lungi da Torrelunga, nella cui casa entrati i dragoni il sabbato sera, ferirono di squadrone e lasciarono per morto il figlio Luigi, giovane d'animo prode, ma non atto all'armi per forte epilessia. I parenti lo portarono in camera, e tutta quella notte lo vegliarono, benchè le case e le propinque vie fossero in fiamme. Il mattino della domenica di nuovo irruirono i soldati, e strappato pe' capegli giù dal letto il moribondo, sconciamente lo percossero, sicchè appena la madre con lagrime e con industria di blandimenti e di doni ottenne che nol finissero. Ma poco valse; perchè quanti soldati passavano per quella via come a data posta traevano a pascersi del doloroso spettacolo; ed ogni fiata erano nuove ferite all'agonizzante, e nuove trafitture al cuore della madre, la quale, per minacce, per l'abbandono di tutti i suoi, mai si mosse di , supplendo cogli atti, quando le mancavano la voce e le lagrime, di pregare in misericordia pella vita del figliuolo. Così dieci volte vide la derelitta co' propri occhi l'assassinio del suo sangue, finchè un croato suggellò quel lungo spasimo, freddando con un colpo di grazia il corpo mutilato e malvivo presso il quale l'amore materno pregava e sperava ancora.

Pietoso fatto fu anco quello della Piozzi, che, vecchia e inferma, trovossi di notte cacciata fuori da una sua villetta, ove ella viveva sui Ronchi, e tratta fra le imprecazioni e le minacce dei soldati, e obbligata a vedere dall'una parte l'incendio della città, e dall'altra parte la ruina della casa. Non è villanìa che non le facessero percuotendola e straziandola a diletto; e certo l'avrebbero uccisa, o lasciata morire di dolore e d'affanno in sulla nuda terra, se non erano alcuni contadini nei quali tanto potè la pietosa vista di quella canuta posta a sì indegno vituperio, che, fatto impeto d'improvviso, la tolsero di mano a' soldati e la condussero a salvamento in un seno più remoto di que' colli.

Il sacerdote Andrea Gabetti, maestro di scuola ed alienissimo dall'armi, appena gridati la domenica i patti della resa, si mosse inerme e sicuro verso porta Torrelunga, con animo d'uscire nel quartiere suburbano dove la notte prima aveva veduto, stando pur tuttavia in città, ardere poco fuori dalle mura una sua casetta, nella quale aveva la madre. Alla porta chiese dell'ufficiale, e chiaritolo del pietoso motivo che lo faceva andare, n'ebbe l'assenso. Ma non aveva fatto cento passi, che a gran tempesta fu richiamato, inseguito, preso e mandato all'Haynau in castello, dove, il appresso, come prete e come patriota, venne fucilato.

Pietro Venturini, uomo di legge assai popolare tra i Bresciani, grave come era per l'età e per la podagra, fu pur strappato inerme di sua casa e tradotto in castello. Quivi pressato con minacce a giurare la bandiera imperiale, si rizzò fieramente in mezzo alle baionette puntategli sul cuore, e imprecando ai nemici d'Italia, e mandando un saluto d'amore alla patria e alla libertà chiese ed ottenne di morire.

Carlo Ziga, lavoratore di cocchi, giovine vensettenne e sciancato della persona, fu ghermito dai Croati, e, bagnato d'acqua ragia, arso vivo, credendo i truci che il misero potesse spirare coi più risibili contorcimenti che mai. Se non che il forte popolano, avventatosi sul più prossimo e giubilante dei suoi manigoldi, lo abbrancò, e colla furibonda vendetta, lo tenneindissolubilmente avvinto che lo costrinse a morire con lui di morte aspra e crudele.

 

 




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