Sull’incantato Bosforo,
Passeggiava Zulìa, la
rosellana,
Rapita in mesto fantasie
d’amor.
Un dì la vide il giovane
Sir di Bisanzio, e la creò
sultana;
Ma pria di tutto aver
voleane il cor.
Ambre, alabastri e porpore
Sparse dovunque; e agli
occhi di Zulìa
Mostrò d’ori e di gemme
ampio tesor,
E dalla intenta vergine
Il bellissimo re della
Turchia
Ottenne gli occhi, ma non
n’ebbe il cor.
Volò in battaglia; e i perfidi
Vinse fratelli di Zulìa: ma
festa
Non menò de’ caduti il
vincitor:
Tolti alla morte e liberi
Anzi li volle: e dalla
vergin mesta
Ottenne i baci, ma non
n’ebbe il cor.
Dimenticò le vigili
Cure del regno; e in erma
navicella
Errò con lei degli astri
allo splendor;
Pianse alle sue ginocchia,
E dalla frale giovinetta
bella
Ebbe gli amplessi, ma non
n’ebbe il cor!
Ecco, una sera i portici
Dell’assopito Arème
Suonar di grida, e
un turbine
Di spade, e cento
fiaccole
Per le agitate
tenebre
Confusamente errar;
E il regnator che freme
Cieco, e l’orrenda
sciabola
Sfonda de’ suoi
giannizzeri
Nel petto; e quasi
l’angelo
Dello sterminio
appar!,
Che fu?… Zulìa, la tenera
Zulìa deluso ha
tutti.
E quella notte
naviga
Dell’Ellesponto i
flutti,
Fuggendo alle
inamabili
Cortine e ai
minareti
Lieti — di luce e
fior,
Per ricercar men cerule
Onde, men dolci
venti,
Ma più serene e
libere
Gioie, e più santi
gemiti,
E non spïati accenti
E non temuti amor!
E questi amori arrisero
Alla fuggente?… E il
roseo
Labbro di lei
s’aperse
Più molle vita a
suggere
Da meno ardente
ciel?…
No. Sue parole agli alberi
Selvaggi, alle
stellate
Tenebre, al mar
proferse,
Ma sempre
inascoltate.
E un bruno e mesto
viso,
E un core e un
intelletto,
Che indovinasse i subiti
Misterii delle
lacrime
E i lampi del
sorriso
Con delicato affetto
D’amante e di fratel
Mai più non ebbe. Oh povera
Zulìa, tu passi e
canti
Lunghesso le
fantastiche
Riviere di Granata:
E le fanciulle
amanti
Ti credono la fata,
Che giunge a vol dai
floridi
Paesi delle Urì
Per rivelare ai forti
Le pugne e le
vittorie,
E sulle aperte e
timide
Palme spïar le
sorti,
E solvere i segreti
Dal calice dei
fiori,
E derivar gli
oroscopi
Dal raggio dei
pianeti,
E a quïetar gli
ardori
Notturni delle vergini,
Vaticinarne i talami
Allo spuntar del dì.
Così tu passi; e il crine hai sempre in fiore.
Ma il povero tuo
core
Vuoto è d’amore!
E vai pregando. che
il dolor ti porti
Giù nell’anguste e
forti
Case dei morti!
O meni danze, o doni
Filtri e canzoni;
Ma nessuno, del mondo a esplorar viene
Di che rea febbre
piene
T’ardon le vene.
Stral che ti piaga,
quando
Passi cantando,
Sull’orme alla
diletta
Sua giovinetta,
E tra le siepi e le solinghe aiuole,
Al tramontar del
sole,
Cerca vïole,
Per poi deporle dolcemente nelle
Mani odorose e
belle;
Due gigli anch’elle.
«T’amo,» ella disse
al venticel segreto,
«T’amo,» al lucente
e lieto
Fior del roseto:
E curve e dolorose
Pianser le rose.
Del cor che risaluta
L’età perduta,
Pensò la mesta al suo golfo lontano.
E sospirò, che in
vano
Piacque al sultano.
Dell’incantato Bosforo
Ai palmeti tornò la
rosellana.
Ma non più accesa in
fantasie d’amor.
Ben la rivide il
giovine
Sir di Turchia. Ma un’altra
era sultana,
Che insiem cogli occhi gli
avea dato il cor.
Ambre, alabastri e
porpore
I sogni della povera Zulìa
Turbano adesso, e i drappi
assiri e l’ôr:
Ma gli ebbe un’altra
vergine
Dal bellissimo re della
Turchia,
Che insiem coi baci gli avea
dato il cor:
Mesta Zulìa rivisita
I noti calli, e va soletta a
sera,
Or sospirando al roseo color
D’una fuggente
nuvola,
Ora al vol d’una rondine
leggiera,
Ora alle foglie pallide d’un
fior.
Oh fiorellino! oh
rondine
Cara! oh rosata nuvola
fuggente!
Fate un canto di morte e di
dolor:
Poi lo cantate al
gelido
Origlier della vergine, che
sente
L’amaro tedio della vita, e
muor.