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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • ULTIME ORE DI TORQUATO TASSO
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ULTIME ORE DI TORQUATO TASSO

       Era la notte d’un morente aprile,

Ben remota da noi, ma con eterne

Lacrime degna che la pianga il mondo.

Sovresso i campi dell’eccelsa Roma

Ridea tutto di stelle il firmamento.

Biancheggiavano in lungo ordine i templi.

Eran l’urne de’ Cesari percosse

Dalla imminente luna. E i sette colli,

Cui si curvò la trïonfata terra,

Come sette giganti eran sepolti

In altissimo sonno. E per l’immenso

Aër nulla s’udia, fuorchè il sonante

Precipitar del Tevere divino.

       Dai mordaci dolori e dalle colpe

Han requie nella notte imi e superbi.

Sul suo greppo natal l’aquila posa.

Giace tra i giunchi della siepe il verme.

E con le gigantesche ombre cadenti

Sotto l’interminato arco dei cieli

Dormon tutte le cose. Unica vive,

Custode eterna della razza umana,

La Sventura. E con lei, coronatrice

Degli afflitti, la Morte.

                                   Ahi! verdeggiava

Un bel ramo di lauro in Campidoglio

Per il crin di Torquato; e dai convessi

Padiglioni del ciel questi pianeti

Non fuggiranno, che la illustre chioma

Si stenderà sui miseri guanciali

Dalla man della morte irrigidita.

       Oh nuvoletta, che laggiù rispunti

Nell’azzurro occidente, apri e dilata

Pietosamente il grembo, e tanto chiudi

Lume di ciel, che i mesti occhi mortali

Non offenda così! Però che al mondo

Volge un’ora di lutto; e della sua

Più nobil pianta rimarrà diserto

Il giardin della terra.

                                   Eccolo!… Ahi quanto

Da quel di pria diverso! Or non più vita

Cavalleresca e splendida; non alto

Di destrieri nitrito, e pompe e giostre

E baldanze magnanime, e superbe

Glorie di giovinezza. Una parete

Squallida; il raggio d’una dubbia lampa;

Una povera coltre, e pochi intorno

Pii fratelli d’un chiostro. — Ardono i polsi;

Ardon le fibre; e nel consunto aspetto

Lampeggia l’occhio immobile. Non batte

Palpebra; e in vaghe visïon rapito

Par tuttavia l’infermo. E gli s’infiora

Tra le pallide labbra un dolce riso,

Come accenni al disio d’altro elemento

Più dei nostro felice

                                   «Oh quegli schermi

(Supplicò dolcemente il moribondo

La finestra affisando) oh! quegli schermi,

Che mi vietano il bel lume del cielo,

Apritemi, fratelli!… Io veder voglio

Anco una volta le mie dolci stelle,

Compagne agli estri dei passati tempi.

Anco una volta le mie dolci stelle

       D’un pietoso la man subitamente

Schiuse le imposte. E le sue dolci stelle

Vide Torquato; e per lo scarno volto

Una cocente lacrima gli scese.

       «Come soavi brillano!… Che pace,

Nel firmamento!… Che dolcezza ignota

Tutto quanto mi penetra!… Fratelli,

Meco resti un di voi!… Sento una forte

Necessità di favellar con Dio.

Meco resti un di voi.» —

                                   Sommessamente

Si ritrassero gli altri. E il più canuto

D’anni e di senno alla mortal cortina

Taciturno rimase.

                                   Alzò Torquato

La mano a stento, e si segnò. Poi chiuso

Come in lungo pensier parve; nell’alma

Sentì venir le ricordanze; aperse

Le labbra indarno a favellar; sul fronte

Che ardea cacciò la destra… e in disperate

Lagrime ruppe.

                                   — Ve le conta il cielo

Queste lagrime, o Tasso. Or via; conforto

Datevi e pace. Misero i mortali

Vi fecer, sì; ma Iddio v’ha dato un’alma

Libera e grande. —

                                   «Una terribil croce

Ei m’ha dato… e null’altro. Oh mia materna

Casa!… Oh felice oscurità degli anni

Senza gloria vissuti!…»

                                   — Il sacrosanto

Dono di Dio non maledite in queste

Ore, o Torquato. Ei ve lo diede; Ei seppe

Cui dato era un tal dono; e vi ha creduto

Di possederlo degno. Oh vi rimembri

D’Alighieri infelice! —

                                   Arse Torquato

Di vergogna a un tal nome; e si. ristette

Dal penoso lamento.

                                   «È ver!… Codarda

Debolezza mi vince. Oh! ma non era

Così la tempra del mio spirto. I lunghi

Odii, gli sfregi, il carcere, la morte

D’ogni idea più sublime, e il mio settenne

Non udito lamento, ecco i feroci

Percussori del mio misero spirto!

Ah!… Non era così!…»

                                   — Tasso, gli sguardi

In quel svolto affissate: Egli v’insegni

Il calice a votar dei patimenti

Voi sapete Chi fu! —

                           Giunse la mani

In silenzio il poeta; e con ardente

Confidenza pregò:

                                   «Re dei dolori,

E Dio della fortezza! A un travïato

Spirito infermo che domanda pace,

Perdona omai questo corruccio. In petto

Tu mi ponesti una terribil fiamma:

Ella arder volle: ma da me non venne

Custodita abbastanza; e in lampi d’ira,

E in pensieri d’orgoglio, e in ardimenti

Insensati ella ruppe. Il tuo cammino

D’umiltà, di coraggio e di dolcezza

Io seguitar non valsi; e al cor ne sento

Penitenza amarissima. Sublime

Era il patir tacendo; e vil mi parve;

E non seppi domar la insofferente

Anima; e caddi da quell’alto loco,

Donde forse io potea schiudere al. mondo

Più gran tesori d’armonie, più nova

Luce di carmi, e d’opere gentili

Più mirabile esempio

                                   — Ecco, Torquato.

(Il monaco proruppe.) Ecco l’eccelso

Spirito che ti sente e ti confessa,

O Artefice dell’alte intelligenze,

Dio, signor della gloria e della morte.

Ben è questi il cantor della tua santa

Gerusalemme. —

                                   «Si! son io. (Proruppe

Il poeta infiammandosi.) Due lustri

Piansi; due lustri meditai; la mente

Per due lustri m’accese una potenza

Glorïosa, indomabile, divina.

Sognai campi e battaglie, armi ed amori;

Le infernali falangi e le celesti

Mi lampeggiâr nel concitato spirto;

E in quell’ore fantastiche e sublimi

D’abbracciar mi parea secoli e mondi

Non conosciuti… e confidai che un giorno

Qui sulla fronte mia, qui deporrebbe

Italia il premio di tant’anni, il lungo

Desiderio dei vati, il glorïoso

Lauro di Dante. Oh sogni miei! Cadeste,

Come fior, nella polve; e le mie corde,

Non risposer le mie corde infelici

Al pensiero di Dio!…»

                                   — V’inganna il troppo

Delirar della mente, o sventurato,

Nei febbrili tumulti. E non vi è noto

Quanti plausi dall’Alpe all’Appennino

Mandi Italia a Torquato… e come pianga

Però che sa che il conceduto alloro

Forse… —

              «Il mio crin non cingerà. Lo sento

Che al mio letto s’approssima la morte.

Meglio così! Qual dono inaspettato

La ricevo da Dio, che questo peso

D’ira, di tedio e di dolor mi toglie.

Da Dio, che m’apre (i’ n’ho speranza) un loco

Di salvamento a’ miei liberi affetti,

Che l’odio umano incatenò. Fra tanti

Angeli al limitar del paradiso

Un mi sorride e le amorose braccia

In me tende… e mi chiama. Ahi… che vaneggio?

O fratel, proteggetemi. Profano

Pensier di colpa è questo mio!… Non posso

Veramente domarlo! Io ben sospiro

Al cielo, io sì; ma per colei sospiro,

Per colei, che nel mondo ebbe la parte

Di me più viva; per colei che accese

I malinconici estri del mio canto;

Per colei che mi fa dolce la morte.

Ah, senz’essa, per me lume non splende

Di Paradiso

               — Acquetati, infelice!…

Anche di questo il Dio misericorde

Perdonerà l’anima tua. Fu grande,

Alto l’affetto che ti vinse, ed ella

Fatta è celeste; e la vedrai coprodi

Che tu cantasti. —

              «Oh mio Tancredi! oh mio

Valoroso Rinaldo! oh mia Clorinda!

Oh Elëonora mia! Vi risaluto

Io vostro un tempo, eternamente io vostro.

Quanti dolori, Elëonora, in quella

Bolgia terrestre! E come piansi in dura

Solitudin rimaso! E che cocente

Disío di rivederti, e d’aver pace!

Sorridi, amica; il tuo Torquato è giunto.

Giunto?… Via quegli sgherri! Oh mi togliete

Dal piè questa catena! Oh questo cencio

Strappatemi! Smovetemi dal fronte

Queste chiome che m’ardono! La mia

Gerusalem rendetemi!… Non voglio

Supplicar. Non ho colpe. Ho spasimato;

Ho lacrimato lacrime di sangue!

Vil, per Dio! quella terra ove si nasce

O deboli, o feroci; ove si debbe

Chiudere gli occhi o martiri, o codardi!» —

       Orava il frate perchè requie avesse

Quel tormentato spirito. Rinvenne

Pur finalmente l’infelice; e molto

Affermò di patir.

                        «Grazie vi rendo

Della vostra pietà!… Mi liberaste

Da terribili aspetti, ond’ebbi l’alma

travagliata!… Quel gentil conforto

Che porgete a chi muor, vi sia renduto

Nell’ora vostra! Io benedico il cielo,

Che qui compio la mia. Qualche momento,

In ver, sperai di sollevar le accese

Membra da queste spine, e bever l’aura

Libera… e il passo per gli aperti campi

Riportar novamente. Oh!… fûr pietose,

Ingannatrici fantasie. Che intensa

Febbre passa qui dentro e mi consuma!…

M’arde Il cerebro! Ho sete

                                   Il venerando

Vecchio porgendo il refrigerio all’arse

Labbra del moribondo, e consolato

Veggendolo così per quelle poche

Stille ottenute, ripensò l’orrendo

Spasimo di Colui, che invan le chiese

Sulla rupe del Golgota.

                                   «Fratello!…

Ch’io vi stringa la man. Riconoscente

Ha l’anima Torquato. Ha, se non altro,

Questa ricchezza. E d’una grazia ancora

Dato mi sia di supplicarvi. Un giorno,

Se mai da questi solitari chiostri

Voi moverete a visitar tant’altre

Città d’Italia, e vi verran negli occhi

Le dolci rive della mia Sorrento

Salutate quell’aure. Indi cogliete,

Cogliete, in nome mio, da quelle sponde

Pochi fior dolorosi; e con gentile

Reverenza versateli, in mio nome,

Sul materno sepolcro! Indi alla dolce

Sorella mia raccomandate pace

Nell’infortunio. E ditele che questo

Dolor della mia morte ella riceva

Da quella man, che tutto dona e toglie,

E sa perchè

                        — Queste parole vostre,

Questi pii desiderii obbligo sacro

Per me saranno. —

                                   «E ven ricambi il cielo

D’ampia mercede!… E ancor di questo io voglio

Supplicarvi. Se mai vi si conceda

Di veder l’Eridàno, e la superba

Città d’Alfonso… la fatal Ferrara

Colà vedrete il carcere nefando

Ov’io giacqui tant’anni; e i maledetti

Ferri, e le turpi vesti onde coperto

Venni. Vedrete; e piangerete, io spero,

Ricordando l’amico a cui si volle

Toglier persino l’intelletto, il dono

Sacrosanto di Dio. Però, non sento

Odio o rancor per essi. Il mio perdono

Ampiamente recate! E così possa

L’età ventura perdonar avanti

Al suo giudicio, come suol, dall’urne

Trarre i sepolti!… Perocchè Torquato,

In quell’ora remota, assai più grande

Sarà dei prenci.» —

                                    Lampeggiaron gli occhi

Del poeta, e si tacque. — Indi, più sempre

Si fèr pallidi i labbri; e una divina

Aura spirògli nell’aperta fronte,

Che da un alto pensier parve occupata.

Era una fantasia dolce e potente,

Che per l’ultima volta il sospingea

Pietosamente a delirar.

                                   Sorrise

Non umil troppo, superbo il vate,

Ma pien di nobiltà gli occhi e l’aspetto.

Indi, siccome il commovesse un alto

Rapimento di gioia, ei bello apparve

Fuor del costume di mortal persona,

E sui cubiti ergendosi:

                                   «Vi sento,

Aure del Campidoglio! (egli proruppe)

Come è dolce spirarvi in questa altezza!…

Come rapido ascesi!… Io vi contemplo,

Divine onde del Tebro!… Oh! che diffusa

Moltitudine intorno! È del mio nome

Che la città dei sette colli esulta!…

Son per me questi canti!… Anch’io mi posso

Del mio trionfo inebriar!… Quel lauro

Datemi!… È mio!… Non è potenza in terra

Che rapirmelo possa!»

                                   Brancolando

Pel vuoto aêr stese la man. Gli parve

Di possederlo. Lo baciò. Sul fronte

Se lo depose. —

                        Addio, Torquato. Il tuo

Secol ti piange e avrà lacrime e canti

Per te sempre la Terra.

                                   Dai convessi

Padiglioni del cielo ivan fuggendo

Le bianche stelle; e quella illustre chioma.

Nereggiando scendea sull’origliero

Dalla man della Morte irrigidita.

 




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