Era la notte d’un morente aprile,
Ben remota da noi, ma con
eterne
Lacrime degna che la pianga
il mondo.
Sovresso i campi
dell’eccelsa Roma
Ridea tutto di stelle il
firmamento.
Biancheggiavano in lungo
ordine i templi.
Eran l’urne de’ Cesari
percosse
Dalla imminente luna. E i
sette colli,
Cui si curvò la trïonfata
terra,
Come sette giganti eran
sepolti
In altissimo sonno. E per
l’immenso
Aër nulla s’udia, fuorchè il
sonante
Precipitar del Tevere
divino.
Dai mordaci dolori e dalle colpe
Han requie nella notte imi e
superbi.
Sul suo greppo natal l’aquila
posa.
Giace tra i giunchi della
siepe il verme.
E con le gigantesche ombre
cadenti
Sotto l’interminato arco dei
cieli
Dormon tutte le cose. Unica
vive,
Custode eterna della razza
umana,
La Sventura. E con lei,
coronatrice
Degli afflitti, la Morte.
Ahi! verdeggiava
Un bel ramo di lauro in
Campidoglio
Per il crin di Torquato; e
dai convessi
Padiglioni del ciel questi
pianeti
Non fuggiranno, che la
illustre chioma
Si stenderà sui miseri
guanciali
Dalla man della morte
irrigidita.
Oh nuvoletta, che laggiù rispunti
Nell’azzurro occidente, apri
e dilata
Pietosamente il grembo, e
tanto chiudi
Lume di ciel, che i mesti
occhi mortali
Non offenda così! Però che
al mondo
Volge un’ora di lutto; e
della sua
Più nobil pianta rimarrà
diserto
Il giardin della terra.
Eccolo!… Ahi quanto
Da quel di pria diverso! Or
non più vita
Cavalleresca e splendida;
non alto
Di destrieri nitrito, e
pompe e giostre
E baldanze magnanime, e
superbe
Glorie di giovinezza. Una
parete
Squallida; il raggio d’una
dubbia lampa;
Una povera coltre, e pochi
intorno
Pii fratelli d’un chiostro.
— Ardono i polsi;
Ardon le fibre; e nel
consunto aspetto
Lampeggia l’occhio immobile.
Non batte
Palpebra; e in vaghe visïon
rapito
Par tuttavia l’infermo. E
gli s’infiora
Tra le pallide labbra un
dolce riso,
Come accenni al disio
d’altro elemento
Più dei nostro felice
«Oh quegli schermi
(Supplicò dolcemente il
moribondo
La finestra affisando) oh!
quegli schermi,
Che mi vietano il bel lume
del cielo,
Apritemi, fratelli!… Io
veder voglio
Anco una volta le mie dolci
stelle,
Compagne agli estri dei
passati tempi.
Anco una volta le mie dolci
stelle!»
D’un pietoso la man subitamente
Schiuse le imposte. E le sue
dolci stelle
Vide Torquato; e per lo
scarno volto
Una cocente lacrima gli
scese.
«Come soavi brillano!… Che pace,
Nel firmamento!… Che
dolcezza ignota
Tutto quanto mi penetra!…
Fratelli,
Meco resti un di voi!… Sento
una forte
Necessità di favellar con
Dio.
Meco resti un di voi.» —
Sommessamente
Si ritrassero gli altri. E
il più canuto
D’anni e di senno alla
mortal cortina
Taciturno rimase.
Alzò Torquato
La mano a stento, e si
segnò. Poi chiuso
Come in lungo pensier parve;
nell’alma
Sentì venir le ricordanze;
aperse
Le labbra indarno a favellar;
sul fronte
Che ardea cacciò la destra…
e in disperate
Lagrime ruppe.
— Ve le conta il cielo
Queste lagrime, o Tasso. Or
via; conforto
Datevi e pace. Misero i
mortali
Vi fecer, sì; ma Iddio v’ha
dato un’alma
Libera e grande. —
«Una terribil croce
Ei m’ha dato… e null’altro.
Oh mia materna
Casa!… Oh felice oscurità
degli anni
Senza gloria vissuti!…»
— Il sacrosanto
Dono di Dio non maledite in
queste
Ore, o Torquato. Ei ve lo
diede; Ei seppe
Cui dato era un tal dono; e
vi ha creduto
Di possederlo degno. Oh vi
rimembri
D’Alighieri infelice! —
Arse Torquato
Di vergogna a un tal nome; e
si. ristette
Dal penoso lamento.
«È ver!… Codarda
Debolezza mi vince. Oh! ma
non era
Così la tempra del mio
spirto. I lunghi
Odii, gli sfregi, il
carcere, la morte
D’ogni idea più sublime, e
il mio settenne
Non udito lamento, ecco i
feroci
Percussori del mio misero
spirto!
Ah!… Non era così!…»
— Tasso, gli sguardi
In quel svolto affissate:
Egli v’insegni
Il calice a votar dei
patimenti
Voi sapete Chi fu! —
Giunse la mani
In silenzio il poeta; e con
ardente
Confidenza pregò:
«Re dei dolori,
E Dio della fortezza! A un
travïato
Spirito infermo che domanda
pace,
Perdona omai questo
corruccio. In petto
Tu mi ponesti una terribil
fiamma:
Ella arder volle: ma da me
non venne
Custodita abbastanza; e in
lampi d’ira,
E in pensieri d’orgoglio, e
in ardimenti
Insensati ella ruppe. Il tuo
cammino
D’umiltà, di coraggio e di
dolcezza
Io seguitar non valsi; e al cor
ne sento
Penitenza amarissima.
Sublime
Era il patir tacendo; e vil
mi parve;
E non seppi domar la
insofferente
Anima; e caddi da quell’alto
loco,
Donde forse io potea
schiudere al. mondo
Più gran tesori d’armonie,
più nova
Luce di carmi, e d’opere
gentili
Più mirabile esempio.»
— Ecco, Torquato.
(Il monaco proruppe.) Ecco
l’eccelso
Spirito che ti sente e ti
confessa,
O Artefice dell’alte
intelligenze,
Dio, signor della gloria e
della morte.
Ben è questi il cantor della
tua santa
Gerusalemme. —
«Si! son io. (Proruppe
Il poeta infiammandosi.) Due
lustri
Piansi; due lustri meditai;
la mente
Per due lustri m’accese una
potenza
Glorïosa, indomabile,
divina.
Sognai campi e battaglie,
armi ed amori;
Le infernali falangi e le
celesti
Mi lampeggiâr nel concitato
spirto;
E in quell’ore fantastiche e
sublimi
D’abbracciar mi parea secoli
e mondi
Non conosciuti… e confidai
che un giorno
Qui sulla fronte mia, qui
deporrebbe
Italia il premio di
tant’anni, il lungo
Desiderio dei vati, il glorïoso
Lauro di Dante. Oh sogni
miei! Cadeste,
Come fior, nella polve; e le
mie corde,
Non risposer le mie corde
infelici
Al pensiero di Dio!…»
— V’inganna il troppo
Delirar della mente, o
sventurato,
Nei febbrili tumulti. E non
vi è noto
Quanti plausi dall’Alpe
all’Appennino
Mandi Italia a Torquato… e
come pianga
Però che sa che il conceduto
alloro…
Forse… —
«Il mio crin non cingerà. Lo sento
Che al mio letto
s’approssima la morte.
Meglio così! Qual dono
inaspettato
La ricevo da Dio, che questo
peso
D’ira, di tedio e di dolor
mi toglie.
Da Dio, che m’apre (i’ n’ho
speranza) un loco
Di salvamento a’ miei liberi
affetti,
Che l’odio umano incatenò.
Fra tanti
Angeli al limitar del
paradiso
Un mi sorride e le amorose
braccia
In me tende… e mi chiama.
Ahi… che vaneggio?
O fratel, proteggetemi.
Profano
Pensier di colpa è questo
mio!… Non posso
Veramente domarlo! Io ben
sospiro
Al cielo, io sì; ma per
colei sospiro,
Per colei, che nel mondo
ebbe la parte
Di me più viva; per colei
che accese
I malinconici estri del mio
canto;
Per colei che mi fa dolce la
morte.
Ah, senz’essa, per me lume
non splende
Di Paradiso!»
— Acquetati,
infelice!…
Anche di questo il Dio
misericorde
Perdonerà l’anima tua. Fu
grande,
Alto l’affetto che ti vinse,
ed ella
Fatta è celeste; e la vedrai
co’ prodi
Che tu cantasti. —
«Oh mio Tancredi! oh mio
Valoroso Rinaldo! oh mia
Clorinda!
Oh Elëonora mia! Vi risaluto
Io vostro un tempo,
eternamente io vostro.
Quanti dolori, Elëonora, in
quella
Bolgia terrestre! E come
piansi in dura
Solitudin rimaso! E che
cocente
Disío di rivederti, e d’aver
pace!
Sorridi, amica; il tuo
Torquato è giunto.
Giunto?… Via quegli sgherri!
Oh mi togliete
Dal piè questa catena! Oh
questo cencio
Strappatemi! Smovetemi dal
fronte
Queste chiome che m’ardono!
La mia
Gerusalem rendetemi!… Non
voglio
Supplicar. Non ho colpe. Ho
spasimato;
Ho lacrimato lacrime di
sangue!
Vil, per Dio! quella terra
ove si nasce
O deboli, o feroci; ove si
debbe
Chiudere gli occhi o martiri, o codardi!» —
Orava il frate perchè requie avesse
Quel tormentato spirito.
Rinvenne
Pur finalmente l’infelice; e
molto
Affermò di patir.
«Grazie vi rendo
Della vostra pietà!… Mi
liberaste
Da terribili aspetti,
ond’ebbi l’alma
Sì travagliata!… Quel gentil
conforto
Che porgete a chi muor, vi
sia renduto
Nell’ora vostra! Io benedico
il cielo,
Che qui compio la mia.
Qualche momento,
In ver, sperai di sollevar
le accese
Membra da queste spine, e
bever l’aura
Libera… e il passo per gli
aperti campi
Riportar novamente. Oh!… fûr
pietose,
Ingannatrici fantasie. Che
intensa
Febbre passa qui dentro e mi
consuma!…
M’arde Il cerebro! Ho sete!»
Il venerando
Labbra del moribondo, e
consolato
Veggendolo così per quelle
poche
Stille ottenute, ripensò
l’orrendo
Spasimo di Colui, che invan
le chiese
Sulla rupe del Golgota.
«Fratello!…
Ch’io vi stringa la man.
Riconoscente
Ha l’anima Torquato. Ha, se
non altro,
Questa ricchezza. E d’una
grazia ancora
Dato mi sia di supplicarvi.
Un giorno,
Se mai da questi solitari
chiostri
Voi moverete a visitar
tant’altre
Città d’Italia, e vi verran
negli occhi
Le dolci rive della mia
Sorrento…
Salutate quell’aure. Indi
cogliete,
Cogliete, in nome mio, da
quelle sponde
Pochi fior dolorosi; e con
gentile
Reverenza versateli, in mio
nome,
Sul materno sepolcro! Indi
alla dolce
Sorella mia raccomandate
pace
Nell’infortunio. E ditele
che questo
Dolor della mia morte ella
riceva
Da quella man, che tutto
dona e toglie,
E sa perchè.»
— Queste parole vostre,
Questi pii desiderii obbligo
sacro
Per me saranno. —
«E ven ricambi il cielo
D’ampia mercede!… E ancor di
questo io voglio
Supplicarvi. Se mai vi si
conceda
Di veder l’Eridàno, e la
superba
Città d’Alfonso… la fatal
Ferrara…
Colà vedrete il carcere
nefando
Ov’io giacqui tant’anni; e i
maledetti
Ferri, e le turpi vesti onde
coperto
Venni. Vedrete; e
piangerete, io spero,
Ricordando l’amico a cui si
volle
Toglier persino
l’intelletto, il dono
Sacrosanto di Dio. Però, non
sento
Odio o rancor per essi. Il
mio perdono
Ampiamente recate! E così
possa
L’età ventura perdonar… nè
avanti
Al suo giudicio, come suol,
dall’urne
Trarre i sepolti!… Perocchè
Torquato,
In quell’ora remota, assai
più grande
Sarà dei prenci.» —
Lampeggiaron gli occhi
Del poeta, e si tacque. —
Indi, più sempre
Si fèr pallidi i labbri; e
una divina
Aura spirògli nell’aperta
fronte,
Che da un alto pensier parve
occupata.
Era una fantasia dolce e
potente,
Che per l’ultima volta il
sospingea
Pietosamente a delirar.
Sorrise
Non umil troppo, nè superbo
il vate,
Ma pien di nobiltà gli occhi
e l’aspetto.
Indi, siccome il commovesse
un alto
Rapimento di gioia, ei bello
apparve
Fuor del costume di mortal
persona,
E sui cubiti ergendosi:
«Vi sento,
Aure del Campidoglio! (egli
proruppe)
Come è dolce spirarvi in
questa altezza!…
Come rapido ascesi!… Io vi
contemplo,
Divine onde del Tebro!… Oh!
che diffusa
Moltitudine intorno! È del
mio nome
Che la città dei sette colli
esulta!…
Son per me questi canti!…
Anch’io mi posso
Del mio trionfo inebriar!…
Quel lauro
Datemi!… È mio!… Non è
potenza in terra
Che rapirmelo possa!»
Brancolando
Pel vuoto aêr stese la man.
Gli parve
Di possederlo. Lo baciò. Sul
fronte
Se lo depose. —
Addio, Torquato. Il tuo
Secol ti piange e avrà
lacrime e canti
Per te sempre la Terra.
Dai convessi
Padiglioni del cielo ivan
fuggendo
Le bianche stelle; e quella
illustre chioma.
Nereggiando scendea
sull’origliero
Dalla man della Morte
irrigidita.