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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • DOLORI E GIUSTIZIE
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DOLORI E GIUSTIZIE1

Elegia

 

              Emilio mio,

       Ti scrivo col tramonto del sole; quando l’anima torna per dolce istinto di una sua tristezza dagli oggetti del mondo nella sua intima vita. Di me dunque ti parlo: e, non so perchè, ma una voce misteriosa mi dice di consegnarti questa pagina, come si consegna il rotolo al mare nell’ora del naufragio.

Come son fatto, tu il sai: impetuoso, malinconico, bizzarro; ma schietto e buono. Sai che mia suprema ricchezza è il mio canto; e ch’io riposo nella benevolenza di pochi, come in asilo più sicuro dalle tiepidezze e dai mutamenti umani. Non son poverissimo, infelicissimo, perché ho modesti desiderî e coscienza pura. Pellegrinando passo di terra in terra: e raccolgo le esperienze degli uomini e delle cose; esperienze che quasi sempre si conchiusero per me con un segnalato dolore. Non mi lagno però: alcuni uomini somigliano alle pietruzze poste in riva all’Oceano: le fascia il sole un momento, e poi son travolte dai cavalloni del turbine. Chi sa se torneranno più al lido, e se di nuovo il sole le fascierà? Per me lieve preoccupazione è cotesta. Credo saldamente in Dio; adoro la verità; aspetto il regno della giustizia; parlo con la consapevole natura; e penso e vivo poetando. Fieramente assetato di libertà, giocai a quel gioco nei del pericolo: e per il profondo amore di essa non mi duole di aver patito; o dirò meglio, mi duole di non aver patito di più. Ma certe superlative novità mi conturbano, e non le comprendo. Ciò vuol dire che la mia giovinezza è passata. Nella guerra italiana mi eccitò una profonda e riverente simpatia Carlo Alberto, magnanimo ed infelice: mi parve un re cavalleresco della grandezza antica: e lo cantai come si canta la virtù, la lealtà e la sventura. Ciò spiacque ad uomini di partito; anime tormentate dalla diffidenza, dalla superbia e, dall’odio; e mi guardarono con sospetti degni di loro. Contento del mio cammino, non mi son cacciato sulla via delle volgari ambizioni. Il poeta non può averne che una sola ed insigne; quella di vivere concittadino dei posteri. Se ciò gli è conteso, canti e si spenga come il rosignolo sulla frasca del suo boschetto natale. Non amico di tumulti e rabbie di popolo, credetti sempre italiana virtù il condannarli. Quando la parola del coraggio mi parve più debito che ostentazione, parlai senza paura; quando il silenzio mi fu consigliato da sdegnoso pudore, tacqui senza viltà. Questo bel regno della concorde Italia era la mia fede e il mio voto; fede e voto veramente degni della persecuzione d’uomini nati in Italia! Quando parlai del Piemonte, come della gente più forte e virtuosa della penisola, e ne parlai con quell’omaggio che inspira la grandezza de’ sacrificii, parecchi dottori pubblicani e farisei del mondo politico, mi ghignarono intorno; il lutto delle madri e il sangue dei martiri valse a impor loro, non dirò il debito dell’ammirazione, come a giusti fratelli, ma neppure la dignità del silenzio, come ad emuli offesi. Oh astiosi e superbi; quanti mali infliggete alla patria, e quante piccole atrocità consumate contro chi vi è spina e martello! L’uomo schietto tra voi è l’uomo importuno. Io mi onoro di esservi importunissimo. Non repubblicano in Venezia repubblicana, ebbi il carcere; non democratico in Firenze democratica, ebbi l’esilio. Quell’idea di repubblica era in Venezia un error di buon senso e una colpa d’ingratitudine: larva di democrazia era in Firenze un assurdo di fatto e una cagione di scandalo. Combattei l’una e l’altra, come valsi, col diritto del mio libero pensiero; e mi risposero di tal mercede quei repubblicani santi e democratici puri, che ne avrebbe arrossito il più impudico sgherro imperiale. Ma l’uom fa le ingiurie e il tempo le vendica. Io però benedico ed amo Venezia che persiste, generosa Termopili, contro al barbaro; ringrazio ed amo Firenze che fece italianamente suo l’oltraggio a me fatto. Gli uomini che governano queste due nobilissime città passeranno come l’ombra. Lasciamoli passare. Troppo gravi cose maturano nelle convulsioni del mondo, per insistere sui ricordi d’un proprio dolore, o d’un’altrui vergogna. Emilio mio, amari giorni corrono agli onesti che tacciono per sdegno, e agli sdegnosi che parlano per onestà. Con audacie dolorose si contamina tutto. Si grida fede, libertà, popolo, patria; e poi alla fede si vela l’altare, alla libertà si toglie il pudore, al popolo s’insegna il tumulto, alla patria si ribadiscono le catene. Se andasse perduta la fiducia nell’Onnipotente, che resterebbe oggi agli uomini? Addio; sovvengati dell’amico tuo, che recherà nel sepolcro i canti, il volto e la coscienza immutabili. E tu sta più solo che puoi. Oggi la solitudine è dignità di stessi.

Firenze, 21 dicembre 1848.

 




1 L'autore per ordine dei celebrati Domenico Guerrazzi di Livorno, e Giuseppe Montanelli di Fucecchio, esiliato dalla Toscana, ammalato per getti di sangue, vigilato da un Carabiniere, circondato dagli amici, vendicato dalla opinione pubblica e dalla stampa, dettava questo canto tre giorni prima di partire da Firenze alla volta del Piemonte, a cui lo consacra per antico debito d'affetto e per nuovissimo di riverenza.






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