Elegia
Emilio mio,
Ti scrivo col tramonto del sole; quando l’anima torna per
dolce istinto di una sua tristezza dagli oggetti del mondo nella sua intima
vita. Di me dunque ti parlo: e, non so perchè, ma una voce misteriosa mi dice
di consegnarti questa pagina, come si consegna il rotolo al mare nell’ora del
naufragio.
Come son
fatto, tu il sai: impetuoso, malinconico, bizzarro; ma schietto e buono. Sai
che mia suprema ricchezza è il mio canto; e ch’io riposo nella benevolenza di
pochi, come in asilo più sicuro dalle tiepidezze e dai mutamenti umani. Non son
poverissimo, nè infelicissimo, perché ho modesti desiderî e coscienza pura.
Pellegrinando passo di terra in terra: e raccolgo le esperienze degli uomini e
delle cose; esperienze che quasi sempre si conchiusero per me con un segnalato
dolore. Non mi lagno però: alcuni uomini somigliano alle pietruzze poste in riva
all’Oceano: le fascia il sole un momento, e poi son travolte dai cavalloni del
turbine. Chi sa se torneranno più al lido, e se di nuovo il sole le fascierà?
Per me lieve preoccupazione è cotesta. Credo saldamente in Dio; adoro la
verità; aspetto il regno della giustizia; parlo con la consapevole natura; e
penso e vivo poetando. Fieramente assetato di libertà, giocai a quel gioco nei
dì del pericolo: e per il profondo amore di essa non mi duole di aver patito; o
dirò meglio, mi duole di non aver patito di più. Ma certe superlative novità mi
conturbano, e non le comprendo. Ciò vuol dire che la mia giovinezza è passata.
Nella guerra italiana mi eccitò una profonda e riverente simpatia Carlo
Alberto, magnanimo ed infelice: mi parve un re cavalleresco della grandezza
antica: e lo cantai come si canta la virtù, la lealtà e la sventura. Ciò
spiacque ad uomini di partito; anime tormentate dalla diffidenza, dalla
superbia e, dall’odio; e mi guardarono con sospetti degni di loro. Contento del
mio cammino, non mi son cacciato sulla via delle volgari ambizioni. Il poeta
non può averne che una sola ed insigne; quella di vivere concittadino dei
posteri. Se ciò gli è conteso, canti e si spenga come il rosignolo sulla frasca
del suo boschetto natale. Non amico di tumulti e rabbie di popolo, credetti
sempre italiana virtù il condannarli. Quando la parola del coraggio mi parve
più debito che ostentazione, parlai senza paura; quando il silenzio mi fu
consigliato da sdegnoso pudore, tacqui senza viltà. Questo bel regno della concorde
Italia era la mia fede e il mio voto; fede e voto veramente degni della
persecuzione d’uomini nati in Italia! Quando parlai del Piemonte, come della
gente più forte e virtuosa della penisola, e ne parlai con quell’omaggio che
inspira la grandezza de’ sacrificii, parecchi dottori pubblicani e farisei del
mondo politico, mi ghignarono intorno; nè il lutto delle madri e il sangue dei
martiri valse a impor loro, non dirò il debito dell’ammirazione, come a giusti
fratelli, ma neppure la dignità del silenzio, come ad emuli offesi. Oh astiosi
e superbi; quanti mali infliggete alla patria, e quante piccole atrocità
consumate contro chi vi è spina e martello! L’uomo schietto tra voi è l’uomo
importuno. Io mi onoro di esservi importunissimo. Non repubblicano in Venezia
repubblicana, ebbi il carcere; non democratico in Firenze democratica, ebbi
l’esilio. Quell’idea di repubblica era in Venezia un error di buon senso e una
colpa d’ingratitudine: larva di democrazia era in Firenze un assurdo di fatto e
una cagione di scandalo. Combattei l’una e l’altra, come valsi, col diritto del
mio libero pensiero; e mi risposero di tal mercede quei repubblicani santi e
democratici puri, che ne avrebbe arrossito il più impudico sgherro imperiale.
Ma l’uom fa le ingiurie e il tempo le vendica. Io però benedico ed amo Venezia
che persiste, generosa Termopili, contro al barbaro; ringrazio ed amo Firenze
che fece italianamente suo l’oltraggio a me fatto. Gli uomini che governano
queste due nobilissime città passeranno come l’ombra. Lasciamoli passare.
Troppo gravi cose maturano nelle convulsioni del mondo, per insistere sui
ricordi d’un proprio dolore, o d’un’altrui vergogna. Emilio mio, amari giorni
corrono agli onesti che tacciono per sdegno, e agli sdegnosi che parlano per
onestà. Con audacie dolorose si contamina tutto. Si grida fede, libertà,
popolo, patria; e poi alla fede si vela l’altare, alla libertà si toglie il
pudore, al popolo s’insegna il tumulto, alla patria si ribadiscono le catene.
Se andasse perduta la fiducia nell’Onnipotente, che resterebbe oggi agli
uomini? Addio; sovvengati dell’amico tuo, che recherà nel sepolcro i canti, il
volto e la coscienza immutabili. E tu sta più solo che puoi. Oggi la solitudine
è dignità di sè stessi.
Firenze, 21 dicembre 1848.