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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • DOLORI E GIUSTIZIE
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DOLORI E GIUSTIZIE

Dunque sui sacri margini .

Velati dalla bruna

Ombra dell’Alpe, il languido

Mio capo adagerò,

Svegliando ai consapevoli

Silenzii della luna

Di melodie fantastiche

L’onda regal del Po?

Grazie a’ miei fati. Un intimo

Desio, come d’amante,

Di voi pur sempre, o memori

Plaghe, mi punse il cor;

Tornerò dunque a premervi,

Piagge dilette e sante,

Che un sull’orme al profugo

Lauri cresceste e fior.

Come la bruna rondine,

Fida del mar veliera,

Drizza pur sempre al cognito

Trave l’affetto, e il vol;

Io vi drizzai la trepida

Piuma del cor leggiera,

Più che alle stelle e ai zeffiri

Dei mio materno suol.

Chè voi mi amaste: e un gelido

Cor non amaste. O giorni

Miei desolati! oh vedove

Notti del mio pensier!

Oh ingrate veglie! oh inutile

Sogno de’ miei ritorni!

In che nefandi calici

Dio mi costrinse a ber!

Le fresche aurore, i limpidi

Miei vespri alla collina,

L’eco de’ corni e il fervido

Moto de’ veltri al pian,

Gli antri, le coste, i floridi

Boschetti e la marina

Sul mesto cor dell’esule

Versâr lusinghe invan.

Sin di due trecce il morbido

Nerissimo volume,

E il canto, per la tenebra

Ignea colonna a me,

Mai più rifar non seppero

Agli estri miei le piume,

Dacché il poeta, o libere

Alpi, l’addio vi die’.

Oh, quante volte, un arido

Crespo mirando, un fiore,

Sveglie bizzarre al cupido

Latente sovvenir,

Di procellosi palpiti

Sentii balzarmi il core,

E il pronto viso in porpora

Mutarsi e tramortir!

Oh, quante volte, armigero

Nido di prodi antico,

Di te parlando, un gemito

L’anima mia levò,

Siccome avvien nei facili

Momenti, che all’amico,

Si vuol narrar d’un misero

Nodo che Dio spezzò!

Con sì fiero tormento io t’amai;

E negli occhi dell’esule, oh credi,

La letizia non venne più mai!

Solitario nell’erme mie sedi,

Non curando la infida ventura,

Ai pensosi silenzii mi diedi!

E presso alla pia sepoltura,

Che raccoglie il mio dolce parente,

Lacrimai colla mesta natura!

Ma pur sempre dal petto fremente

Misi un grido sul molto e nefando

Cimiterio dell’itala gente.

E il ben vigile sgherro esecrando

Per quel grido mi ordì la catena,

Poi le tetre miserie del bando.

Ti ringrazio, o mia gloria e mia pena,

Fedel musa, che meco hai diviso

Gli ardui giorni, costante e serena;

Ti ringrazio, chè il mesto mio viso

Più ti valse dell’intima acuta

Ricordanza del tuo paradiso.

Ahi! la fede dell’uom si tramuta,

Non la tua; così splendida e forte

Come l’ora in ch’io t’ho conosciuta!

Dolce amica, alle pallide e corte

Mie giornate, te sola vogl’io,

Dolce amica, al mio letto di morte.

Ché in te sola del nido natio

Più m’accese l’indomito affetto,

Chè in te sola conobbi più Dio.

Ahimè! d’odio rigurgita il petto

De’ mortali, e l’un verme si scaglia

Sovra l’altro a rapirsi il banchetto!

No, mia musa. È una giusta battaglia

Quella ch’odi sul sacro Ticino:

Ben fu cinto ogni brando, ogni maglia .

si pugna pel nostro destino,

son vòlti dell’Alpe i leoni

Nelle reni all’estranio Caino.

E tu pensa le grandi canzoni,

Musa mia, quando l’aquila infame

Fia respinta nei patrii burroni.

E coperta di barbaro ossame

Splenda Italia, e a quel pasto s’allegri

Delle cagne notturne la fame.

Oh speranza!… Ondeggiavano i negri

Battaglioni, fremevan le squille,

Ruggìa l’ira nel polso degli egri,

Era un rombo di campi e di ville,

Dardeggiavan di guerra sin’anco

Le pensose virginee pupille;

Di purpureo, di verde e di bianco

Colorata era l’aria d’intorno,

Luccicava d’un ferro ogni fianco.

Oh speranza! fior breve d’un giorno!

Tu cadesti coll’ombra… e rimase

Di percossi un funereo soggiorno.

Quanto lutto di vedove case!

Quante mense deserte di figli!

Quante piagge di tenebra invase!

Che tumulto di fughe e d’esigli!

Segno d’odio è re Carlo frattanto.

Io cantato lo avea nei perigli

E pei tristi fu colpa il mio canto!

Arca di sette popoli,

Re de’ sabaudi e mio,

Chi ti contrista, o martire,

Sfregia l’Italia e Dio.

Ma tu, mio re, consolati,

Ch’ebra o demente voce

La savoiarda croce

Contaminar non può.

Io ti cantai. Sacrileghe

Mani scagliâr la pietra

Sulla raminga e povera,

Ma liberal, mia cetra;

E fèr sinedrio, e dissero

Le iene del deserto

Che il fulgidòr d’Alberto

I canti miei comprò!

Vili! dannate il perfido

Labbro a sigillo eterno.

Me la latrata ingiuria

Fa sogghignar di scherno.

Vili! le meste pagine

Rigo de’ miei sudori,

Ma non ha gemme ed ori

Per comperarle un re!

Che se dall’umil polvere,

Dove obbliato io sono,

Più il capitan che il principe

Canto e l’acciar che il trono;

Se incito i forti a sperdere

Degli Amorrei le tende,

Chi la mia cetra offende

Quanto è minor di me!

Sì, ti cantai, magnanimo

D’Italia mia soldato,

Caro al Signor, di splendidi

Dolori incoronato!

ti cantai sul veneto

Mar, che tu re guardavi;

E, premio al canto, i savi

Le carceri m’aprir.

Mastri in foggiar repubbliche,

Non certo a voi m’atterro.

Amo il furor di Spartaco;

Odio de’ Gracchi il ferro:

Piango al destin di Cesare,

Qual di leon caduto,

E del pugnal di Bruto

M’è orrendo il sovvenir.

Ribalenò sul memore

Tebro quell’arme ancora…

Ma che nefanda tenebra

Dopo la bieca aurora!

Più Samuel non vigila

Di Solima alle porte;

E un bruno vel di morte

Copre di Dio l’altar.

Pietà, Signor! Terribili

Son questi giorni al mondo!

Vasto è l’abisso; e Satana

Ride dall’empio fondo:

E consegnato ai turbini

Quell’esecrabil riso,

La terra e il paradiso

S’avventa a separar.

De’ miei fratelli o fêretri,

Quanto v’invidia il core!

Bella è la morte a vespero

Quando col sol si muore

Colà sui campi! Il bambolo

Oggi a dolor si vesta;

E coronata a festa

Sia la caduca età.

Meglio morir che incedere

Su maladetta arena,

Dietro recando il sonito

Della servil catena!

Liberi no, ma despoti

Veggio dovunque e sento;

E chi un ne abborre, a cento

Come obbedir potrà?

Meglio recar nei gelidi

Regni dell’ombra i lumi

Stanchi ed offesi. O picciolo

Ma pur divin tra i fiumi,

Che a questa bella Italia

Crescon le rose indarno,

Oh insuperabil Arno,

Sulle cui rive un

Trasse Alighier dall’ispide

Guance il dolor più vero,

E poi dall’arco i numeri

Dell’immortal pensiero,

Tu pur sei tetro! e il margine

Però di fiori hai cinto.

La bara dell’estinto

Sparsa è di fior così.

È parricida l’alito

Dei vïolenti, il credi,

Fiume gentil. all’umide

Or più vagar mi vedi

Stelle nascenti, o attendere

Cogli occhi inebrïati

Gli splendidi e rosati

Tramonti del tuo ciel.

mi vedrai. La libera

Mia verità dispiacque.

Meglio fidar le subite

Ire alle nubi e all’acque,

Meglio che all’uom. Difficile

Pei coraggiosi è il giorno

Che ruota il pazzo intorno

La daga od il fiagel.

Savi tu cerchi, o misera

Italia mia; trovi

Che rotte plebi, e cupide

Rabbie, e tumulti nuovi:

E in cenci da postribolo,

Tra fescennine mazze,

Tratta per l’ebbre piazze

La casta libertà.

Oh! di cocenti lacrime

Righiam sommessi il ciglio,

Miei generosi. È tramite

Per me d’onor l’esiglio.

Date le spalle al pelago

Delle città frementi,

O arcani fiumi! o venti!

Tra noi si parlerà.

Coll’alba e coi crepuscoli,

Per fide selve e piani,

Si parlerà, dal mobile

Tetto dell’uom lontani.

Si parlerà coll’aquila

Della petrosa vetta,

Coll’erma lodoletta

Dal canto mattinier.

Parte di quest’Iside

Bella ed arcana a noi

Rivelerà. Col novero

Poco de’ figli suoi,

Dall’ombre malinconiche

Esce la dea talora,

E parla a chi l’adora,

Verginalmente il ver.

sulle balze inospite,

Campo a perpetui soli,

Dove l’abisso odorano

Scherzando i cavrioli,

Dove alla rara e pendula

Ombra di qualche pianta

Sibila il ghiro, e canta

Sui vespri il mandrïan;

chiederem gli oroscopi

Di questo palmo d’erba,

Che nomiam terra, imagine

Sì poca e sì superba!

E riguardando immobili

Tra i nembi e le paure

Da quell’eterne alture

Sull’ondeggiante pian,

Vedrem ferirsi adulteri

Schiavi e tiranni in guerra,

Scettri e catene infrangersi,

Ebra balzar la terra,

E fra la rea caligine

Di quella notte atroce

La sanguinosa croce

Del Nazaren tremar.

dall’aerio culmine

Questo vedrem. Ma quando

L’ara de’ tuoi pontefici

Sia vendicata, e il brando

De’ figli tuoi, penisola

Sacra di fede e d’armi,

Suoneran altri i carmi

Dal Cozio sasso al mar.

Oh, se ritorni a splendere

Nel ciel della speranza

L’arco de’ forti, il mistico

Segnal dell’alleanza,

Che un dall’Arno al Tevere

Parve raggiarlieto,

Dal Tevere all’Oreto

E dall’Oreto al Po,

Oh se ritorni!… Ascoltami,

Giusto Signor: s’aggreva

Molto fallir sugli ómeri

Dolenti di quest’Eva;

Troppo, egli è ver, di Gerico

S’è maculato il fiore,

Ma la tua man, Signore,

Purificar lo può.

Pensa che d’Eli a Davide

Qua la progenie crebbe,

Che qua scintilla il vertice

Del portentoso Orebbe,

Che sigillati scorrono

Qua sotto i tuoi lavacri,

Che qua tra i cedri sacri

La sposa tua fiorì.

Verghe, ceffate e spasimi

Scagliano i figli in lei;

Gettan sull’aurea clamide

Le sorti i farisei;

Fremi, o Signor! la chiamano

Regina d’Israele,

E poi l’aceto e il fiele

Le versano così!

Fremi, o Signor. La tiepida

Famiglia de’ tuoi fidi

Ben lacrimando annovera

Della tradita i gridi;

Ma non si lancia a toglierle

Dal sanguinoso crine

Il serto delle spine

Per darlo ai percussor.

E se talun fra il sibilo,

Degli itali laureti

L’alta del cor risuscita

Ira de’ tuoi profeti,

Fremi, o gran Dio! lo dannano

Alla catena e al bando

Quando i tuoi giusti, oh! quando

Vendicherai, Signor!

E frattanto il barbaro

Spia da’ lombardi colli

L’ire selvagge, e un brindisi

Manda ghignando ai folli.

Poi sul guancial men timida

China la testa a sera,

E forse all’alba spera

Rizzarsi alla tenzon!

E l’armi nostre, ahi! deboli

Saranno ed infelici;

Chè chi la madre insanguina,

Non può ferir nemici.

Così rompendo il Teutono

Nelle pollute stanze,

Misurerà le danze

De’ nostri ceppi al suon.

 

Tresca intanto la turpe semenza;

Pane d’odio al suo desco si frange,

Si tracanna licor di demenza.

Poi da’ sabbati l’ebbra falange

Fuor si vomita, e ruota il flagello

Sulla inerme, che sotto vi piange.

Orsù! dunque, raccogli il fardello,

O percossa tu pur: ma sorridi,

Dolce musa, al tuo dolce fratello.

Altre stelle vedremo, altri lidi,

Qua lasciando uno stuol numerato,

Scudo a noi, d’animosi e di fidi;

Che le tempia all’iniquo peccato

Solcherà con le cifre dell’ira,

E il dolor ci farà vendicato.

Dolce musa, per l’aure s’aggira

Dell’Arabia un augel, che si pasce

Negli odor della mistica pira.

Poi, combusto dall’orride fasce

Del roveto, più bello e raggiante

Dal suo cenere mesto rinasce.

Musa mia, questo afflitto esulante

Muore anch’egli; ma tu, mia cortese,

Non turbar le pupille tue sante.

Nacque anch’ei nell’arcano paese,

Dove è dato alla spoglia che muore

Vendicar della morte le offese.

Oggi passa in silenzio il mio cuore;

Ma dimani il Signor lo risveglia,

Perché giusto coi giusti è il Signore.

Tu frattanto dêi compier la veglia

Al defunto, che in cento, che in mille,

Di qua lunge, orizzonti si speglia,

Per recar nelle consce pupille

Tali sguardi e sul labbro tai cose,

Che ai codardi sien folgori e squille.

Mentre te di ligustri e di rose

Cingerò con le man rinnovate,

Come il crin delle donne amorose.

E in baciar le mie labbra rosate,

Sentirai come pregne di cielo

Son le spoglie alla morte involate.

E tu allor nel tuo candido velo

Sorgerai solitaria e gentile;

E, al tuo canto, dai vepri e dal gelo

Su per l’aura un effluvio sottile

Salirà: poi fia rotta repente

Ogni gleba in un cespo d’aprile.

E in quell’ora profonda e ridente,

seduta nel tuo paradiso,

Ti vedran se sei bella e innocente.

E diran:  «Per che spazio è diviso

Il suo canto dai canti mortali,

E dal riso del mondo il suo riso!

Pera il giorno che un nembo di strali

Fu scagliato per aurapura,

A ferir quel sembiante e quell’ali

E tu, nova e celeste figura,

Riderai, come donna che pensi,

D’altre cose, e di queste non cura.

E, a velarti, una nube d’incensi

Mollemente verrà dalla valle

In quell’ora di giubili immensi.

Ma tu intanto ti grava le spalle

Della croce del tuo pellegrino,

E soletta dividi il suo calle.

Non si monta per altro cammino

Su quel giogo coperto di fiori,

Non si splende gentil cherubino

Che passando per questi dolori.

Con occhi cento, il livido

Poter, che in me s’indraga,

Freme dei pigri farmachi,

Conta le notti e i ;

E va chiedendo ai rigidi

Mastri dell’arte maga

Quando potrà quest’ibrida

Larva sgombrar da qui.

Perchè riman? del popolo

L’urlo e il pugnal non teme?

Che fa costui? Domestico

Sangue toscan non è.

O perché dunque, incognito

D’are, di patria e seme,

Un volgo reo gli prodiga

Fiori e speranze al piè?

Via questa larva! il folgore

De’ canti suoi possiede.

Via questa larva! i facili

Sonni turbar ci può.

Molti che noi non amano,

In questa larva han fede!

Oh tristo il che l’ospite

Arno abitar pensò!

Ma, più dell’altre, oh perfida

Notte per noi fallita,

Che lo dovea, fra tacite

Armi, di qua snidar!

Gli saria stata ignobile

Sfregio l’ambigua uscita

E invece un’egra coltrice

Or gli diventa altar!

E un cicalío di bamboli

Sta contro noi frattanto:

E a denunciar quest’opera,

Spreca lamento e stil.

Oh che rovente lamina

È questo reo compianto,

Che penetrò le viscere

Della città servil! —

Non v’accorate. I pallidi

Labbri di sangue schietto

Stillano, è ver; mi macera

Cupo, latente ardor;

Da scellerate affrangere

Tossi mi sento il petto,

L’ore notturne io numero;

Brucio di febbre ancor;

Ma sdegnerei di crescervi,

O tribolati e vili,

L’ansie paure e i torbidi

Sogni che il ciel vi .

Or voi la man stringetemi,

Pochi, di cor gentili;

Firenze, addio. Fu nobile

Colpa la mia pietà.

M’odi. Il fatal tuo lastrico

Cela un vulcan, il sai:

Sulle colombe i cupidi

Falchi l’artiglio aprir:

E tra i ruscelli e i salici

Dall’ombra de’ rosai

Le tenebrose vipere

Si slanciano a ferir!

Certo, le ree potrebbero

Morir sotto i piè vostri,

O fieramente unanimi,

Se vi bastasse un cor.

Dio più non manda gli angeli

Per duellar comostri;

E l’uom, che inerte spasima,

Merita il suo dolor.

Sacra è la casa, il tempio,

La libertà, la croce,

Gli avi, le spose, i pargoli,

Il campo ed il confin;

Con chi li lascia offendere

Sia l’offensor feroce,

E al neghittoso imbianchisi

Nel vituperio il crin.

Non ti turbar, mia tenera,

Mia dolce ispiratrice!

Che l’ansio cor ti palpita

Pe’ miei perigli, io so:

Ma sia dannata ai vermini

Bocca che il ver non dice;

Reo di silenzi al vindice

Mio Dio non salirò.

Vieni e partiam. Con vincoli

Di fede e di coraggio

Ci unì la vita: esanime

Io sarò teco ancor.

Mi bacerai de’ lùgubri

Ceri notturni al raggio,

Mi deporrai sul feretro,

Lo cingerai di fior.

Quindi sull’erma lapide,

Chiusa in tuo vel pudico,

Risponderai, se a chiedere

Ti venga il passeggier:

— «Le spoglie pie qua dormono

D’un mio profondo amico,

Cui lieti non risero,

Perché non tacque il ver.». —

Sorella mia, non piangere

Dammi un amplesso. Oh! vedi

Come soave e placido

Laggiù tramonta il sol?

Sorella mia, con simile

Pace si muor, mel credi.

Rose vogl’io, non lacrime

Sul funebre lenzuol.

 




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