(Dopo la rotta di Novara).
Ier di notte un’altra volta
Filiberto si riscosse;
Palpitò la nota scolta,
Ma dimande non gli mosse;
Anzi al suol chinò la testa
Presentendo la tempesta,
Chè già odia quel re di ferro
Bestemmiar come uno sgherro.
— Maledetta indipendenza,
Buffonesca libertà!
Perso è il grano e la semenza,
Siam f.….i come va.
— Perdonategli,
o Signore,
È un momento di dolore —
Mormorava il buon soldato
Un tantin scandolezzato.
— Dimmi dunque: il Bollettino?…
— Maestà!…
pur troppo è vero.
— Lo
straniero è sul Ticino?
— Alla
Sesia è lo straniero.
— Che?
Alessandria è dunque invasa?
O rossor della mia Casa! —
Dalla reggia i lumi torse,
E in furor le man si morse.
D’atra luce in quel momento
Rischiarossi il buio loco,
I pilastri, il monumento,
Tutto il bronzo era di foco.
Tempestando il novo Orlando
Spacca in due l’antico brando,
E il grand’elmo e la corazza
Scaraventa per la piazza.
— Ahi sventura! e non vel
dissi?
Non potea la stolta guerra
Che scavar nefandi abissi
Alla povera mia terra.
Bell’onor che s’è comprato
Sovra i campi il re soldato!
— Maestà;
non vane offese;
Lei fu grande, or sia cortese.
Hai ragion. Povero Alberto,
Tristo gioco a illustri inganni!
Di qual drappo or s’è coverto
Il pensier di diciott’anni!
L’Ostia insigne or cadde; e l’ara
Fosti tu, fatal Novara.
Or soletto il passo ei move
Ramingando, e chi sa dove.
Va; ti cerca un queto
esiglio,
Non udrai da me rampogna.
Non di te, mio degno figlio,
Ma d’Italia è la vergogna.
Vedi omai per qual contrada
Tu ponesti onore e spada!
Questa dunque è la mercede
Riserbata a tanta fede!
Quel mio prode ed infelice
Ti riscosse, o sonnolenta,
Tu il tradisti accusatrice,
Trista Italia: or sei contenta?
Là sull’Arno e al Campidoglio
Tu gli hai tolto onore e soglio,
Rendi i polsi alla catena,
Fiera e giusta è la tua pena.
— Maestà! pur troppo io
sento
La rampogna, e il viso ascondo:
E or di noi vigliacco armento
Che dirà, l’Europa e il mondo?
— Ghignerà,
come si suole
D’un gran cencio esposto al sole,
Che gridasse al passeggiero:
Io fui porpora d’impero.
— Maestà, ma ier degli Avi
Re Vittorio al trono ascese,
E chi sa ch’ei non ci lavi
Del rossor di tante offese?
Quel Sabaudo giovinetto
D’un Leone ha il core in petto,
E se fausta è la stagione
Risvegliar si può il leone.
— Zitto là che non t’ascolti
Il caduco Maresciallo,
Or che trae dai nostri colti
Il foraggio al suo cavallo.
— Maestà,
lei parla saggio,
Però un’onta è quel foraggio.
— Ma frattanto che si ciarla
Non si pensa a vendicarla.
Zitto là! si tessa queti;
Guai se strepita la spola.
Torneranno i giorni lieti.
— Maestà!
lei mi consola,
Maestà! c’é dunque caso!…
— Va; non farmi il ficcanaso,
Zitto là. C’è ancor nel covo
Dell’Italia, il gallo e l’uovo.
Ma, per Dio! cacciate in
bando
Rossi e rieri farisei,
Che nei bossoli agitando
Il berretto e l’agnusdei,
Han condotto al vituperio,
(Noti ben messer Viperio)
Il reame subalpino
Con il fil del burattino.
E tu re, che or sei salito
D’onde è sceso il tuo gran padre,
Che il mio nome hai rinverdito,
Tu leon fra le tue squadre;
Bada ben la via, ch’or prendi,
Ch’ella è fatta a saliscendi;
Guarda i cor, non i sorrisi:
Via le larve, e cerca i visi.
Hai giurato ad una Carta;
Tentennar non ti conviene;
Ma temprando Atene e Sparta,
Sparta imita, e onora Atene;
E se alcun ti sbarra il passo,
Man di ferro e cor di sasso.
Sia l’esempio ripetuto
Dei papaveri di Bruto.
Con memorie dolorose
Guarda sempre all’Alpe e al mare;
Dove crescono le rose
Cerca i lauri alimentare;
Ama i prodi; i giusti onora,
E in silenzio attendi l’ora,
— Maestà!
lei mi conforta
A parlar di questa sorta.
— Ti conforto?… Eppur mi
sembra
Che dì son, se tel rammenti,
Ti corresse per le membra
La repubblica a torrenti,
E so ancor che irato in faccia
Mi scagliasti una minaccia
Colla bocca del fucile,
E persin… M’hai detto vile.
— Sono un povero soldato,
Poco pensa e manco vedo,
Ma m’accorgo che m’han dato
Questi birbi un tristo credo,
E sinor senza mio fallo
Lo cantai da pappagallo;
Però qui sull’onor mio
Io le giuro innanzi a Dio,
Che appostato in certo calle
Diman notte, un meministi
Lasciar voglio sulle spalle
Di parecchi giornalisti;
Non so ben se lei m’intenda,
Per finir questa faccenda.
— Picchia
giù; tu sarai degno
Cittadin del nuovo regno.
Sono orrendi i lor peccati,
Picchia giù senza pietà.
— Tengo
certi camerati….
Lasci fare, Maestà!
— Vivaddio,
poveri troni
Che han bisogno dei bastoni,
Or che un santo e civil uso
Al cannon la bocca ha chiuso.
— Maestà! ma se Dio vuole,
Quel cannon sarà sospinto
Sul Ticin. — Non più parole,
L’albagìa sta male al vinto.
Però sentimi: se un giorno
Per lavarci il doppio scorno
Sorgerem dal mare all’Alpe
Veri popoli e non talpe,
Con Vittorio e co’ suoi
forti,
Con Fernando e con Umberto,
Volerà tra le coorti
Anche il vecchio Filiberto.
Tufferò nel vinto Isonzo
Queste redini di bronzo;
E in mancanza di quel brando
Che ho spezzato lacrimando,
In quell’ultima fortuna
Dio medesmo al suo fedele,
Porgerà la spada bruna
Dell’Arcangelo Michele,
E il Lucifero secondo,
Che avvelena il fior del mondo,
In eterno fia diviso
Dall’ausonio paradiso!
Oh caval della mia gloria,
Tu risenti i vecchi ardori:
Certo è chiusa, una vittoria
Nelle aurette che tu odori.
Ferma il piè; rabbassa i crini;
Non nitrir; chè i tuoi vicini
Tutti omai dal bimbo al nonno
Son rifitti in grembo al sonno.
Ma se Italia non si sbenda
Fra dieci anni i pigri lumi,
Manda un urlo, e in lei discenda
Ferro e foco, e la consumi;
La bufera e la valanga
Su vi passi, e non rimanga
Della trista un sol ricordo!
— Maestà!
Siamo d’accordo.