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Giovanni Prati
Poesie scelte

IntraText CT - Lettura del testo

  • LA STATUA DI EMANUELE FILIBERTO E LA SENTINELLA
    • DIALOGO II.
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DIALOGO II.

(Dopo la rotta di Novara).

Ier di notte un’altra volta

Filiberto si riscosse;

Palpitò la nota scolta,

Ma dimande non gli mosse;

Anzi al suol chinò la testa

Presentendo la tempesta,

Chè già odia quel re di ferro

Bestemmiar come uno sgherro.

Maledetta indipendenza,

Buffonesca libertà!

Perso è il grano e la semenza,

Siam f.….i come va.

Perdonategli, o Signore,

È un momento di dolore

Mormorava il buon soldato

Un tantin scandolezzato.

Dimmi dunque: il Bollettino?…

Maestà!… pur troppo è vero.

— Lo straniero è sul Ticino?

— Alla Sesia è lo straniero.

— Che? Alessandria è dunque invasa?

O rossor della mia Casa! —

Dalla reggia i lumi torse,

E in furor le man si morse.

D’atra luce in quel momento

Rischiarossi il buio loco,

I pilastri, il monumento,

Tutto il bronzo era di foco.

Tempestando il novo Orlando

Spacca in due l’antico brando,

E il grand’elmo e la corazza

Scaraventa per la piazza.

— Ahi sventura! e non vel dissi?

Non potea la stolta guerra

Che scavar nefandi abissi

Alla povera mia terra.

Bell’onor che s’è comprato

Sovra i campi il re soldato!

Maestà; non vane offese;

Lei fu grande, or sia cortese.

Hai ragion. Povero Alberto,

Tristo gioco a illustri inganni!

Di qual drappo or s’è coverto

Il pensier di diciottanni!

L’Ostia insigne or cadde; e l’ara

Fosti tu, fatal Novara.

Or soletto il passo ei move

Ramingando, e chi sa dove.

Va; ti cerca un queto esiglio,

Non udrai da me rampogna.

Non di te, mio degno figlio,

Ma d’Italia è la vergogna.

Vedi omai per qual contrada

Tu ponesti onore e spada!

Questa dunque è la mercede

Riserbata a tanta fede!

Quel mio prode ed infelice

Ti riscosse, o sonnolenta,

Tu il tradisti accusatrice,

Trista Italia: or sei contenta?

sull’Arno e al Campidoglio

Tu gli hai tolto onore e soglio,

Rendi i polsi alla catena,

Fiera e giusta è la tua pena.

Maestà! pur troppo io sento

La rampogna, e il viso ascondo:

E or di noi vigliacco armento

Che dirà, l’Europa e il mondo?

Ghignerà, come si suole

D’un gran cencio esposto al sole,

Che gridasse al passeggiero:

Io fui porpora d’impero.

Maestà, ma ier degli Avi

Re Vittorio al trono ascese,

E chi sa ch’ei non ci lavi

Del rossor di tante offese?

Quel Sabaudo giovinetto

D’un Leone ha il core in petto,

E se fausta è la stagione

Risvegliar si può il leone.

Zitto che non t’ascolti

Il caduco Maresciallo,

Or che trae dai nostri colti

Il foraggio al suo cavallo.

Maestà, lei parla saggio,

Però un’onta è quel foraggio.

— Ma frattanto che si ciarla

Non si pensa a vendicarla.

Zitto ! si tessa queti;

Guai se strepita la spola.

Torneranno i giorni lieti.

Maestà! lei mi consola,

Maestà! c’é dunque caso!…

Va; non farmi il ficcanaso,

Zitto . C’è ancor nel covo

Dell’Italia, il gallo e l’uovo.

Ma, per Dio! cacciate in bando

Rossi e rieri farisei,

Che nei bossoli agitando

Il berretto e l’agnusdei,

Han condotto al vituperio,

(Noti ben messer Viperio)

Il reame subalpino

Con il fil del burattino.

E tu re, che or sei salito

D’onde è sceso il tuo gran padre,

Che il mio nome hai rinverdito,

Tu leon fra le tue squadre;

Bada ben la via, ch’or prendi,

Ch’ella è fatta a saliscendi;

Guarda i cor, non i sorrisi:

Via le larve, e cerca i visi.

Hai giurato ad una Carta;

Tentennar non ti conviene;

Ma temprando Atene e Sparta,

Sparta imita, e onora Atene;

E se alcun ti sbarra il passo,

Man di ferro e cor di sasso.

Sia l’esempio ripetuto

Dei papaveri di Bruto.

Con memorie dolorose

Guarda sempre all’Alpe e al mare;

Dove crescono le rose

Cerca i lauri alimentare;

Ama i prodi; i giusti onora,

E in silenzio attendi l’ora,

Maestà! lei mi conforta

A parlar di questa sorta.

— Ti conforto?… Eppur mi sembra

Che son, se tel rammenti,

Ti corresse per le membra

La repubblica a torrenti,

E so ancor che irato in faccia

Mi scagliasti una minaccia

Colla bocca del fucile,

E persin… M’hai detto vile.

— Sono un povero soldato,

Poco pensa e manco vedo,

Ma m’accorgo che m’han dato

Questi birbi un tristo credo,

E sinor senza mio fallo

Lo cantai da pappagallo;

Però qui sull’onor mio

Io le giuro innanzi a Dio,

Che appostato in certo calle

Diman notte, un meministi

Lasciar voglio sulle spalle

Di parecchi giornalisti;

Non so ben se lei m’intenda,

Per finir questa faccenda.

Picchia giù; tu sarai degno

Cittadin del nuovo regno.

Sono orrendi i lor peccati,

Picchia giù senza pietà.

Tengo certi camerati….

Lasci fare, Maestà!

Vivaddio, poveri troni

Che han bisogno dei bastoni,

Or che un santo e civil uso

Al cannon la bocca ha chiuso.

Maestà! ma se Dio vuole,

Quel cannon sarà sospinto

Sul Ticin. — Non più parole,

L’albagìa sta male al vinto.

Però sentimi: se un giorno

Per lavarci il doppio scorno

Sorgerem dal mare all’Alpe

Veri popoli e non talpe,

Con Vittorio e co’ suoi forti,

Con Fernando e con Umberto,

Volerà tra le coorti

Anche il vecchio Filiberto.

Tufferò nel vinto Isonzo

Queste redini di bronzo;

E in mancanza di quel brando

Che ho spezzato lacrimando,

In quell’ultima fortuna

Dio medesmo al suo fedele,

Porgerà la spada bruna

Dell’Arcangelo Michele,

E il Lucifero secondo,

Che avvelena il fior del mondo,

In eterno fia diviso

Dall’ausonio paradiso!

Oh caval della mia gloria,

Tu risenti i vecchi ardori:

Certo è chiusa, una vittoria

Nelle aurette che tu odori.

Ferma il piè; rabbassa i crini;

Non nitrir; chè i tuoi vicini

Tutti omai dal bimbo al nonno

Son rifitti in grembo al sonno.

Ma se Italia non si sbenda

Fra dieci anni i pigri lumi,

Manda un urlo, e in lei discenda

Ferro e foco, e la consumi;

La bufera e la valanga

Su vi passi, e non rimanga

Della trista un sol ricordo!

Maestà! Siamo d’accordo.

 




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