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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • ALL’ESERCITO DOPO NOVARA.
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ALL’ESERCITO DOPO NOVARA.

E foste vinti, ahi lassi!

Dai peregrini acciari:

Spietatamente amari

Fur del ritorno i passi;

E sulla terra vostra,

Dopo la infame giostra,

L’usurpator le barbare

Tende ghignando alzò.

Liberamente morti

Ostie del reo destino,

sul fatal Ticino

Dormono i nostri forti;

E fu pietà del cielo

Che nel funèbre velo

Li ravvolgea, seppero

Chi vincitor restò.

Voi ne’ paterni ostelli

Spersi reddiste e domi

A dir le gesta e i nomi

Dei perduti fratelli;

E vi pesaro intorno

L’arme infelici, e il giorno

Malediceste, e l’ultima

Ora che il sol morì

Sugli spezzati brandi

Sulle bandiere afflitte,

Mentre le torme fitte

Dei vincitor nefandi

Rupper le cinte e i valli,

E dei negri cavalli

Nei superati tramiti

L’empio nitrito uscì.

E indarno l’accorata

Pietà del mondo, e i baci,

E i complessi tenaci

D’ogni persona amata

Vi consolaro. Il prode,

Vinto che sia, non ode

Conforti umani. Il feretro

È carità miglior.

Deh, con che senso ornai

Riguarderete i mesti

Puledri, e sulle vesti

E sulle lance i rai

Vi pioveran del sole;

E le usate parole

E i bei sogni di gloria

V’agiteranno il cor!

Voi prometteste i serti

Alle care donzelle,

E vi riveggion elle

Ahi, di pallor coperti!

Le man d’Italia affrena

Nova, e più rea catena,

E prometteste a Italia

La dolce libertà!

Datevi pace. Offese

Voi la Fortuna, antica

Druda sleal, nemica

Delle gentili imprese.

Datevi pace; ell’era

Ben colla rea bandiera;

Ma il Dritto è un solo; e vincoli

Stretti con lei non ha.

Ei colle salde mani

Pose fra genti e genti

Le montagne, i torrenti,

Le selve e gli oceàni

Per designar la schietta

Parte che a ognun s’aspetta;

E la Natura ai popoli

Un core e un verbo diè,

Perché difforme verbo

Perché difforme core

Tra suddito e signore

Non fesse il nodo acerbo.

E voi d’Itale case

Senso natìo süase

Contra costor, che posero

Nell’altrui parte il piè.

Or ben; fallì il certame.

Forte è il più reo talvolta.

Già di Caïn sepolta

Non è la mazza infame.

Ma scoppiano furenti

Sul parricida i venti

Urlando la terribile

Condanna del Signor.

Meglio a voi la caduta

Che la vittoria ai figli

Dell’ingiustizia. Artigli

Di falco han posseduta

La terra altrui; ma invano

Della rapina il grano

Si ciba in festa: attossica

Il sangue al predator.

Voi per la patria cara,

Voi per la vecchia fede

Il cor recaste e il piede

Nella terribil gara.

Sacre eran l’armi; degno

Della speranze il segno;

Con voi pugnava il libero

Brando dei vostri re.

Era l’Italia il voto,

Via lo straniero, il grido.

fu selvaggio lido

Che non fiorisse al moto

Di quest’ausonio aprile,

fu petto gentile

Che poi non desse un gemito,

Stirpe Sabauda, a te.

E invece i fortunati

Trionfator che sono?

D’una larva di trono

Mal securi soldati,

Cui gloria è alzar le spade

Sovra le altrui contrade,

Multar le messi, e irridere

Fra i nappi e la beltà.

Alle rive lombarde;

Al Po temente; ai presi

Moschetti; ai calabresi

Cappelli; alle coccarde;

Ai vecchi duci, al biondo

Lor re fanciullo, e al mondo

Che li dispregia, e al provvido

Dio che gioir li fa.

Turba corrotta. E i pochi

Tra lor più generosi

Sospirano i riposi

Nei domestici fochi:

E forse ai figli accanto

Ricorderan col pianto

L’ore, in cui tristo il vincere,

Lieto il morir sembrò.

Ite ai lari nativi,

Come onor vi consiglia;

E all’intenta famiglia

Il buon racconto arrivi.

Dite che non matura

Nel giardin di natura

L’odio da , ma il nordico

Furor vel seminò.

Dite ai vostri gagliardi

Che guardino lor terre,

E in pellegrine guerre

Non rechino stendardi,

Che par grave l’usbergo,

E mal si preme il tergo

D’un caval di battaglia

Coll’ingiustizia in sen,

Che l’ore ha numerate

Per Fortuna, e Dio

È re dei tempi, e obblio

In sua ragion non pate,

Che anch’egli ha brandi e tende

E quadrighe tremende,

E gli Amorrei son polvere

Se alla battaglia vien.

Questo lor dite; e quando

Gli alteri, o mal prudenti,

Nei futuri cimenti,

Ricingan elmo e brando,

Pregate sì che illesi

Gl’incauti a voi sien resi;

Ma se vi tenta il demone

Trionfi ad invocar;

(Deh perdonate all’ira)

Nelle vostre magioni

Cotesto nuncio suoni;

Che la prole delira

Chiusi ha per sempre i lumi

Qua sui lombardi fiumi,

E ne han le salme i vortici

Per seppellirle in mar.

Nordiche madri, a voi

Suona il mio voto orrendo,

già godrei veggendo

Madre che plori i suoi;

Ma quest’Italia oppressa

Ha le sue madri anch’essa,

Che per voi denno in vedove

Bende, infelici! uscir.

Nel dei vostri affanni

I bardi di Lamagna

Geman con voi; non piagna

Italo cor quei danni.

Quando fra due s’è fatto

D’immortal giostra un patto,

Sopra una spoglia esanime

Debbe un dei due gioir.

Sappiam, che appena invase

L’aquila i nostri nidi,

Rupper giocondi gridi

nelle vostre case,

E tra le gemme e gli ori

S’alzar le mense, e a fiori

Fu delle bionde vergini

Incoronato il crin.

Questo sappiam, felici,

chi l’assenzio or beve

Dimenticar mai deve

La festa dei nemici.

E noi pensosi in petto

La custodiam. No, stretto

Non è in sì picciol termine

Della gran lite il fin.

E voi levate il viso

Nella speranza, o prodi,

Di quest’alpe custodi,

E consentite al riso

Delle bocche amorose,

Perché ha dolcezze ascose

Veglia d’amor, che seguita

D’una battaglia il .

Nei presidii fiorenti,

Sopra gli aerei spaldi

L’antico ardor vi scaldi

Dei guerrieri concenti,

E vagheggiando l’ora

D’una gran pugna ancora,

Gittate il guanto al perfido

Destin che vi tradì.

Pensate ai rigidi avi

Della vostra contrada,

Che in Cristo e nella spada

Lor fede han posta. I bravi

Petti stan saldi, come

Salda di tronco e chiome

La fulminata rovere

Sulla vostralpe sta.

Pel sanguigno lavacro

D’ogni vostra ferita

Freme e ripiglia vita

Dei morti il cener sacro,

E vi dimanda, o cari,

Di vendicar gli acciari,

Per poi legarli ai pargoli

In santa eredità.

Così sulle guaine

L’antico onor vi brilli,

V’annodino ai vessilli

Le austere discipline.

È l’obbedir rammarco

Per chi d’ignavia è carco,

Per chi di forza esubera

È l’obbedir virtù.

Abbia chi questo apprezza

Nei di gloria muti

L’encomio dei canuti,

L’amor della bellezza;

E quando l’alba torni

Di più felici giorni

L’italo sol lo illumini

D’un’altra gioventù.

Poche ingiurie codarde

Non vi trafiggan l’alma,

Voi, che attendeste in calma

Le alemanne labarde:

Ma su l’elsa fedele

Del vostro Emanuele

Spïate colla cupida

Pupilla l’avvenir,

E intanto nelle liete

Corse di campi e d’armi,

Me cogli auguri carmi

Vate solingo udrete,

Solingo qual chi pensa

Che ove il volgo s’addensa

È vaniloquio, e sogliono

Gli arditi estri languir.

già premio alla musa

Dal che varca, agogno;

In più ridente sogno

La mia speranza è chiusa.

Ma se avverrà che muoia

Sull’armi di Savoia

Tinto d’infami porpore

La terza volta il Sol,

Sopra un deserto lito

Possa io chinar la testa

Esanime; chè pesta

Barbarica, o nitrito

Io più non senta, o veda,

Quasi a ludibrio e preda,

Seguir superbo il teutono

L’itale nuore in duol.

Ma il patireste, o nati

Dal cor dell’alpe? O fieri

Superstiti guerrieri

Dei campi insanguinati?…

E ciò pur fosse; io pieno

D’alte speranze, in seno

Cadrò dell’urna; a scotermi

Quando che sia, verrà

Certo il fragor; Si è vinto!

Nostra è l’Italia alfine!

E alle voci divine

Agitato l’estinto,

Qualche eccelsa armonia

Non modulata pria,

Le meste solitudini

Di morte inonderà.

 




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