E foste vinti,
ahi lassi!
Dai peregrini acciari:
Spietatamente amari
Fur del ritorno i passi;
E sulla terra vostra,
Dopo la infame giostra,
L’usurpator le barbare
Tende ghignando alzò.
Liberamente morti
Ostie del reo destino,
Là sul fatal Ticino
Dormono i nostri forti;
E fu pietà del cielo
Che nel funèbre velo
Li ravvolgea, nè seppero
Chi vincitor restò.
Voi ne’ paterni
ostelli
Spersi reddiste e domi
A dir le gesta e i nomi
Dei perduti fratelli;
E vi pesaro intorno
L’arme infelici, e il giorno
Malediceste, e l’ultima
Ora che il sol morì
Sugli spezzati
brandi
Sulle bandiere afflitte,
Mentre le torme fitte
Dei vincitor nefandi
Rupper le cinte e i valli,
E dei negri cavalli
Nei superati tramiti
L’empio nitrito uscì.
E indarno
l’accorata
Pietà del mondo, e i baci,
E i complessi tenaci
D’ogni persona amata
Vi consolaro. Il prode,
Vinto che sia, non ode
Conforti umani. Il feretro
È carità miglior.
Deh, con che senso ornai
Riguarderete i mesti
Puledri, e sulle vesti
E sulle lance i rai
Vi pioveran del sole;
E le usate parole
E i bei sogni di gloria
V’agiteranno il cor!
Voi prometteste i serti
Alle care donzelle,
E vi riveggion elle
Ahi, di pallor coperti!
Le man d’Italia affrena
Nova, e più rea catena,
E prometteste a Italia
La dolce libertà!
Datevi pace.
Offese
Voi la Fortuna, antica
Druda sleal, nemica
Delle gentili imprese.
Datevi pace; ell’era
Ben colla rea bandiera;
Ma il Dritto è un solo; e vincoli
Stretti con lei non ha.
Ei colle salde
mani
Pose fra genti e genti
Le montagne, i torrenti,
Le selve e gli oceàni
Per designar la schietta
Parte che a ognun s’aspetta;
E la Natura ai popoli
Un core e un verbo diè,
Perché difforme verbo
Perché difforme core
Tra suddito e signore
Non fesse il nodo acerbo.
E voi d’Itale case
Senso natìo süase
Contra costor, che posero
Nell’altrui parte il piè.
Or ben; fallì il
certame.
Forte è il più reo talvolta.
Già di Caïn sepolta
Non è la mazza infame.
Ma scoppiano furenti
Sul parricida i venti
Urlando la terribile
Condanna del Signor.
Meglio a voi la
caduta
Che la vittoria ai figli
Dell’ingiustizia. Artigli
Di falco han posseduta
La terra altrui; ma invano
Della rapina il grano
Si ciba in festa: attossica
Il sangue al predator.
Voi per la patria
cara,
Voi per la vecchia fede
Il cor recaste e il piede
Nella terribil gara.
Sacre eran l’armi; degno
Della speranze il segno;
Con voi pugnava il libero
Brando dei vostri re.
Era l’Italia il
voto,
Via lo straniero, il grido.
Nè fu selvaggio lido
Che non fiorisse al moto
Di quest’ausonio aprile,
Nè fu petto gentile
Che poi non desse un gemito,
Stirpe Sabauda, a te.
E invece i fortunati
Trionfator che sono?
D’una larva di trono
Mal securi soldati,
Cui gloria è alzar le spade
Sovra le altrui contrade,
Multar le messi, e irridere
Fra i nappi e la beltà.
Alle rive
lombarde;
Al Po temente; ai presi
Moschetti; ai calabresi
Cappelli; alle coccarde;
Ai vecchi duci, al biondo
Lor re fanciullo, e al mondo
Che li dispregia, e al provvido
Dio che gioir li fa.
Turba corrotta. E
i pochi
Tra lor più generosi
Sospirano i riposi
Nei domestici fochi:
E forse ai figli accanto
Ricorderan col pianto
L’ore, in cui tristo il vincere,
Lieto il morir sembrò.
Ite ai lari
nativi,
Come onor vi consiglia;
E all’intenta famiglia
Il buon racconto arrivi.
Dite che non matura
Nel giardin di natura
L’odio da sè, ma il nordico
Furor vel seminò.
Dite ai vostri gagliardi
Che guardino lor terre,
E in pellegrine guerre
Non rechino stendardi,
Che par grave l’usbergo,
E mal si preme il tergo
D’un caval di battaglia
Coll’ingiustizia in sen,
Che l’ore ha numerate
Per sè Fortuna, e Dio
È re dei tempi, e obblio
In sua ragion non pate,
Che anch’egli ha brandi e tende
E quadrighe tremende,
E gli Amorrei son polvere
Se alla battaglia vien.
Questo lor dite;
e quando
Gli alteri, o mal prudenti,
Nei futuri cimenti,
Ricingan elmo e brando,
Pregate sì che illesi
Gl’incauti a voi sien resi;
Ma se vi tenta il demone
Trionfi ad invocar;
(Deh perdonate
all’ira)
Nelle vostre magioni
Cotesto nuncio suoni;
Che la prole delira
Chiusi ha per sempre i lumi
Qua sui lombardi fiumi,
E ne han le salme i vortici
Per seppellirle in mar.
Nordiche madri, a
voi
Suona il mio voto orrendo,
Nè già godrei veggendo
Madre che plori i suoi;
Ma quest’Italia oppressa
Ha le sue madri anch’essa,
Che per voi denno in vedove
Bende, infelici! uscir.
Nel dì dei vostri
affanni
I bardi di Lamagna
Geman con voi; non piagna
Italo cor quei danni.
Quando fra due s’è fatto
D’immortal giostra un patto,
Sopra una spoglia esanime
Debbe un dei due gioir.
Sappiam, che
appena invase
L’aquila i nostri nidi,
Rupper giocondi gridi
Là nelle vostre case,
E tra le gemme e gli ori
S’alzar le mense, e a fiori
Fu delle bionde vergini
Incoronato il crin.
Questo sappiam,
felici,
Nè chi l’assenzio or beve
Dimenticar mai deve
La festa dei nemici.
E noi pensosi in petto
La custodiam. No, stretto
Non è in sì picciol termine
Della gran lite il fin.
E voi levate il
viso
Nella speranza, o prodi,
Di quest’alpe custodi,
E consentite al riso
Delle bocche amorose,
Perché ha dolcezze ascose
Veglia d’amor, che seguita
D’una battaglia il dì.
Nei presidii
fiorenti,
Sopra gli aerei spaldi
L’antico ardor vi scaldi
Dei guerrieri concenti,
E vagheggiando l’ora
D’una gran pugna ancora,
Gittate il guanto al perfido
Destin che vi tradì.
Pensate ai rigidi
avi
Della vostra contrada,
Che in Cristo e nella spada
Lor fede han posta. I bravi
Petti stan saldi, come
Salda di tronco e chiome
La fulminata rovere
Sulla vostr’alpe sta.
Pel sanguigno
lavacro
D’ogni vostra ferita
Freme e ripiglia vita
Dei morti il cener sacro,
E vi dimanda, o cari,
Di vendicar gli acciari,
Per poi legarli ai pargoli
In santa eredità.
Così sulle guaine
L’antico onor vi brilli,
V’annodino ai vessilli
Le austere discipline.
È l’obbedir rammarco
Per chi d’ignavia è carco,
Per chi di forza esubera
È l’obbedir virtù.
Abbia chi questo apprezza
Nei dì di gloria muti
L’encomio dei canuti,
L’amor della bellezza;
E quando l’alba torni
Di più felici giorni
L’italo sol lo illumini
D’un’altra gioventù.
Poche ingiurie
codarde
Non vi trafiggan l’alma,
Voi, che attendeste in calma
Le alemanne labarde:
Ma su l’elsa fedele
Del vostro Emanuele
Spïate colla cupida
Pupilla l’avvenir,
E intanto nelle
liete
Corse di campi e d’armi,
Me cogli auguri carmi
Vate solingo udrete,
Solingo qual chi pensa
Che ove il volgo s’addensa
È vaniloquio, e sogliono
Gli arditi estri languir.
Nè già premio alla musa
Dal dì che varca, agogno;
In più ridente sogno
La mia speranza è chiusa.
Ma se avverrà che muoia
Sull’armi di Savoia
Tinto d’infami porpore
La terza volta il Sol,
Sopra un deserto lito
Possa io chinar la testa
Esanime; chè pesta
Barbarica, o nitrito
Io più non senta, o veda,
Quasi a ludibrio e preda,
Seguir superbo il teutono
L’itale nuore in duol.
Ma il patireste, o nati
Dal cor dell’alpe? O fieri
Superstiti guerrieri
Dei campi insanguinati?…
E ciò pur fosse; io pieno
D’alte speranze, in seno
Cadrò dell’urna; a scotermi
Quando che sia, verrà
Certo il fragor; Si è vinto!
Nostra è l’Italia alfine!
E alle voci divine
Agitato l’estinto,
Qualche eccelsa armonia
Non modulata pria,
Le meste solitudini
Di morte inonderà.