A LEOPOLDO CEMPINI.
Amico,
A te, ed a voi tutti,
gentili Toscani, che mi avete dimostrato tanta cordiale affezione in tempi
oscuri, consacro ed invio. questo canto, come debito e segno di gratitudine. È
un tributo povero sì, ma riverente, e sincero, ch’io rendo alla memoria di un
vostro concittadino, il quale onorò in brevi anni la propria vita e l’Italia.
La morte, che toglie prima
i migliori, vi tolse dopo il Bartolini anche il Giusti; quasichè alla tanta
serie dei pubblici infortunii dovessero porre il cumulo le sepolture di quei
rari uomini, i quali consolavano almeno il lutto della nazione coi sacri studii
e col nome famoso.
Ti prego di far gradire
questo mio canto, anzi di leggerlo tu medesimo a Gino Capponi, che fu quasi
fratello e padre al povero Beppe, onde almen sappia anche quest’altro insigne
uomo, così buono e così sventurato, che i veri generosi in Italia, vivano o
muoiano, hanno sempre da qualcheduno lodi, riverenza e compianto; anche in dura
stagione, allorchè il mondo suol troppo poco attendere alla vita o alla morte
di tali, che non affliggendolo l’hanno Illustrato.
Addio; e se visiti quel caro
e onorato sepolcro, deponivi anche in mio nome un ramoscello di quercia.
Il tuo PRATI.
Come un occiduo sole
Del tuo gentil paese,
Cadesti, amico. E il mese,
Che tinge le vïole,
E alla fatal penisola
Campi di pugne e di sepolcri aprì,
Te pur, te pur del tristo
Cipresso ha coronato!
E sul tuo volto, ombrato
Di speme ancor, fu visto,
Siccome ladro, scendere
Precipite il nefando ultimo dì.
Or del tuo sasso accanto
Dorme il flagel tebano,
Che la tua ferrea mano
Fea sibilar nel canto,
Onde, sui turpi talami,
L’Itala Aspasia di rossor
tremò.
In secolo ingiocondo
Ahi tu nascesti, o prode.
E spesso incensi e lode
Scorda aver dato i l mondo,
Per contristar col mobile
Ghigno que’ petti, che domar non può.
Tal ti vid’io sull’Arno
Nella stagion dell’ira,
Quando d’Alceo la lira,
Casto ed insigne indarno,
Velar ti piacque, e in torbida
Solitudine i giorni egri languir;
Però che l’alma chiusa
A non cospicui sdegni,
Tra ingrati volghi e regni
La concitabil musa
Mandar tremasti, e pallida
Vederla d’odio, a’ baci tuoi reddir,
Meglio così! Di rose
Ti fè giaciglio al fianco
Ella; e sul capo stanco
Le belle man ti pose.
E ti dicea: «La provvida.
Morte ci meni a libertà, miglior.»
Così movendo un riso
Amaramente mesto,
Via. ti rapì da questo
Putrido ovil diviso,
Le cui battaglie e i feretri
La irridente natura orna di fior.
Via ti rapì. Del modo
Chi si turbò? Chi pianse?…
De’ giorni tuoi si franse
Quasi non visto il nodo.
Muoion gli illustri; e il cupido
Mondo li scote dalla mente, al par
Che il vïator la foglia
Che gli cascò sul crine.
Son queste le divine
Gioie che il Ver germoglia,
Fin sulla tomba, ai flamini
Trafitti a’ piè del suo difeso altar!
Ma non sdegnarti, altera
Ombra, di ciò. Tien gli occhi
Sul nido tuo. Che il tocchi
Scerni tu cosa?… Impera
Querulo un tedio. E sfolgora
Frattanto dalle plaghe artiche il ciel.
Credi, beato è il punto
In che si porta a riva
Da triste acque la diva
Anima stanca, e giunto
Il navicello all’isola,
Dietro si guarda al pelago crudel.
Stuol di puledre infido
Ver l’occidente incalza,
Pel negro etere s’alza
D’aquile ignote un grido,
E agl’iperborei vertici
Balena l’ombra del cosacco Re.
Forse di scuri e brandi
Vedrem connubio ancora;
E la cruenta aurora
Di secoli nefandi
Rosseggerà sui maceri
Frusti di un mondo che di Dio non è,
Ma la tua parca valle
Spero, e l’umil tuo sasso
Non turberà nè il passo
Di barbare cavalle,
Nè il reo fragor de’ litui,
Nè delle picche maledette il suon.
Dormi. I superbi nati
D’un secolo mendico
Quei di sotterra, amico,
Nomineran beati,
Però che lassi, al termine
Di tante larve, ebber la pace in don.
Ma tu, or, che fai? Del cielo
Qual loco è tuo? Gli eventi
Sai tu predir? Ne santi
L’arcano corso? Il velo
Questa tua dolce Italia
Coprirà della morte?… Alma gentil,
Deh! se ti piacque un giorno,
La conscia man serrarmi;
E l’aura dei miei carmi
Grata ti venne intorno,
Migra nel dio che m’agita,
E in profetiche vampe ardi il mio stil.
Ardilo; e ch’io, salito
Sulla vorago orrenda,
Le nude braccia stenda
A ogni terrestre lito,
E le quaranta suonino
Minaci aurore al pigro occidental.
Poi la fulminea possa,
Che un dì fu tua, m’insegua,
Onde de’ morti io vegna
Ad alitar sull’ossa,
E là repente ondeggino
Fiere selve di brandi. Altro non val.
Ch’io pregherò, se alcuna
Ti fu diletta mai,
Che qualche rosa, a’ rai
Dell’imminente luna,
Sparga pensosa, e lacrimi
Colà, non vista, del tuo salcio al piè.
Se il freddo cor non ama,
Dite, che val la fama?…
Che de’ begli anni i serti?…
Tempio senz’ara ed ospiti
È nostr’anima, Amor, priva di te.
Tutto di fragil seme,
Qua si distempra e solve.
E colla varia polve
Da mane a vespro insieme
L’uom pur, levita e principe,
Cade, come corroso embrice, al suol.
Ma quell’assidua morte,
Amor, tu rifecondi.
E quando il sole e i mondi
Si disfaran, tu forte,
In bianchi abiti d’angelo,
Ci aprirai nuovi mondi e nuovo sol.
Sta’meco, Amor. Mi fiede
Vario vulgar sussurro:
Ma gli astri, i fior, l’azzurro
Nessun mi vieta, e il piede
Mover solingo ai margini
Delle fide correnti; e meditar.
Novissimo conforto,
De’ tuoi prodigi il canto,
E dar vïole a un santo
Capo tradito o morto,
E in quegli eccelsi palpiti
Anche chi m’odia, vendicato, amar.