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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • IN MORTE DI GIUSEPPE GIUSTI
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IN MORTE DI GIUSEPPE GIUSTI

A LEOPOLDO CEMPINI.

Amico,

A te, ed a voi tutti, gentili Toscani, che mi avete dimostrato tanta cordiale affezione in tempi oscuri, consacro ed invio. questo canto, come debito e segno di gratitudine. È un tributo povero sì, ma riverente, e sincero, ch’io rendo alla memoria di un vostro concittadino, il quale onorò in brevi anni la propria vita e l’Italia.

La morte, che toglie prima i migliori, vi tolse dopo il Bartolini anche il Giusti; quasichè alla tanta serie dei pubblici infortunii dovessero porre il cumulo le sepolture di quei rari uomini, i quali consolavano almeno il lutto della nazione coi sacri studii e col nome famoso.

Ti prego di far gradire questo mio canto, anzi di leggerlo tu medesimo a Gino Capponi, che fu quasi fratello e padre al povero Beppe, onde almen sappia anche quest’altro insigne uomo, così buono e così sventurato, che i veri generosi in Italia, vivano o muoiano, hanno sempre da qualcheduno lodi, riverenza e compianto; anche in dura stagione, allorchè il mondo suol troppo poco attendere alla vita o alla morte di tali, che non affliggendolo l’hanno Illustrato.

Addio; e se visiti quel caro e onorato sepolcro, deponivi anche in mio nome un ramoscello di quercia.

Il tuo PRATI.

 

Come un occiduo sole

Del tuo gentil paese,

Cadesti, amico. E il mese,

Che tinge le vïole,

E alla fatal penisola

Campi di pugne e di sepolcri aprì,

Te pur, te pur del tristo

Cipresso ha coronato!

E sul tuo volto, ombrato

Di speme ancor, fu visto,

Siccome ladro, scendere

Precipite il nefando ultimo .

Or del tuo sasso accanto

Dorme il flagel tebano,

Che la tua ferrea mano

Fea sibilar nel canto,

Onde, sui turpi talami,

L’Itala Aspasia di rossor tremò.

In secolo ingiocondo

Ahi tu nascesti, o prode.

E spesso incensi e lode

Scorda aver dato i l mondo,

Per contristar col mobile

Ghigno que’ petti, che domar non può.

Tal ti vid’io sull’Arno

Nella stagion dell’ira,

Quando d’Alceo la lira,

Casto ed insigne indarno,

Velar ti piacque, e in torbida

Solitudine i giorni egri languir;

Però che l’alma chiusa

A non cospicui sdegni,

Tra ingrati volghi e regni

La concitabil musa

Mandar tremasti, e pallida

Vederla d’odio, a’ baci tuoi reddir,

Meglio così! Di rose

Ti giaciglio al fianco

Ella; e sul capo stanco

Le belle man ti pose.

E ti dicea: «La provvida.

Morte ci meni a libertà, miglior

Così movendo un riso

Amaramente mesto,

Via. ti rapì da questo

Putrido ovil diviso,

Le cui battaglie e i feretri

La irridente natura orna di fior.

Via ti rapì. Del modo

Chi si turbò? Chi pianse?…

De’ giorni tuoi si franse

Quasi non visto il nodo.

Muoion gli illustri; e il cupido

Mondo li scote dalla mente, al par

Che il vïator la foglia

Che gli cascò sul crine.

Son queste le divine

Gioie che il Ver germoglia,

Fin sulla tomba, ai flamini

Trafitti a’ piè del suo difeso altar!

Ma non sdegnarti, altera

Ombra, di ciò. Tien gli occhi

Sul nido tuo. Che il tocchi

Scerni tu cosa?… Impera

Querulo un tedio. E sfolgora

Frattanto dalle plaghe artiche il ciel.

Credi, beato è il punto

In che si porta a riva

Da triste acque la diva

Anima stanca, e giunto

Il navicello all’isola,

Dietro si guarda al pelago crudel.

Stuol di puledre infido

Ver l’occidente incalza,

Pel negro etere s’alza

D’aquile ignote un grido,

E agl’iperborei vertici

Balena l’ombra del cosacco Re.

Forse di scuri e brandi

Vedrem connubio ancora;

E la cruenta aurora

Di secoli nefandi

Rosseggerà sui maceri

Frusti di un mondo che di Dio non è,

Ma la tua parca valle

Spero, e l’umil tuo sasso

Non turberà il passo

Di barbare cavalle,

il reo fragor de’ litui,

delle picche maledette il suon.

Dormi. I superbi nati

D’un secolo mendico

Quei di sotterra, amico,

Nomineran beati,

Però che lassi, al termine

Di tante larve, ebber la pace in don.

Ma tu, or, che fai? Del cielo

Qual loco è tuo? Gli eventi

Sai tu predir? Ne santi

L’arcano corso? Il velo

Questa tua dolce Italia

Coprirà della morte?… Alma gentil,

Deh! se ti piacque un giorno,

La conscia man serrarmi;

E l’aura dei miei carmi

Grata ti venne intorno,

Migra nel dio che m’agita,

E in profetiche vampe ardi il mio stil.

Ardilo; e ch’io, salito

Sulla vorago orrenda,

Le nude braccia stenda

A ogni terrestre lito,

E le quaranta suonino

Minaci aurore al pigro occidental.

Poi la fulminea possa,

Che un fu tua, m’insegua,

Onde de’ morti io vegna

Ad alitar sull’ossa,

E repente ondeggino

Fiere selve di brandi. Altro non val.

Ch’io pregherò, se alcuna

Ti fu diletta mai,

Che qualche rosa, a’ rai

Dell’imminente luna,

Sparga pensosa, e lacrimi

Colà, non vista, del tuo salcio al piè.

Ahi! se viviam deserti,

Se il freddo cor non ama,

Dite, che val la fama?…

Che de’ begli anni i serti?…

Tempio senz’ara ed ospiti

È nostranima, Amor, priva di te.

Tutto di fragil seme,

Qua si distempra e solve.

E colla varia polve

Da mane a vespro insieme

L’uom pur, levita e principe,

Cade, come corroso embrice, al suol.

Ma quell’assidua morte,

Amor, tu rifecondi.

E quando il sole e i mondi

Si disfaran, tu forte,

In bianchi abiti d’angelo,

Ci aprirai nuovi mondi e nuovo sol.

Sta’meco, Amor. Mi fiede

Vario vulgar sussurro:

Ma gli astri, i fior, l’azzurro

Nessun mi vieta, e il piede

Mover solingo ai margini

Delle fide correnti; e meditar.

Novissimo conforto,

De’ tuoi prodigi il canto,

E dar vïole a un santo

Capo tradito o morto,

E in quegli eccelsi palpiti

Anche chi m’odia, vendicato, amar.

 




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