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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • ALLE CENERI DI CARLO ALBERTO
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ALLE CENERI DI CARLO ALBERTO

Non serva agli antichi, ai novi potenti,

Non serva alle plebi compresse o vincenti,

Straniera ai sorrisi, straniera al furor,

La musa romita col dio che la ispira,

Per l’aure funébri d’Italia s’aggira,

Piangendo la fede d’un tempo miglior.

Piangendo le indarno conserte bandiere,

I ponti varcati, le trombe guerriere,

L’armato tripudio di cento città,

Nei che una terra d’oppressi e traditi,

Scordate le veglie, le danze, i conviti,

Promise a stessa la sua libertà.

Sentir fu creduta la intíma di Dio:

«Cacciate l’estranio dal nido natío,

Stringetevi tutti nel brando d’un Re.

Palestra pugnata dai vecchi giganti,

Delubro custode del patto de’santi,

Più terra di schiavi l’Italia non è!»

Oh sogni svaniti! Sull’arca di Roma

Suonâr gli aquiloni. Recisa è la chioma

Al Forte di Giuda, che Pio si nomò.

Compulse dall’ira d’un volgo feroce,

Divise e tremanti la spada e la croce,

La stella dell’Alpi comparve… e passò.

Ahi mesto tumulto di fughe e d’esigli!

Ahi pianto di madri sul corpo de’ figli

Trafitti e calpesti da un volgo stranier,

Che vien preceduto dal suon della morte,

Che ai vinti ripiglia le torri e le porte,

Che ai deschi interrotti ritorna a seder!

E ai campi lombardi la messe non langue,

La messe che, tinta d’italico sangue,

Par anzi che abbondi sul misero suol,

Per far più giocondo l’avaro sorriso

Del vil che la multa, che studia nel viso

Dei servi multati la colpa del duol.

Or dunque di novo, sventura! sventura!

Salendo alle nozze, rimorso e paura

La donna nei chiusi suoi talami avrà,

Però che all’indizio del grembo amoroso,

Respinta la gioia d’un palpito ascoso,

«Concetto ho uno schiavopiangendo dirà.

Or dunque, deserta la casa e la vite

Dei mesti parenti, le assise aborrite

La prole lombarda dovrà rivestir,

Servendo una razza di furti pasciuta,

Che un giorno dai patrii castelli ha veduta,

Qual branco di belve, dispersa fuggir!…

Per numero, oh prodi stranieri esecrandi,

Che a Dio rincrescete, col dritto de’ brandi

Tenendo una terra che vostra non fu,

Qual fede, qual patto tra noi può legarsi?

Voi molti, noi pochi; voi stretti, noi sparsi,

Vegliamci pensosi… Ma patti mai più!

A noi la Fortuna due giorni sorrise.

Sleal meretrice per voi si decise.

Le tempia briache vi cinse d’allòr.

Nei vostri banchetti di giubilo e d’ira

Danzò, lascivendo. Poi stanca e delira

Dormì sulla notte del nostro dolor.

E ier dal triclinio, dov’ebra si giacque,

Volando alla spenta Regina dell’acque,

L’anel delle nozze divelto le avrà.

Vinceste, o felici. Ma stabile amica

Sperar v’è negato la donna impudica,

Che ad uno si giura, che a cento si .

Salite alle rôcche, spandetevi al piano,

Dal Garda all’Isonzo, dall’Adda al Verbano;

Nei dolci presidii tornate a regnar.

Ma, lungo i confini, nel cor delle ville,

Potrete poi sempre le fulve pupille,

Nell’ora del sonno, securi chinar?… —

Badate; un iroso nasconde ogni tetto.

Da ogni angolo arcano balena un moschetto.

Compressi gli sdegni, ma spenti non son.

La squilla lombarda v’ha messo una volta

Nel cor lo spavento. tutta è sepolta

La stirpe, che ha desto quel lugubre suon.

Badate; nel petto dell’arso bifolco

Quell’aura di sangue, che esala dal solco,

Travasa una rabbia, che mai non provò.

Badate; il pastore le ciglia frementi

Girò dalla china sui patrii torrenti,

E anch’ei, nel conflitto, coi guardi pugnò.

Nel cor della gleba, nel vento remoto

Ricresce la forza d’un dio non ignoto;

Conclaman d’Italia le querce ed i fior:

«Il dritto e l’ingiuria tien campo distinto.

Fur tratte le spade. La razza del vinto

Divisa è in eterno dal suo vincitor

Apostata antica, sfregiando i fratelli,

Potrà qualche turpe progenie d’imbelli

Baciar la catena del novo servir.

Ma dietro quei terghi tapini e sommessi

S’asconde una cheta famiglia d’oppressi,

Terribili ammende parata a compir.

Sementa, se cade sovrispide lande,

La bruciano i soli. Se in pietra si spande,

Levata è repente dei turbini in sen.

Ma quando nell’urna de’ solchi s’induce,

Fermenta, si rompe, germoglia, produce,

Poi muscolo e sangue di forti divien.

Talvolta, seguendo suo tristo destino,

S’addorme, o di ciancie tormenta il vicino,

Fermata la stiva, l’incauto arator.

Ma quando s’accorge, sul far della notte,

Che furon sì scarse le zolle che ha rotte,

Pentito sull’alba raddoppia il sudor.

Per ospiti climi, per lustre selvagge,

Ci ha sparsi l’esiglio su tutte le spiagge,

Ci ha tolto la mensa, la casa, il poder.

Mal noti a noi stessi, di boria cresciuti,

Nell’ora del pianto ci siam conosciuti,

Purgato è dai sogni l’illuso pensier.

L’avara promessa di genti straniere

Non era che il patto del vile usuriere,

Che studia l’evento per meglio tradir.

L’evento ha chiarito l’iniqua parola.

La misera Italia dee vincer da sola,

O il capo nel manto celarsi, e morir.

Ma ardente è di fede, ricinto è d’acciari

L’altar, che è levato tra l’alpe e i due mari;

Lo attornian tre mesti, ma santi color.

Velata Iaele, si prostra, adorando,

La tacita Italia. Col pugno sul brando,

La guata pensoso l’estranio Signor.

Oh Prenci (lasciate che il ver vi si gridi),

Temuti o tementi, codardi o mal fidi,

Tornate a quest’ara. La fiaccola è qui.

Giurate nei sette segnacoli suoi.

Parlatevi ancora. L’Italia è con voi.

Del tristo dissidio la trista arrossì.

Distinse i suoi figli, pur tepidi e tardi,

Da’ suoi Saturnini feroci e codardi.

Le orrende sue piaghe nel duol numerò.

Non tutte le vide di stranio coltello

De’ suoi parricidi conobbe il drappello,

Che in pietra d’infamia locarla tentò.

Legatevi, o Prenci, con santo coraggio,

Facciamolo insieme quest’arduo vïaggio

D’affanno e di fede, di forza e d’amor.

Vel chiedon le culle dei bimbi innocenti,

Vel chiedon le tombe dei vecchi parenti,

Vel chiede, gemendo, l’Italia che muor!

Pentita ella spezza l’orrendo pugnale,

Che un giorno per l’aure del tuo Quirinale,

Signor dei credenti, vedesti guizzar.

Siam verghe di creta. Tu il dici. Tu il senti.

Rinasci e perdona, Signor dei credenti.

Conferma che a Cristo tu sai somigliar.

Vuoi salda, o Fernando, sul capo agli eredi

La doppia corona d’Arrigo e Manfredi?

Disarma due genti. Ritorna alla .

Corona è di polve corona spergiura.

Nel cor dei vulcani s’espande e matura

O l’odio, o l’affetto. La scelta è per te.

Se un tempo ti piacque la vita serena,

Tra i clivi dell’Arno, figliuol di Lorena,

Se rose perpetue t’han fatto origlier,

Sii forte. E la causa di quelle contrade

Rescindi dall’elsa di barbare spade,

Giudicii di pianto su te non voler!

Se un vostro vedeste Fratel coronato,

Dell’arme d’Italia coperto soldato,

Calar sui torrenti, per l’erte salir,

Cercar la battaglia con fiero diletto,

Spronar sotto i bronzi, sentirsi all’elmetto

Le palle omicide, fischiando, fuggir,

Poi, vista, l’austero, con spasimo atroce,

Domata due volte la bianca sua Croce,

Gittar la corona che vil gli sembrò,

Morir nell’esiglio col capo sul brando,

L’afflitto e supremo suo grido elevando,

Per questa infelice ch’ei vinta lasciò;

Se il martire, o Prenci, vedeste, all’aurora

Dell’alto suo corso, miratelo ancora

Fantasma ravvolto nei bruno suo vel.

Anch’ei fa ritorno sul margo natale.

Ma cinto la fronte di lume immortale,

Atleta incolpato d’Italia e del ciel,

Migrò dalla terra. Rimasegli addietro,

Di tanto suo fato reliquia, un ferétro.

Ma il regno dei morti non muto è così,

Che ALBERTO non gridi quelle riviere:

«Rileva, o Piemonte, le afflitte bandiere,

Non doma una gente la rotta d’un .

Intorno a’ tuoi fianchi, d’Italia s’aduna,

O Torre dell’Alpi, la nova fortuna.

Paratevi in pace pel certo avvenir.

La via dei dolori sereno ho discesa,

Legando a Vittorio la nobile impresa,

E un dolce trionfo mi parve il morir

Sentite, o gementi dal Sarca all’Oreto,

Sentite quest’aura del tempo segreto,

Che soffia il Davidde del novo Israel?…

Re, popoli, duci, leviti, guerrieri,

Posate gli scettri, chinate i cimieri,

Stendete le destre sull’augure Avel.

Conserti in un patto d’amor più tenace,

Foggiatevi l’arme nel della pace,

Un’alba affrettando che lunge non è,

Perché questa Italia, dal brando domata

Di cento signori, da vendicata,

S’assida una volta signora di sé:

Signora di messi, di codici, d’armi,

Di lingua, d’affetti, di fede, di carmi,

Gagliarda e prudente, severa e gentil.

E in fronte le sieda tal segno d’impero,

Che ognun che la scontri sul lido straniero

La inchini, sclamando: «Qual altra è simil

Or chiusa nell’ombre quest’Eva dolente

S’accusa e sospira, ricorda e si pente.

Ma brando e vessillo deposti non ha.

Nell’arduo Superga gli sguardi ella tiene.

Le suonan sui polsi le ferree catene.

Ma un lampo di fede nel viso le sta.

VITTORIO! VITTORIO!  Tu, giovine Anteo,

Per questa dolente, nel fiero torneo,

La lancia suprema sei nato a spezzar.

Raccolta dal campo fatal di Novara

La mesta corona, dei morti sull’ara,

Di tanto suo lutto la dêi vendicar.

La croce Sabauda, che ornò sette troni,

Davanti alla furia de’ tuoi battaglioni,

Raggiando sull’arme l’antico fulgor,

Segnai di vittoria per gli occhi de’ forti,

Segnai d’allegrezza per l’ossa de’ morti,

Verrà, benedetta, sull’Adige ancor.

Oh Prence! T’è noto quel cielo e quel corso.

Non tôrre al cavallo cella morso.

Ei dee di nitriti quell’aure ferir,

Volar nella strage sovrelmi e loriche,

Scaldar colle nari le terga nemiche,

Del Re che lo preme la gloria, gioir.

Oh! insigne quel giorno, che tersi i sudori

Dell’ultima pugna, fra’ tuoi vincitori,

Curvati i ginocchi d’un feretro al piè,

Serbando di prode l’altero contegno,

Dirai colla gioia d’un vinto disegno:

«Francata è l’Italia, mio padre e mio re

 




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