Non serva agli
antichi, nè ai novi potenti,
Non serva alle plebi compresse o vincenti,
Straniera ai sorrisi, straniera al furor,
La musa romita col dio che la ispira,
Per l’aure funébri d’Italia s’aggira,
Piangendo la fede d’un tempo miglior.
Piangendo le
indarno conserte bandiere,
I ponti varcati, le trombe guerriere,
L’armato tripudio di cento città,
Nei dì che una terra d’oppressi e traditi,
Scordate le veglie, le danze, i conviti,
Promise a sè stessa la sua libertà.
Sentir fu creduta
la intíma di Dio:
«Cacciate l’estranio dal nido natío,
Stringetevi tutti nel brando d’un Re.
Palestra pugnata dai vecchi giganti,
Delubro custode del patto de’santi,
Più terra di schiavi l’Italia non è!»
Oh sogni svaniti!
Sull’arca di Roma
Suonâr gli aquiloni. Recisa è la chioma
Al Forte di Giuda, che Pio si nomò.
Compulse dall’ira d’un volgo feroce,
Divise e tremanti la spada e la croce,
La stella dell’Alpi comparve… e passò.
Ahi mesto tumulto
di fughe e d’esigli!
Ahi pianto di madri sul corpo de’ figli
Trafitti e calpesti da un volgo stranier,
Che vien preceduto dal suon della morte,
Che ai vinti ripiglia le torri e le porte,
Che ai deschi interrotti ritorna a seder!
E ai campi
lombardi la messe non langue,
La messe che, tinta d’italico sangue,
Par anzi che abbondi sul misero suol,
Per far più giocondo l’avaro sorriso
Del vil che la multa, che studia nel viso
Dei servi multati la colpa del duol.
Or dunque di
novo, sventura! sventura!
Salendo alle nozze, rimorso e paura
La donna nei chiusi suoi talami avrà,
Però che all’indizio del grembo amoroso,
Respinta la gioia d’un palpito ascoso,
«Concetto ho uno schiavo!» piangendo dirà.
Or dunque,
deserta la casa e la vite
Dei mesti parenti, le assise aborrite
La prole lombarda dovrà rivestir,
Servendo una razza di furti pasciuta,
Che un giorno dai patrii castelli ha veduta,
Qual branco di belve, dispersa fuggir!…
Per numero, oh
prodi stranieri esecrandi,
Che a Dio rincrescete, col dritto de’ brandi
Tenendo una terra che vostra non fu,
Qual fede, qual patto tra noi può legarsi?
Voi molti, noi pochi; voi stretti, noi sparsi,
Vegliamci pensosi… Ma patti mai più!
A noi la Fortuna
due giorni sorrise.
Sleal meretrice per voi si decise.
Le tempia briache vi cinse d’allòr.
Nei vostri banchetti di giubilo e d’ira
Danzò, lascivendo. Poi stanca e delira
Dormì sulla notte del nostro dolor.
E ier dal
triclinio, dov’ebra si giacque,
Volando alla spenta Regina dell’acque,
L’anel delle nozze divelto le avrà.
Vinceste, o felici. Ma stabile amica
Sperar v’è negato la donna impudica,
Che ad uno si giura, che a cento si dà.
Salite alle
rôcche, spandetevi al piano,
Dal Garda all’Isonzo, dall’Adda al Verbano;
Nei dolci presidii tornate a regnar.
Ma, lungo i confini, nel cor delle ville,
Potrete poi sempre le fulve pupille,
Nell’ora del sonno, securi chinar?… —
Badate; un iroso
nasconde ogni tetto.
Da ogni angolo arcano balena un moschetto.
Compressi gli sdegni, ma spenti non son.
La squilla lombarda v’ha messo una volta
Nel cor lo spavento. Nè tutta è sepolta
La stirpe, che ha desto quel lugubre suon.
Badate; nel petto
dell’arso bifolco
Quell’aura di sangue, che esala dal solco,
Travasa una rabbia, che mai non provò.
Badate; il pastore le ciglia frementi
Girò dalla china sui patrii torrenti,
E anch’ei, nel conflitto, coi guardi pugnò.
Nel cor della
gleba, nel vento remoto
Ricresce la forza d’un dio non ignoto;
Conclaman d’Italia le querce ed i fior:
«Il dritto e l’ingiuria tien campo distinto.
Fur tratte le spade. La razza del vinto
Divisa è in eterno dal suo vincitor!»
Apostata antica,
sfregiando i fratelli,
Potrà qualche turpe progenie d’imbelli
Baciar la catena del novo servir.
Ma dietro quei terghi tapini e sommessi
S’asconde una cheta famiglia d’oppressi,
Terribili ammende parata a compir.
Sementa, se cade
sovr’ispide lande,
La bruciano i soli. Se in pietra si spande,
Levata è repente dei turbini in sen.
Ma quando nell’urna de’ solchi s’induce,
Fermenta, si rompe, germoglia, produce,
Poi muscolo e sangue di forti divien.
Talvolta,
seguendo suo tristo destino,
S’addorme, o di ciancie tormenta il vicino,
Fermata la stiva, l’incauto arator.
Ma quando s’accorge, sul far della notte,
Che furon sì scarse le zolle che ha rotte,
Pentito sull’alba raddoppia il sudor.
Per ospiti climi,
per lustre selvagge,
Ci ha sparsi l’esiglio su tutte le spiagge,
Ci ha tolto la mensa, la casa, il poder.
Mal noti a noi stessi, di boria cresciuti,
Nell’ora del pianto ci siam conosciuti,
Purgato è dai sogni l’illuso pensier.
L’avara promessa
di genti straniere
Non era che il patto del vile usuriere,
Che studia l’evento per meglio tradir.
L’evento ha chiarito l’iniqua parola.
La misera Italia dee vincer da sola,
O il capo nel manto celarsi, e morir.
Ma ardente è di
fede, ricinto è d’acciari
L’altar, che è levato tra l’alpe e i due mari;
Lo attornian tre mesti, ma santi color.
Velata Iaele, si prostra, adorando,
La tacita Italia. Col pugno sul brando,
La guata pensoso l’estranio Signor.
Oh Prenci
(lasciate che il ver vi si gridi),
Temuti o tementi, codardi o mal fidi,
Tornate a quest’ara. La fiaccola è qui.
Giurate nei sette segnacoli suoi.
Parlatevi ancora. L’Italia è con voi.
Del tristo dissidio la trista arrossì.
Distinse i suoi
figli, pur tepidi e tardi,
Da’ suoi Saturnini feroci e codardi.
Le orrende sue piaghe nel duol numerò.
Non tutte le vide di stranio coltello
De’ suoi parricidi conobbe il drappello,
Che in pietra d’infamia locarla tentò.
Legatevi, o
Prenci, con santo coraggio,
Facciamolo insieme quest’arduo vïaggio
D’affanno e di fede, di forza e d’amor.
Vel chiedon le culle dei bimbi innocenti,
Vel chiedon le tombe dei vecchi parenti,
Vel chiede, gemendo, l’Italia che muor!
Pentita ella
spezza l’orrendo pugnale,
Che un giorno per l’aure del tuo Quirinale,
Signor dei credenti, vedesti guizzar.
Siam verghe di creta. Tu il dici. Tu il senti.
Rinasci e perdona, Signor dei credenti.
Conferma che a Cristo tu sai somigliar.
Vuoi salda, o
Fernando, sul capo agli eredi
La doppia corona d’Arrigo e Manfredi?
Disarma due genti. Ritorna alla fè.
Corona è di polve corona spergiura.
Nel cor dei vulcani s’espande e matura
O l’odio, o l’affetto. La scelta è per te.
Se un tempo ti
piacque la vita serena,
Tra i clivi dell’Arno, figliuol di Lorena,
Se rose perpetue t’han fatto origlier,
Sii forte. E la causa di quelle contrade
Rescindi dall’elsa di barbare spade,
Giudicii di pianto su te non voler!
Se un vostro
vedeste Fratel coronato,
Dell’arme d’Italia coperto soldato,
Calar sui torrenti, per l’erte salir,
Cercar la battaglia con fiero diletto,
Spronar sotto i bronzi, sentirsi all’elmetto
Le palle omicide, fischiando, fuggir,
Poi, vista,
l’austero, con spasimo atroce,
Domata due volte la bianca sua Croce,
Gittar la corona che vil gli sembrò,
Morir nell’esiglio col capo sul brando,
L’afflitto e supremo suo grido elevando,
Per questa infelice ch’ei vinta lasciò;
Se il martire, o
Prenci, vedeste, all’aurora
Dell’alto suo corso, miratelo ancora
Fantasma ravvolto nei bruno suo vel.
Anch’ei fa ritorno sul margo natale.
Ma cinto la fronte di lume immortale,
Atleta incolpato d’Italia e del ciel,
Migrò dalla
terra. Rimasegli addietro,
Di tanto suo fato reliquia, un ferétro.
Ma il regno dei morti non muto è così,
Che ALBERTO non gridi dà quelle riviere:
«Rileva, o Piemonte, le afflitte bandiere,
Non doma una gente la rotta d’un dì.
Intorno a’ tuoi
fianchi, d’Italia s’aduna,
O Torre dell’Alpi, la nova fortuna.
Paratevi in pace pel certo avvenir.
La via dei dolori sereno ho discesa,
Legando a Vittorio la nobile impresa,
E un dolce trionfo mi parve il morir!»
Sentite, o
gementi dal Sarca all’Oreto,
Sentite quest’aura del tempo segreto,
Che soffia il Davidde del novo Israel?…
Re, popoli, duci, leviti, guerrieri,
Posate gli scettri, chinate i cimieri,
Stendete le destre sull’augure Avel.
Conserti in un
patto d’amor più tenace,
Foggiatevi l’arme nel dì della pace,
Un’alba affrettando che lunge non è,
Perché questa Italia, dal brando domata
Di cento signori, da sè vendicata,
S’assida una volta signora di sé:
Signora di messi,
di codici, d’armi,
Di lingua, d’affetti, di fede, di carmi,
Gagliarda e prudente, severa e gentil.
E in fronte le sieda tal segno d’impero,
Che ognun che la scontri sul lido straniero
La inchini, sclamando: «Qual altra è simil?»
Or chiusa
nell’ombre quest’Eva dolente
S’accusa e sospira, ricorda e si pente.
Ma brando e vessillo deposti non ha.
Nell’arduo Superga gli sguardi ella tiene.
Le suonan sui polsi le ferree catene.
Ma un lampo di fede nel viso le sta.
VITTORIO!
VITTORIO! Tu, giovine Anteo,
Per questa dolente, nel fiero torneo,
La lancia suprema sei nato a spezzar.
Raccolta dal campo fatal di Novara
La mesta corona, dei morti sull’ara,
Di tanto suo lutto la dêi vendicar.
La croce Sabauda,
che ornò sette troni,
Davanti alla furia de’ tuoi battaglioni,
Raggiando sull’arme l’antico fulgor,
Segnai di vittoria per gli occhi de’ forti,
Segnai d’allegrezza per l’ossa de’ morti,
Verrà, benedetta, sull’Adige ancor.
Oh Prence! T’è
noto quel cielo e quel corso.
Non tôrre al cavallo nè cella nè morso.
Ei dee di nitriti quell’aure ferir,
Volar nella strage sovr’elmi e loriche,
Scaldar colle nari le terga nemiche,
Del Re che lo preme la gloria, gioir.
Oh! insigne quel
giorno, che tersi i sudori
Dell’ultima pugna, fra’ tuoi vincitori,
Curvati i ginocchi d’un feretro al piè,
Serbando di prode l’altero contegno,
Dirai colla gioia d’un vinto disegno:
«Francata è l’Italia, mio padre e mio re!»