Chiusa in vel di
puro argento,
Occhio e amor del
firmamento,
Tu m’allegri, e
m’impauri
Di tua gelida beltà.
Colle lingue e coi
pugnali
Qua si sbranano i
mortali,
E tu placida misuri
La celeste
immensità.
Tu che varchi i mari aperti,
Tu che pendi sui
deserti,
Tu che assisti a
tanta guerra
Di superbia e di
dolor;
Tu conosci il breve
nulla,
Che ci attrista e ci
trastulla,
E passeggi sulla
terra
Senza sdegno e senza
amor.
Ben cortese e non pudica
Ti sognò la fola
antica,
E di Latmo i mirti
ombrosi
Van parlando ancor
di te,
Quando, languida sul
petto
Dell’ardente
giovinetto,
Gli recavi i gaudi
ascosi
D’un amor che in
ciel non è.
Ma tu strania al fallo
bieco,
Tu ridesti il genio
greco,
Nè dell’ira il cupo
istinto
La vendetta
t’insegnò;
E sull’urne di
Platea,
E sui fior di
Mantinea,
E sui marmi di
Corinto
La tua luce ognor
brillò.
Né già visiti quei segni
Di superbi e morti
regni,
Per un senso, qual
che fosse,
Di tristezza o di
piacer.
Esser pia non ti
bisogna,
Nè tal sei. Ma tal
ti sogna
Nelle fervide e
commosse
Sue fantasme il
passeggier.
Fredda sì, ma pur divina,
La tua luce a noi
s’inchina,
E d’un palpito si
scote
Malinconico e
immortal.
Chi nol sente ha
sterilito
Il pensier
dell’infinito;
Stranio verme a cose
ignote,
Polve ed ombra in
lui preval.
Quante tele e quanti carmi
Tu inspirasti, e
bronzi e marmi,
Senza amor che a noi
ti stringa,
Tu romita in grembo
al ciel!
Di Simonide la lira
Al tuo lume ancor
sospira,
Là in Termopili
solinga
Tra le querce e il
venticel.
Pia non sei, ma non sei
cruda
Tu di sensi affatto
ignuda;
Pur la vergine ti
manda
La notturna sua
canzon;
Parla a te del
chiuso foco,
Di sospiri accende
il loco.
Ma la gelida tua
landa
Non contrista umano
suon.
Meglio a te. Se errar non
godi
Sulle antiche ossa
de’ prodi,
Che fregiâr d’un
mondo infranto
Col lor sangue i
vani altar;
Se il tuo raggio
inerte scorre
Sovra il Libano e il
Taborre,
Dove i cedri al
fiero canto
D’Isaia si
conturbar;
Non udisti almen le grida
Del fuggiasco
Fratricida,
Nè d’Abel l’estinto
viso
I tuoi rai
contaminò;
E a Getsemani
movendo,
Ti fu ignoto il
bacio orrendo,
Che degli Angeli il
sorriso
In eterno addolorò.
Ahi! quel bacio e quella
piaga
D’odio e sangue il
mondo allaga;
E tu scherzi, o
fortunata,
Co’ tuoi raggi in
mezzo ai fior,
Come fossero
innocenti
Delle colpe de’
viventi.
Ma la rosa anch’ella
è nata
Rea coll’alba, e a
vespro muor.
Così armonica e sincera
Tu sei là, nella tua
sfera!
Sulle nozze,
inconscia luna,
Sui feretri egual
sei tu;
Là, da secoli,
risplendi;
Nulla speri, a nulla
attendi;
Muta al mondo, alla
fortuna,
Al dolore e alla
virtù.
Muta sempre e sempre bella,
Tu m’atterri, arcana
stella.
Ecco; in faccia al
mar che romba.,
Il Vesèvo urlando
va;
Due città la lava
inghiotte:
Tu ne illumini la
notte,
E d’un popolo la
tomba
Non ti veste di
pietà.
Strana dea, che valse mai
Por su Erina i dolci
rai,
Sotto i platani
tranquilli,
Meco in grembo al
gelsomin?
Schiava ad altri, a
me rapita,
Ombra e pianto è la
sua vita;
E serena ognor tu
brilli
Tra quei fiori, e su
quel crin.
Tutto muor d’umane tempre;
Tu sei bella e
giovin sempre.
Dunque il duol
dell’universo
Ti fu sempre ignoto
duol?
No. Tu pur, superba
dea,
Là nel ciel della
Giudea
Scolorasti, il dì
che asperso
D’atro sangue
apparve il sol.
Quando Cristo sulle spalle
Tolse il legno, e
ascese il calle
Dei tormenti, e il
capo afflitto
Nella morte reclinò,
In quell’ora irati e
folti
Si rizzarono i
sepolti,
E dei vivi il gran
delitto
Di terror ti
circondò.
Forse è ver. Da quel momento
Ti fu dato il
sentimento.
E tu in ciel pensosa
udisti
D’ogni Solima il
sospir.
Forse è vero. Il cor
temprando
Al tuo raggio arcano
e blando,
Si può vivere men
tristi,
Meno rei si può
morir.
Cara luna, allor ch’io
veggio
Far le stelle a te
corteggio,
E il tuo passo in
alto preme
I sentieri del
Signor;
Teco parlo, e tu mi
sveli
Le armonie di nuovi
cieli,
E la cetera mi freme
Di mistero e di
splendor.