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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • ALLA LUNA
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ALLA LUNA

Chiusa in vel di puro argento,

Occhio e amor del firmamento,

Tu m’allegri, e m’impauri

Di tua gelida beltà.

Colle lingue e coi pugnali

Qua si sbranano i mortali,

E tu placida misuri

La celeste immensità.

Tu che varchi i mari aperti,

Tu che pendi sui deserti,

Tu che assisti a tanta guerra

Di superbia e di dolor;

Tu conosci il breve nulla,

Che ci attrista e ci trastulla,

E passeggi sulla terra

Senza sdegno e senza amor.

Ben cortese e non pudica

Ti sognò la fola antica,

E di Latmo i mirti ombrosi

Van parlando ancor di te,

Quando, languida sul petto

Dell’ardente giovinetto,

Gli recavi i gaudi ascosi

D’un amor che in ciel non è.

Ma tu strania al fallo bieco,

Tu ridesti il genio greco,

dell’ira il cupo istinto

La vendetta t’insegnò;

E sull’urne di Platea,

E sui fior di Mantinea,

E sui marmi di Corinto

La tua luce ognor brillò.

Né già visiti quei segni

Di superbi e morti regni,

Per un senso, qual che fosse,

Di tristezza o di piacer.

Esser pia non ti bisogna,

tal sei. Ma tal ti sogna

Nelle fervide e commosse

Sue fantasme il passeggier.

Fredda sì, ma pur divina,

La tua luce a noi s’inchina,

E d’un palpito si scote

Malinconico e immortal.

Chi nol sente ha sterilito

Il pensier dell’infinito;

Stranio verme a cose ignote,

Polve ed ombra in lui preval.

Quante tele e quanti carmi

Tu inspirasti, e bronzi e marmi,

Senza amor che a noi ti stringa,

Tu romita in grembo al ciel!

Di Simonide la lira

Al tuo lume ancor sospira,

in Termopili solinga

Tra le querce e il venticel.

Pia non sei, ma non sei cruda

Tu di sensi affatto ignuda;

Pur la vergine ti manda

La notturna sua canzon;

Parla a te del chiuso foco,

Di sospiri accende il loco.

Ma la gelida tua landa

Non contrista umano suon.

Meglio a te. Se errar non godi

Sulle antiche ossa de’ prodi,

Che fregiâr d’un mondo infranto

Col lor sangue i vani altar;

Se il tuo raggio inerte scorre

Sovra il Libano e il Taborre,

Dove i cedri al fiero canto

D’Isaia si conturbar;

Non udisti almen le grida

Del fuggiasco Fratricida,

d’Abel l’estinto viso

I tuoi rai contaminò;

E a Getsemani movendo,

Ti fu ignoto il bacio orrendo,

Che degli Angeli il sorriso

In eterno addolorò.

Ahi! quel bacio e quella piaga

D’odio e sangue il mondo allaga;

E tu scherzi, o fortunata,

Co’ tuoi raggi in mezzo ai fior,

Come fossero innocenti

Delle colpe de’ viventi.

Ma la rosa anch’ella è nata

Rea coll’alba, e a vespro muor.

Così armonica e sincera

Tu sei , nella tua sfera!

Sulle nozze, inconscia luna,

Sui feretri egual sei tu;

, da secoli, risplendi;

Nulla speri, a nulla attendi;

Muta al mondo, alla fortuna,

Al dolore e alla virtù.

Muta sempre e sempre bella,

Tu m’atterri, arcana stella.

Ecco; in faccia al mar che romba.,

Il Vesèvo urlando va;

Due città la lava inghiotte:

Tu ne illumini la notte,

E d’un popolo la tomba

Non ti veste di pietà.

Strana dea, che valse mai

Por su Erina i dolci rai,

Sotto i platani tranquilli,

Meco in grembo al gelsomin?

Schiava ad altri, a me rapita,

Ombra e pianto è la sua vita;

E serena ognor tu brilli

Tra quei fiori, e su quel crin.

Tutto muor d’umane tempre;

Tu sei bella e giovin sempre.

Dunque il duol dell’universo

Ti fu sempre ignoto duol?

No. Tu pur, superba dea,

nel ciel della Giudea

Scolorasti, il che asperso

D’atro sangue apparve il sol.

Quando Cristo sulle spalle

Tolse il legno, e ascese il calle

Dei tormenti, e il capo afflitto

Nella morte reclinò,

In quell’ora irati e folti

Si rizzarono i sepolti,

E dei vivi il gran delitto

Di terror ti circondò.

Forse è ver. Da quel momento

Ti fu dato il sentimento.

E tu in ciel pensosa udisti

D’ogni Solima il sospir.

Forse è vero. Il cor temprando

Al tuo raggio arcano e blando,

Si può vivere men tristi,

Meno rei si può morir.

Cara luna, allor ch’io veggio

Far le stelle a te corteggio,

E il tuo passo in alto preme

I sentieri del Signor;

Teco parlo, e tu mi sveli

Le armonie di nuovi cieli,

E la cetera mi freme

Di mistero e di splendor.

Torino, 1851

 




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