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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • IL DUBBIO
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IL DUBBIO

di Lutezia assisi

In un fiorito parco,

Caldi dal nappo i visi,

D’Egina il bel Nearco,

Sir Dunistan brittannico,

Il polonese Ermano,

E Pedro il cordovano

Fean brindisi all’Amor.

L’Anglo sclamò giocondo:

Viva di Kent la rosa.

Vince ogni donna al mondo

La mia futura sposa.

L’occhio cilestre ha simile

All’onda de’ suoi laghi,

Biondi i capelli e vaghi

Come la luce e l’or. —

Viva, sclamò l’Ibero,

Il fìor d’Andalusia.

Nessuna ha il piglio altero

D’Alma, la vergin mia.

Le cade il crin sull’omero

Come la notte bruno,

Passa e non cura alcuno,

Ma le son tutti al piè. —

Quel di Polonia alzando

Il nappo arrubinato,

— Dal , sclamò, che al bando

Lo Czar m’ha condannato,

Geme in Varsavia un angelo

Sotto virgineo velo,

altero e pio, che in cielo

Uno simil non v’è. —

E l’Eginese: — O stolti,

Vedeste Argia d’Atene?

Qual de’ femminei volti

Al paragon le viene?

Cinzia una volta e Venere

D’Egeo sonaron l’acque,

Ma quando Argía ci nacque

L’inno alle Dee finì. —

Dai paragoni offeso

Ciascun nella sua cara,

L’onor vantonne. E sceso

Nella seconda gara,

L’un punse l’altro. E avrebbono

L’armi fors’anche tratto,

Ma quel di Spagna a un patto

Gli ebri discordi unì,

Balziam, compagni, in sella.

Corta è d’Amor la strada.

Tutti la nostra bella

Ad impalmar si vada.

Poi qui, fra un anno, i talami

Vengano all’ardua prova.

Chi indugia o non si trova

Nota d’infame avrà. —

Giuraron tutti. E in dorso

Salito al suo destriero,

Ognun lo spinse al corso

Verso il nativo impero;

Securo ognun di vincere

In quel torneo cortese,

Dove sarian discese

La Fede e la Beltà.

Baciâr le donne liete

I ritornati amanti.

Poi con un’ara e un prete

Furon tranquilli i santi.

Dopo le nozze, il tacito

Destin gittò il suo dado;

E, i raccolti al guado,

L’anno fatal scoccò.

di Lutezia antica

Sul Parco il vespro scende.

Di Venere pudica

La stella in alto splende.

Tre da un vïal comparvero,

Ma scompagnati e in duolo;

Tranne Nearco solo,

Che Argía per man guidò.

E con cipiglio oscuro

Nearco ai tre si volse:

— Così teneste il giuro? —

E l’Anglo il labbro sciolse:

Splendea di Kent sui margini

Cordelia, e mia divenne;

Ma la sua non tenne,

E di brillar cessò.

Ella sul ghiaccio eterno

Di Montebianco il passo

Con me traea. L’inferno

La spinse in orlo al sasso,

E scompari. — Qui pallido

Si fece l’Anglo in viso,

E quel ch’ei tacque, un riso

A rivelar bastò.

Sclamò l’Ispano: — Il fiore

Dell’Andalusia è spento.

Lo sdegno del Signore

L’ha dissipato al vento.

Alma sorrise al giovine

Don Diego in una festa;

Ma l’onor mio v’attesta,

Ch’ei sul mattin perì.

Poscia, una volta, in mare,

L’empia, a scomposte chiome,

Tremò sognando, e urlare

La udii nell’ombre un nome

Siedea sul vasto Atlantico

La notte e l’uragano;

Io non frenai la mano,

E il mar se la inghiottì. —

E anch’ei con un sogghigno

Chinò la fronte oscura,

L’Arcangelo maligno

Sembrando alla figura.

Allor con più terribile

Riso proruppe il Greco:

Fior d’innocenza io reco

La bella Argía con me.

I vostri fior son morti;

Il mio m’è sempre accanto,

Sorridi, Argía. Tu porti

Su tutte l’altre il vanto. —

E ogni proferta sillaba

Di tal velen fu tinta,

Che ai piè cadergli estinta

Era miglior mercè.

Quel di Polonia allora

Con mesto ardor gentile,

Sclamò: — Felice Eudora

Che non fu rea, vile.

Ella pregò per l’esule,

Pianse le notti e i giorni,

Ne disperò i ritorni,

E i suoi la seppellîr.

Dormi in funerea veste,

Mia povera solinga.

Non più sorrisi o feste,

Non più d’Amor lusinga.

Sol quando i brandi s’alzino

Per la natal mia terra,

Sui patrii campi in guerra,

Chiedo pur io morir. —

I tre chinâr le ciglia

Di reverenza in segno

Alla defunta figlia,

E di Sobieski al regno.

Ma allor la illustre vergine

Della contrada Argiva,

Fatta di fiamma viva,

Sorse, e così parlò:

Rea non son io. Da frodi

E tradimenti altrui

Son maculati i nodi,

In che felice io fui.

Beata, Eudora! All’Erebo

Tu discendesti almeno,

E d’un vivente i a seno

La fede tua restò.

Da Satana voi nati,

E noi dal fianco d’Eva,

Sempre sui nostri fati

La vostra man si aggreva.

E un sogno, un’ombra, un impeto

Dell’ira o dell’orgoglio,

A noi sovverte il soglio,

Che un breve amor ci .

in dorso al Montebianco

E sui nembosi flutti,

Quell’altre due fors’anco,

Per accusarvi tutti,

Al Dio che non ingannasi,

Levan le fronti caste,

E voi che giudicaste

Quel Dio giudicherà. —

Uno sghignazzo obliquo

Dal bel Nearco uscía.

Era Nearco iniquo,

O menzognera Argía?

Come due fredde immagini,

Quegli altri due rimasi,

Sentian de’ proprii casi

Dubbio e spavento al cor.

Quindi saliti in tergo

Dei corridor focosi;

Tutti al nativo albergo

Volâr nell’ombre ascosi;

Dietro seguiali Satana

Per valli e per caverne,

E sulle sfere eterne

Gemea velato Amor.

 




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