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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • LACRYMAE RERUM
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LACRYMAE RERUM

Saltem si, rebus fractis, mihi nomina restant!

       A voi, fior della terra, a voi, gioconde

Stelle del cielo, i sogni e le speranze

Della ridente gioventù son pari.

Se non che l’astro e il fior passano immuni

Da colpa e da castigo, e noi travaglia

Pur giovinetti una tristezza arcana,

Quando parliam col limpido pianeta

E colle rose.

                        Sulla verde cima

Delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,

Nel silenzio dell’ombra, oh! quante volte

Piansi pur io fanciullo, il ciel mirando

Pien di tremoli fochi o il sottoposto

Pendio stellato di silvestri gigli

E di pervinche!

                        In verità, si piange

Dunque nel mondo, e sin la primavera

Ha le lacrime sue. Forse non solo

Piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla

Pur dell’avida belva il pianto oscura.

Mai non vedesti, Elisa, un errabondo

Can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi

Malinconico in terra? O sotto l’ala

Piegar la testa un povero augelletto

In gabbia d’ôr? Dai perfidi spiragli

Il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda,

E la perduta libertà sospira.

Tutte piangon le cose; e i petti affanna

Ciò ch’è nato a perir.

                            Voi che venite,

Pellegrini del mondo, a questa Roma,

Non per recar nelle native terre

Qualche santo rosario od amuleto,

Ma per chinarvi a interrogar la spoglia

Dell’olimpico Lazio, il pianto vostro

Colle rugiade dell’eterna luna

Qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio

Del Palatin la capinera al vento

Lancerà la sua nota.

                        Or io mi levo

Sulle alture del Celio, e mentre l’ôra

Nei sacri mirti come fa, si tace,

Pellegrini del mondo, a voi favello:

Questa Roma di Dardano, per molti

Rischi di terra e mar, seco ha recato

Colle ceneri d’Ilio il suo destino.

Qua giunse larva nel pensier d’Enea,

E qua crebbe e regnò. L’arido bruco

Nel novilunio suo non altrimenti

Fatto è farfalla. Un’intima possanza

Trasfigura le cose, e dalla morte

Nasce la vita, ed ambedue compagne

Van per la terra, altar di maraviglie

E di ruine.

                        Ma perpetuo il falco

Garrisce al monte, ma s’abbraccia il Sole

Col perpetuo nettuno e col deserto,

Mentre l’ora dell’uom va più veloce

Che non la rota della sua fortuna

Senza ritorni.

                        Virïate, il prode

Fulminator dai cantabri dirupi,

Come passò? dov’è l’asta di Brenno?

Dove il biondo cherusco e l’implacato

Cartaginese?

                        Io per le ripe indarno

Cerco Cesare nostro e le vestali

E i pontefici sacri: odo il galoppo

Del caval d’Alarico, e penso e piango,

Pellegrini del mondo, insiem con voi!

Figlio d’Italia, in vetta alle nevose

Mie tirolesi balze ebbi la cuna

Come il camoscio, e le varcai cantando

Fra’ miei vecchi pastori.

                        E ancor la squilla

Delle mandre disperse alla boscaglia

Nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri

Gemere ascolto il passero solingo,

E rivedo le vie che i battaglioni

Vider di Francia ed or sotto l’accesa

Ferza canicular son traversate

Dal fulmineo ramarro.

                                   Agile e fresca

Allor ne’ polsi mi correa la vita

E nello spirto: allor caro soltanto

M’era il mio borgo, e mi parea più noto

Che non il Tebro, eredità di Giove,

Il più ignoto ruscel delle mie valli.

Oggi, affranto le membra e misto il crine,

Me condusser le Parche alla fatale

Città d’Ascanio; ed ospite pensoso

Odo dalle disfatte are il lamento

Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,

Sul Gianicolo sacro o l’Aventino

L’alte malinconie del che fugge.

 




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