Saltem si, rebus
fractis, mihi nomina restant!
A voi, fior della terra, a voi, gioconde
Stelle del cielo, i sogni e
le speranze
Della ridente gioventù son
pari.
Se non che l’astro e
il fior passano immuni
Da colpa e da castigo, e noi
travaglia
Pur giovinetti una tristezza
arcana,
Quando parliam col limpido
pianeta
E colle rose.
Sulla verde cima
Delle mie rupi, in margine
a’ miei laghi,
Nel silenzio dell’ombra, oh!
quante volte
Piansi pur io fanciullo, il
ciel mirando
Pien di tremoli fochi o il
sottoposto
Pendio stellato di silvestri
gigli
E di pervinche!
In verità, si piange
Dunque nel mondo, e sin la
primavera
Ha le lacrime sue. Forse non
solo
Piangon gli occhi dell’uom,
ma la pupilla
Pur dell’avida belva il
pianto oscura.
Mai non vedesti,
Elisa, un errabondo
Can, che ha smarrito il suo
signor, corcarsi
Malinconico in terra? O
sotto l’ala
Piegar la testa un povero
augelletto
In gabbia d’ôr? Dai perfidi
spiragli
Il bel verde de’ campi e il
cielo ei guarda,
E la perduta libertà
sospira.
Tutte piangon le cose; e i petti affanna
Ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
Pellegrini del mondo, a
questa Roma,
Non per recar nelle native
terre
Qualche santo rosario od
amuleto,
Ma per chinarvi a interrogar
la spoglia
Dell’olimpico Lazio, il
pianto vostro
Colle rugiade dell’eterna
luna
Qui spargerete, e in qualche
ermo cespuglio
Del Palatin la capinera al
vento
Lancerà la sua nota.
Or io mi levo
Sulle alture del Celio, e
mentre l’ôra
Nei sacri mirti come fa, si
tace,
Pellegrini del mondo, a voi
favello:
Questa Roma di Dardano, per
molti
Rischi di terra e mar, seco
ha recato
Colle ceneri d’Ilio il suo
destino.
Qua giunse larva nel pensier
d’Enea,
E qua crebbe e regnò.
L’arido bruco
Nel novilunio suo non
altrimenti
Fatto è farfalla. Un’intima
possanza
Trasfigura le cose, e dalla
morte
Nasce la vita, ed ambedue
compagne
Van per la terra, altar di
maraviglie
E di ruine.
Ma perpetuo il falco
Garrisce al monte, ma
s’abbraccia il Sole
Col perpetuo nettuno e col
deserto,
Mentre l’ora dell’uom va più
veloce
Che non la rota della sua
fortuna
Senza ritorni.
Virïate, il prode
Fulminator dai cantabri
dirupi,
Come passò? dov’è l’asta di
Brenno?
Dove il biondo cherusco e
l’implacato
Cartaginese?
Io per le ripe indarno
Cerco Cesare nostro e le
vestali
E i pontefici sacri: odo il
galoppo
Del caval d’Alarico, e penso
e piango,
Pellegrini del mondo, insiem
con voi!
Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
Mie tirolesi balze ebbi la
cuna
Come il camoscio, e le
varcai cantando
Fra’ miei vecchi pastori.
E ancor la squilla
Delle mandre disperse alla
boscaglia
Nel cor mi suona, e dalle
chiese alpestri
Gemere ascolto il passero
solingo,
E rivedo le vie che i
battaglioni
Vider di Francia ed or sotto
l’accesa
Ferza canicular son
traversate
Dal fulmineo ramarro.
Agile e fresca
Allor ne’ polsi mi correa la
vita
E nello spirto: allor caro
soltanto
M’era il mio borgo, e mi
parea più noto
Che non il Tebro, eredità di
Giove,
Il più ignoto ruscel delle
mie valli.
Oggi, affranto le membra e
misto il crine,
Me condusser le Parche alla
fatale
Città d’Ascanio; ed ospite
pensoso
Odo dalle disfatte are il
lamento
Dei numi d’Asia, e porto, a
quando a quando,
Sul Gianicolo sacro o
l’Aventino
L’alte malinconie del dì che
fugge.