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Giovanni Prati Poesie scelte IntraText CT - Lettura del testo |
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MORBIAgrescunt animi, vel corpora: morbus et ipsa Mens est. «Malato è l’uomo di parecchio male» E l’aspra verità tutti ci smaga. La miglior delle cure in questo mondo È il non curar. Ricacciami, o fantesca, Il medico alla porta; udir non voglio Favole al letto mio. M’urge la tosse? Berrò tepido tiglio. Ho le tonsille Chiuse? Datemi ghiaccio. È il ventre in doglie? Non mangerò. M’assalgono i ribrezzi Della quartana? Ebben moltiplicate Sovra il povero mio corpo che trema Coltri e piumacci. Assai furono incise Le mie vene già tempo; e un zinganume Di farmachi passò per questa mia Casa di creta. Se al martel degli anni Or la casa comincia a screpolarsi, Che far ci posso? Ed anco all’intelletto Salgon del corpo i mali. Alcun ci narra Un triste sogno e ci turbiam: se il gufo Canta sui fumaioli, ha da colpirci Qualche infortunio. E a quei della natura Confondiam di sovente i mali nostri: Strani amor’ senza gloria e senza pace, Strane idee senza freno, ond’han poi vita Cabale, ubbie, malurie e un indefesso Gioco di spettri: e ci ostiniam la colpa A versar non su noi, ma sull’iniqua Ospiti come son di ogni dimora, Del pari all’alma: ove non sia di questi Versai lacrime anch’io per mal d’amore E ululai sulle sabbie o in riva al mare, Vagabondo lipomane; e ne’ sogni Mi si corcò sull’anelante petto Il salvanello: anch’io tenni per sacro Quanto mi disse, in fe’ di galantuomo, Il gabbamondo; e mi restò l’inganno Come stampo di foco entro il cervello E ingiallii di corruccio. Il mal del grullo Questo si chiama. E mozzerai la mano Pria di far beneficio: in tetra gleba Tu spargi un seme da cui certo nasce Foglia di tosco. Nè per esser mite Scorda gli schermi: fra l’agnello e il lupo Non c’è patto qual sia: far l’uom del pari Vidi coll’uomo: chi ha più duro il pugno L’emulo atterra e son contenti i Numi. Ed io, ciuco! mirando il rugiadoso Fior della siepe, o la notturna stella, O il zampillo dell’acque, o in orïente La rosea luce, spiriti benigni In servigio dell’uom, che inferno è questo, Sclamai, dipinto in sì leggiadre forme? Oggi però, con lepido sorriso, I nomi appulcro alla saturnia prole E fo spallucce e più non mi dispero. Fors’è pur questo un morbo: e non di manco Ne so la cura; e vo pellegrinando Fuor della turba a ritornar poeta. Ma a quanti amici miei son fatti bianchi Nell’affanno i capelli: e a testa china Passan, com’ombre, per l’amara valle! Ridete, amici: il mondo è sempre stato Pari a se stésso: un bindolo da forca Che fa gran cose. È ver ch’egli a’ più destri Lambe le cuoia e i suoi più rari uccide: Ma come il coccodrillo a compensarli Quindi li piange. Non vi par codesta Gentil mercede? All’asino la soma S’addice, al savio il ben usato ingegno, Se c’è savio quaggiù sotto la luna. Vorrei quasi gridar: bravo a chi mente E scampa da rossor; bravo a chi ruba E scampa da bargello; e sette volte Bravo a chi sa giuocar dentro a quest’acque Con l’altrui barca e il suo nemico affoga E commisera in porto il suo nemico. Chi ha più dura la man l’emulo atterri E sien paghi i Celesti. Ora son pochi I mali miei: qualche innocente stizza, Che mi dà chi compila e chi rivende La farina ghermita all’altrui sacco E con ciò si fa dotto: o raspa e becca Sin che balza superbo alla curule, E sa l’arte dell’arte e al volgo piace. Qualche malinconia che colle nubi Viene e col sol dilegua, antica e cara Mia poetica insania: un tedio breve O un lungo sonno a udir sempre e poi sempre Le stesse ciancie ed a veder che in nulla Ciò turba i nervi ai simulacri e ai bronzi Che stan sulle colonne. Il resto è cosa Di nessun conto. Se non ho valsenti Non mi cruccia pensar com’io li spenda; Se più su non salii, son franco almeno Che mi morde talvolta insino all’osso È non poter scordar quest’alfabeto Che mi scema il piacer d’essere un’erba Sconosciuta, fra tanto italo fiore. Candidi amici, ripetiam sovente: «Malato è l’uomo di parecchio male Nè poi certo è il guarir.» Per consolarmi Io conchiudo cosi: Tre son le Parche: Una fila, una tesse, una recide; E quest’ultima, parmi, è la più saggia. Di là riposerem; l’Ade ha due regni: L’Eliso e l’Orco: il primo apresi ai rari Ch’ebber l’aura di Giove; all’altro in seno Cade la ciurma che dal fango è nata. Ma poi, comunque sia, dolce è il riposo.
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