Ognun ha il suo
diavolo all’uscio.
Prov.
Uno stess’orto
germina
L’arancio e la cipolla,
Stampa uno stesso artefice
Il vaso illustre e l’olla;
E incido anch’io, poeta,
Nel marmo o nella creta
Febo con Marsia, e Cesare
Da lato a Calandrin.
Ma è sogno da
nottambuli
Piacere al mondo. Or odi,
Savio lettor, la cronaca
Del tuo poeta. E godi,
Godi, chè Dio ti fece
Per la viuzza, invece
Che sotto a’ nembi
avvolgerti
Su pel dirceo cammin.
La libreria
dell’avolo
Là nella mia Dasindo
Mi cominciò gli oracoli
A bisbigliar di Pindo;
Ma l’irto pedagogo
Gittommi il Dante al rogo,
Tonando dal suo tripode:
Pane il cantar non dà.
Pur gli uccelletti
cantano
E trovan pane anch’essi,
Io mi diceva; e incorrere
L’ire tremende elessi,
E, con sul petto il peso
Di quel mio Dante acceso,
Dissi alle rose e ai zeffiri
La negra iniquità.
Ma il buon curato,
il sindaco,
Lo spezïal persino
Piangean co’ miei le
indocili
Follie del birichino,
Ed eran pie soltanto
Del birichino al canto
Le cingallegre, i taciti
Venti e il fiorito april.
Scesi alla dotta
Padova
Col fardellin dei carmi,
Lode cercando; e rigido
Nessun volea lodarmi.
Chi con la lente al naso
Mi ruppe il segnacaso,
Chi mi gualcì l’epiteto,
Chi mi castrò lo stil.
Dafni una volta e
Fillide
Cantai, del Zappi a modo,
E il molle ovil dei Titiri
Si liquefece in brodo.
Ma dai novelli troni
I torbidi Platoni
Sentenzïâr che pecora
Nacqui e dovrei morir.
Allor destai de’
pallidi
Fantasmi la famiglia,
E l’antro de’ romantici
Muggì di maraviglia.
Ma i Pindari e gli Orfei
De’ logori Atenei
Colle titanie folgori
M’han fatto impallidir.
Poi sulla terra
apparvero
Scole, congressi, asili,
Metodi ed altre olimpiche
Buffonerie simili.
E allor perdei la scrima
Del verso e della rima,
E in quel concilio d’aquile
Nessun mi numerò.
Belava
un’effemeride:
«Volgi ad amor
gl’inchiostri!»
Ruggiva un periodico;
«Vendica i dritti
nostri!».
Sclamava una rivista:
«Canta materia mista!».
E il suo bastardo simbolo
Ognun mi balbettò.
Io, spinto fra le
cattedre
Di Caifa e di Pilato,
Che far potea? Sugli omeri
Mi son ravviluppato
La veste d’Ecce homo,
E, pubblicando un tomo,
Spiegai, bruchetto
incognito,
L’ali iridate al sol.
Greche e romane
forbici
Fûr su quell’ale in guerra.
Quanto superbo scandalo
Fra i Danti di mia terra!
Dalle laringi dotte
Schiattâr pustéme e gotte;
Diede itterizie e coliche
Di quel bruchetto il vol.
Senza sentir più
redine,
Senza voler più freno,
Corsi a Milan col rotolo
Di Edmenegarda in
seno,
E a ricercar mi mossi
Manzoni, il Torti, il
Grossi,
Fissai la trinità.
Ed ella, austera e
candida
Come le sante cose,
Al novo catecumeno
Covò le prime rose.
E, quando acuta e fina
Me ne ferì la spina,
Ebbi alle piaghe i dìttami
Talor della beltà.
Povero pazzo! i
memori
Fogli sigilla e taci.
Fatti allo specchio, e
merita
Sol della musa i baci.
Così non dissi allora
Che mi ridea l’aurora;
Or che s’infosca il vespero,
Comincio ad insavir.
Ma intanto accuse e
strepiti
Mi si moveano intorno.
Oh! fosse morto, al nascere,
Della mia fama il giorno?
Petrarchi e Tassi frusti,
Caproni e bellimbusti
Fêr sinagoga il despota
Monello a maledir.
Uno inventò le
favole,
Un altro le diffuse;
Chi sporse il monosillabo,
Chi pronto lo conchiuse,
E dietro al dâlli! dâlli!
Gl’insulsi pappagalli
Sul trivio ancor cinguettano
Le ree stupidità.
Sino frugâr nel
tumulo
Dove tu dormi, Elisa,
E ti compianser vittima
Da’ miei tormenti uccisa;
Sorgi dall’erma bara,
Ombra sdegnata e cara;
E del compianto ipocrita
Possa arrossir chi ‘l fa.
Tal m’apparì lo
splendido
Mio mondo. E il pan che
fransi,
Pan tossicato al lievito,
Gittai per terra e piansi;
E imprecai quasi al nume
Che mi vestìa di piume,
Onde agitarle in etere
Livido e reo così.
Poi mi riscossi. E
l’anima
Fatta matura e il piede,
Ebbi dal duol più libere
Note, più forte fede,
E camminai. Le spalle
Portâr la croce al calle,
E il cireneo del Golgota
Per me non apparì.
Meglio. Chi pensa e
spasima
E non consente al duolo,
Per nude pietre e triboli
Dee camminar da solo.
E camminai. Sul viso
De’ manigoldi ho riso,
E di più bei fantasimi
Il cor mi scintillò.
Addio, febei
mirmidoni,
Macre spennate piche,
Addio, volanti retori
Per forza di vesciche:
Latrami contro, o grulla
Prosopopea del nulla;
Fuor di tua riga i cantici
Erato mia pensò.
Ruppe le sacre
tenebre
D’Antèla e Mantinea;
Conobbe il sasso e i salici
Di Leutra e di Platea;
Del Simoenta al margo,
Là sulla polve d’Argo,
Sentii di Smirna l’angelo
E per l’Egeo tuonar.
Tu, musa mia, la
cenere
Del Ghibellin baciasti;
Tu solitaria visiti
La cameretta d’Asti,
Vaga di freschi allori,
Le antiche glorie onori,
Pensi all’Italia, e vigili
De’ padri miei l’altar.
Lasci una vil
politica,
Rosa da tigne e tarpe,
A chi la vende e compera,
Come l’ebreo le ciarpe;
E, in bassi ed alti scanni
Fisando i tuoi tiranni,
Ogni giustizia vendichi,
Fai sacro ogni dolor.
Chiuso nei polsi un
rivolo
Del sangue d’Alighiero,
Armi di meste collere
Il tuo civil pensiero,
E, quando il dio ti spira
Fra i nervi della lira,
Tu squarci alla fatidica
Delfo i silenzi ancor.
Deh! non cader. Se
un ebete
Vulgo t’offende, oblia.
Lanciò la fatua Solima
Le pietre in Geremia,
E la dardania prole
Rise le illustri fole,
Che pur carpia la vergine
Cassandra all’avvenir.
E fu Sionne un
cumulo
Di sassi e di vergogna;
E sugli iliaci ruderi
Sta il corvo e la cicogna.
O musa, i fior, che a nembo
Lasci cader dal grembo,
Possan sull’atrio ai
posteri,
Non su macerie olir!
E voi smettete il
mugolo,
Spadoni imbrattacarte,
Ch’ella con veglie e lacrime
Fe’ sua la fede e l’arte,
E già da voi ghirlanda
Non sogna e non dimanda,
Perché di malve e d’alighe
Non vuoi fregiarsi il crin.
Canta; e cantando
arridimi,
Tu de’ miei dì sorella;
Astro nel ciel; sul pelago
Volante navicella;
Al petto inerme e nudo
Gentil lorica e scudo;
Nome al mio nome; e lampana
Sul mio sepolcro alfin.
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