E fuor balzò dal
rugiadoso arbusto
Sui margini, l’obliqua aura
d’un nume
Con sè recando, in nudità di
fiera,
Il Caprigena insigne.
Ei quel viluppo
Reggea di strane inopinate
forme
Su due tibie di becco: irta
dal mento,
Quasi fastel d’acuminati
spini,
Gli uscìa la barba; gli
lustravan gli occhi,
Com’usa agli ebri: e mal
dissimulate
Fiorian le corna dalla
scabra chioma.
Pria, cupido, cercò
negli odorosi
Ginepri e fra le dense alghe
del rivo
Qualche driade o napea,
forse in quel punto
Dalle labbra villose e dai
lacerti
Ita in fuga del nume. E dopo
indarno
Ritentata la frasca e corsi
in giro
I verdi calli, a’ piè d’un
giovinetto
Salcio ei corcossi e in un
profondo sonno
Giacque sommerso.
Allor due belle e bianche
Ninfe da una vicina elce a
quel loco
Venner danzando: ed una
esser l’ancella
Parea dell’altra, che
sospese a tergo
Le frecce d’oro, il
portamento e il viso
Palesavan reina.
«Ecco il soave,
Dïana madre, rapitor futuro
Del mio cintiglio! E sarà
ver ch’io deggia
Mescolarmi a costui?»
«Giove lo ha detto,
E nè il ciel nè l’averno,
Inide cara,
Espugnò mai la volontà di
Giove.
Quando in candido cigno a te
converso
Fu il Re de’ Numi, e ti velò
coll’ali,
Perché indignarlo? e ai
talami divini
Esser ribelle? Da quel
giorno al fiero
Satiro il padre dell’Olimpo
in donna
T’ha destinata: e da costui
tu fuggi
Vanamente, o fanciulla. Io,
che conobbi
Le tue caste vigilie e la
tua fede
All’arcano mio rito, io però
farti
Posso un incanto e la tua
forte pena
Disacerbar».
«Non indugiarmi, prego,
Madre, l’aita».
«È in questo bosco un’erba,
Che qual la chiude in bocca
e va sognando
Nove parvenze, in verità le
mira
Come le sogna. E tu non il
deforme
Satiro, ma il desio della
tua mente
Abbraccerai».
«Dov’è quell’erba, o madre,
Dov’è quell’erba?»
«In questa siepe. Allunga
La nivea mano a quei due
muschi: or vedi
Il fil vermiglio che su lor
si piega?
Tu l’hai già côlto. Addio».
Così disparve
Dïana madre, e il Satiro le
ciglia
Slegò dal sonno.
Il glorïoso intanto
Apolline di Frigia era nel
vivo
Pensier della fanciulla
affigurato,
Della fanciulla, che tenea
già chiuso
Il filo d’erba nella rosea
bocca.
E, veduto il Caprigena
levarsi
Colle forme di Febo ed
assalirla,
Sparso d’un lume che parea
celeste,
Gli cascò nelle braccia.
Ahi, breve inganno!
Ma breve, ahi quanto e
lacrimabil sempre!
Chè, mentr’ella sentia nel
grande amplesso
Perir di sua virginità la
rosa,
Ed insana l’obblio
dell’universo
In un bacio d’amore iva
suggendo,
Le fuggì dalle labbra,
incustodita,
La magich'erba. Un gemito
ella mise,
Gemito orrendo, a
contemplarsi avvinta
Col mostrüoso Iddio. Nelle pupille
Sentì nuotar la moribonda
luce,
E più non vide nè il lascivo
amante,
Nè il bel riso de’ cieli.
Ivi, sui muschi,
Dormì la dolce estinta insin
che il raggio
Di Febo, il raggio che sì
mal le piacque,
Vestì, morendo, di purpureo
lume
La nivea spoglia: e, quando
umide a valle
Calaron l’ombre e la falcata
luna
Posò sui monti, alla funerea
gleba
Venne Diana colle ninfe, e
al clivo
Portar la giovinetta e di
giunchiglie
Le formaron la fossa.
Il detestato
Satiro, intanto, s’ascondea
nel cavo
Sen d’una quercia, a
contemplar le bianche
Sacerdotesse in quell’amabil
rito.
Quanto al Saturnio
Giove, ei nel sereno
Regno d’Olimpo si facea la
tazza
Colmar d’ambrosia; e al
bevitor celeste
Nome ignoto sonò d’Inide il
nome.