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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • INIDE E IL SATIRO
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INIDE E IL SATIRO

E fuor balzò dal rugiadoso arbusto

Sui margini, l’obliqua aura d’un nume

Con recando, in nudità di fiera,

Il Caprigena insigne.

                        Ei quel viluppo

Reggea di strane inopinate forme

Su due tibie di becco: irta dal mento,

Quasi fastel d’acuminati spini,

Gli uscìa la barba; gli lustravan gli occhi,

Com’usa agli ebri: e mal dissimulate

Fiorian le corna dalla scabra chioma.

Pria, cupido, cercò negli odorosi

Ginepri e fra le dense alghe del rivo

Qualche driade o napea, forse in quel punto

Dalle labbra villose e dai lacerti

Ita in fuga del nume. E dopo indarno

Ritentata la frasca e corsi in giro

I verdi calli, a’ piè d’un giovinetto

Salcio ei corcossi e in un profondo sonno

Giacque sommerso.

                        Allor due belle e bianche

Ninfe da una vicina elce a quel loco

Venner danzando: ed una esser l’ancella

Parea dell’altra, che sospese a tergo

Le frecce d’oro, il portamento e il viso

Palesavan reina.

                        «Ecco il soave,

Dïana madre, rapitor futuro

Del mio cintiglio! E sarà ver ch’io deggia

Mescolarmi a costui?»

                        «Giove lo ha detto,

E il ciel l’averno, Inide cara,

Espugnò mai la volontà di Giove.

Quando in candido cigno a te converso

Fu il Re de’ Numi, e ti velò coll’ali,

Perché indignarlo? e ai talami divini

Esser ribelle? Da quel giorno al fiero

Satiro il padre dell’Olimpo in donna

T’ha destinata: e da costui tu fuggi

Vanamente, o fanciulla. Io, che conobbi

Le tue caste vigilie e la tua fede

All’arcano mio rito, io però farti

Posso un incanto e la tua forte pena

Disacerbar».

              «Non indugiarmi, prego,

Madre, l’aita».

              «È in questo bosco un’erba,

Che qual la chiude in bocca e va sognando

Nove parvenze, in verità le mira

Come le sogna. E tu non il deforme

Satiro, ma il desio della tua mente

Abbraccerai».

              «Dov’è quell’erba, o madre,

Dov’è quell’erba

              «In questa siepe. Allunga

La nivea mano a quei due muschi: or vedi

Il fil vermiglio che su lor si piega?

Tu l’hai già côlto. Addio».

                        Così disparve

Dïana madre, e il Satiro le ciglia

Slegò dal sonno.

                        Il glorïoso intanto

Apolline di Frigia era nel vivo

Pensier della fanciulla affigurato,

Della fanciulla, che tenea già chiuso

Il filo d’erba nella rosea bocca.

E, veduto il Caprigena levarsi

Colle forme di Febo ed assalirla,

Sparso d’un lume che parea celeste,

Gli cascò nelle braccia.

                        Ahi, breve inganno!

Ma breve, ahi quanto e lacrimabil sempre!

Chè, mentr’ella sentia nel grande amplesso

Perir di sua virginità la rosa,

Ed insana l’obblio dell’universo

In un bacio d’amore iva suggendo,

Le fuggì dalle labbra, incustodita,

La magich'erba. Un gemito ella mise,

Gemito orrendo, a contemplarsi avvinta

Col mostrüoso Iddio. Nelle pupille

Sentì nuotar la moribonda luce,

E più non vide il lascivo amante,

il bel riso de’ cieli.

                        Ivi, sui muschi,

Dormì la dolce estinta insin che il raggio

Di Febo, il raggio che sì mal le piacque,

Vestì, morendo, di purpureo lume

La nivea spoglia: e, quando umide a valle

Calaron l’ombre e la falcata luna

Posò sui monti, alla funerea gleba

Venne Diana colle ninfe, e al clivo

Portar la giovinetta e di giunchiglie

Le formaron la fossa.

                                   Il detestato

Satiro, intanto, s’ascondea nel cavo

Sen d’una quercia, a contemplar le bianche

Sacerdotesse in quell’amabil rito.

Quanto al Saturnio Giove, ei nel sereno

Regno d’Olimpo si facea la tazza

Colmar d’ambrosia; e al bevitor celeste

Nome ignoto sonò d’Inide il nome.

 




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