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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • FRAMMENTO D’ELLADE
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FRAMMENTO D’ELLADE

Et mare fatigerum et claras veneremur Athenas;

Nata Jovis.

Ospite all’onde sacre, e pieno gli occhi

Del greco sole, armilucente Atena,

Già non vedrò, come bramai gran tempo

Nel sogno mio, le tue beate rive

Prima di morte. Ma quel ch’io ponga

Questo duro mio fascio, anima amante

Volerò, tu vedrai con che sospiri,

Verso il tuo cielo a visitar le belle

Fontane d’Ascra e i ricordati al mondo

Attici campi. O Venere divina,

Tu, precedendo, al pellegrin quel giorno

Mostrerai di Citèra e d’Amatunta

I giocondi roseti e su per l’erba

Rugiadosa di Teo le danzatrici

Candide Grazie. E tu degli occhi azzurra

Palla cecropia il tèssalo macigno

E la funerea Maratonia proda:

Sentirò di Talìa novellamente

Sull’aristofanèo labbro l’arguta

Celia e vedrò le olimpiche quadrighe

E i vincitori e il garzoncel di Tebe

Che col libero alato inno li eterna.

Me Clio traëndo pel diverso lido,

«Qui, mi dirà, fu Prometèo da immani

Vincoli attorto e il fegato immortale

La funesta gli rode aquila ancora.

Qui ruppe i veli della Sfinge arcana

Edipo triste: e qui giurâr gli Atrìdi,

Mentre rompea l’infame Elena i flutti,

Lo sterminio dell’Asia: e il patrio ferro

Qui truce al cor d’Ifìgenìa discese,

E dal virgineo gemito placati

Fûro della nembosa Aulide i venti.

A questi intorno benedetti sassi

Arder fu vista la gentil battaglia

Di Mantinèa quando il Teban dal petto

Trasse la freccia e di superba morte

Impallidì. Son queste Itaca e Pilo,

Argo e Micene. Il telamonio Aiace

Qui fulminò. Da quelle auguri selve

Calar le travi per le frigie antenne

Che trassero l’arcana Ilio ai promessi

Saturni campi onde fu Roma».

Oh! quando

Veder m’avvenga i vesperi soavi

Di Tempe e il Sunnio radïoso; Oh! quando

Spirar mi tocchi sulla sacra Cea

L’aura d’Omero e nei mirteti io senta

Il sommesso tubar delle colombe

E baci in fronte la mia madre antica

Ellade grazïosa, Ellade prode.

Ma te fra tutte le sognate larve

Del greco Eliso cercherò piangendo,

Figlia di Lesbo. Ti diè Giove il canto,

Non la bellezza: e tu perivi. Ha pochi

La umana sede impavidi e gentili

Che allo sfregio d’amor san far risposta

Qual tu la festi, I morbidi Fäoni

Coronati di fior cercan ridendo

Molli cene e triclinio, e dalle brune

D’asfodillo e di rosa anfore avvolte

Bevon l’oblio dei talami traditi.

Ma chi in ira de’ Numi il natale

Ebbe, diverte dall’ambrosia luce

Le imperterrite ciglia e abbrevia il passo.

«Addio, stelle; addio, mar; questa cocente

Fiamma che m’arde spegnerò nell’acque

Del vasto Egèo. Ma te, sia che ti porti

Nave o corsier per le città maligne,

Seguirò pallidombra insin che spenta

La bella gioventù delle tue forme

Tu il capo imbianchi e favola sii reso

Alle greche donzelle. Allor la piaga

Ch’oggi all’Orco inestinta ahi m’accompagna

Sentirò vendicata: e prego i Numi

Sin d’or che l’erba dove morto giaci

Sia pastura di corvi e fior non nasca

Che a nutrir le ceraste».

In questa forma.

Ti restò dietro la nefanda rupe,

Misera!, e il gorgo dell’Egèo ti chiuse.

Or di te che riman ? Qualche frammento

Dell’Odi innamorate: uno o due segni

D’italo carme e d’italo scalpello,

È poi, Lesbia divina, un ingiocondo

Stupor di pappagalli a cui non punge

La memoria di te se non quel tanto

Che punge una zanzara in roseo dito.

E fors’anco il nocchier ch’oggi fa vela

Dove moristi, nel cristal dell’acque

Mira lo scoglio, ma sbadato il varca.

Sul vecchio mondo la faccenda nova

Sorge arrogante e il suo gran non spreca

Dietro a fantasmi.

Dei cerulei flutti

Deh! posa in grembo, o naufraga divina:

Non veder, non udir t’è gran ventura.

 




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