Et mare
fatigerum et claras veneremur Athenas;
Nata Jovis.
Ospite all’onde sacre, e pieno gli occhi
Del greco sole, armilucente Atena,
Già non vedrò, come bramai gran tempo
Nel sogno mio, le tue beate rive
Prima di morte. Ma quel dì ch’io ponga
Questo duro mio fascio, anima amante
Volerò, tu vedrai con che sospiri,
Verso il tuo cielo a visitar le belle
Fontane d’Ascra e i ricordati al mondo
Attici campi. O Venere divina,
Tu, precedendo, al pellegrin quel giorno
Mostrerai di Citèra e d’Amatunta
I giocondi roseti e su per l’erba
Rugiadosa di Teo le danzatrici
Candide Grazie. E tu degli occhi azzurra
Palla cecropia il tèssalo macigno
E la funerea Maratonia proda:
Sentirò di Talìa novellamente
Sull’aristofanèo labbro l’arguta
Celia e vedrò le olimpiche quadrighe
E i vincitori e il garzoncel di Tebe
Che col libero alato inno li eterna.
Me Clio traëndo pel diverso lido,
«Qui, mi dirà, fu Prometèo da immani
Vincoli attorto e il fegato immortale
La funesta gli rode aquila ancora.
Qui ruppe i veli della Sfinge arcana
Edipo triste: e qui giurâr gli Atrìdi,
Mentre rompea l’infame Elena i flutti,
Lo sterminio dell’Asia: e il patrio ferro
Qui truce al cor d’Ifìgenìa discese,
E dal virgineo gemito placati
Fûro della nembosa Aulide i venti.
A questi intorno benedetti sassi
Arder fu vista la gentil battaglia
Di Mantinèa quando il Teban dal petto
Trasse la freccia e di superba morte
Impallidì. Son queste Itaca e Pilo,
Argo e Micene. Il telamonio Aiace
Qui fulminò. Da quelle auguri selve
Calar le travi per le frigie antenne
Che trassero l’arcana Ilio ai promessi
Saturni campi onde fu Roma».
Oh! quando
Veder m’avvenga i vesperi soavi
Di Tempe e il Sunnio radïoso; Oh! quando
Spirar mi tocchi sulla sacra Cea
L’aura d’Omero e nei mirteti io senta
Il sommesso tubar delle colombe
E baci in fronte la mia madre antica
Ellade grazïosa, Ellade prode.
Ma te fra tutte le sognate larve
Del greco Eliso cercherò piangendo,
Figlia di Lesbo. Ti diè Giove il canto,
Non la bellezza: e tu perivi. Ha pochi
La umana sede impavidi e gentili
Che allo sfregio d’amor san far risposta
Qual tu la festi, I morbidi Fäoni
Coronati di fior cercan ridendo
Molli cene e triclinio, e dalle brune
D’asfodillo e di rosa anfore avvolte
Bevon l’oblio dei talami traditi.
Ma chi in ira de’ Numi il dì natale
Ebbe, diverte dall’ambrosia luce
Le imperterrite ciglia e abbrevia il passo.
«Addio, stelle; addio, mar; questa cocente
Fiamma che m’arde spegnerò nell’acque
Del vasto Egèo. Ma te, sia che ti porti
Nave o corsier per le città maligne,
Seguirò pallid’ombra insin che spenta
La bella gioventù delle tue forme
Tu il capo imbianchi e favola sii reso
Alle greche donzelle. Allor la piaga
Ch’oggi all’Orco inestinta ahi m’accompagna
Sentirò vendicata: e prego i Numi
Sin d’or che l’erba dove morto giaci
Sia pastura di corvi e fior non nasca
Che a nutrir le ceraste».
In questa forma.
Ti restò dietro la nefanda rupe,
Misera!, e il gorgo dell’Egèo ti chiuse.
Or di te che riman ? Qualche frammento
Dell’Odi innamorate: uno o due segni
D’italo carme e d’italo scalpello,
È poi, Lesbia divina, un ingiocondo
Stupor di pappagalli a cui non punge
La memoria di te se non quel tanto
Che punge una zanzara in roseo dito.
E fors’anco il nocchier ch’oggi fa vela
Dove moristi, nel cristal dell’acque
Mira lo scoglio, ma sbadato il varca.
Sul vecchio mondo la faccenda nova
Sorge arrogante e il suo gran dì non spreca
Dietro a fantasmi.
Dei cerulei flutti
Deh! posa in grembo, o naufraga divina:
Non veder, non udir t’è gran ventura.