Per le vie più
deserte, in doloroso
Abito bruno e con un vel
sugli occhi,
Passa la bella Edmenegarda,
- e al queto
Lume degli astri si
raccoglie in una
Romita barca e con le sue
memorie
Vaga piangendo.
Misero! che speri,
Se ti percote Iddio? Non è
già il mondo
Grandemente pietoso. Egli al
banchetto
Della tua casa volentier si
reca
E ne sparge di rose i
penetrali;
Ma se il cupo dolor veglia
alla porta,
Non aspettare il solito
conviva,
Ei non verrà!
La bella Edmenegarda
Gioì superba i maritali
amplessi,
E sulla fronte di due biondi
figli
Depose un dì senza terror le
sue
Non colpevoli labbra: e chi
sa quante
Donne quei baci invidiâr
tremando!
Ella era lieta nel felice
stato.
Ma il geloso
Avversario d’ogni bene
Consumò la sua gioia; e il
fatal giorno
Che si sentì la misera per
l’ossa
Serpere il novo affetto, e
la battaglia
Troppo forte le venne, a Dio
si volse
Delirando e sclamò: «La tua
tremenda
Volontà sia compiuta!» - Era
la canna
Dal turbine già franta, e
sotto ai morsi
Del livido colùbro il
fiorellino
Si sperdeva alla terra.
Oh! sull’afflitto
Giovine capo la terribil
pietra
Non lanciatela voi, che
tante volte
Perdonati cadeste! e nella
polve,
Così percossi dal dolor, vi
parve
Anco la gioia dei felici
insulto! —
Ricco era e bello di viril bellezza
Lo sposo a Edmenegarda. Un
incolpato
Nome d’Anglia recava; i suoi
silenzi
Lunghi; forti gli affetti;
accostumata
A non mutar propositi la
mente,
S’anco gemesse la ragion del
cuore.
A molte donne della sua contrada
L’altera e disdegnosa indole
piacque.
Ei non curò.
Ma nella dolce terra
D’Italia nostra un dì fisse gli
ardenti
Lampi degli occhi a
Edmenegarda in viso.
Era il loco romito,
il sol morente
E inchinevoli l’alme alla
tristezza.
E’ le piacque e fu
suo. Parea tessuta
Dal paradiso la gentil
catena.
Ed ei l’amò di
quell’amor che vince
Ogni memoria di passata gioia,
Ogni speranza di futuro
bene!
Tremendo amor, che, quando
fugge, insolca
Profondamente l’anima di
sangue!
Che sì celere passa. Ispido
verno
(Né sarà tardi)
occuperà le vostre
Vedovili giornate, e
orribilmente
Vi farà scarni, vipera
dell’alma,
La rimembranza. Miseri!
suggete
L’ultima stilla del celeste
nappo.
Chi ve la turba… impenitente
spiri!
— Ben t’avvenga, o dei dogi inclita sposa,
Lïonessa terribile dei mari!
Eri pur or sul tuo
letto di rose
Come un’egra gentil, cui
sotto l’ombra
Di dolorosi salici, a
rilento
Si consumano i dì. Ma un
fresco e nuovo
Alito ancora i belli occhi
morenti
Ringiovanisce, e sulle forti
chiome
Ti splende un raggio della
gloria antica.
Oh! tu sei veramente
il più leggiadro
Fior dell’Italia, a cui la
riverente
Malinconia dello stranier
s’inchina,
Mistico fior che in mezzo
all’acque vivi!
Ben meritava
Edmenegarda bella
Di sorriderti appresso, e,
sul materno
Petto serrando le soavi
teste
De’ suoi fanciulli giocondar
la fiera
Alma d’Arrigo!
— «Oh, vedi come azzurro
Il ciel, placide l’acque! Mi
lusinga
Un desiderio di recarmi a
Lido.
Ci verrai tu?»
«Non posso.
«Oh che? tel vieta
Qualche dolce ritrovo?» — (e
sorridendo
Gli accarezzò le chiome).
«Edmenegarda,
Va’ tu».
«Sola?»
«Che temi?»
«È tristo il mondo
Ed io fragile troppo! — E
ancor sorrise
La infortunata). — E poi… da
te disgiunta
Andar m’accora».
«A rivederti. Il cielo
E il mar t’inebrii di sue
forti gioie;
Poi riedi a me. Mi troverai,
tel giuro,
Sposo recente!»
«In ver? Novo portento
Già non sarebbe!»
«La superba!… Addio.
Fatele guardia, o
fanciulletti!…» —
Scherzoso favellar termine
pose
Un’armonia di baci. In
aspettando,
Canticchiava il nocchier
sulla sua barca.
Arrigo strinse la diletta al
core;
I bambini traendosi per
mano,
Edmenegarda scese.
Onde del mare,
Contrastatele il varco! Aure
del cielo,
Convertitevi in turbine! Non
possa
La infelice, non possa! Urti
piuttosto,
Sdruccioli, cada il remator
nell’acque…
Le muoia un bimbo!… Ma che
val? — Terrena
Prece non muta i preparati
eventi.
Ride il ciel, ridon
l’acque, i due bambini
Ridono anch’essi, il
gondolier prosegue
La sua canzone; Edmenegarda
pende
Sul negro abisso. E son
tutti d’amore
E son tutti di pace i suoi
pensieri.
Dalle molli rapita ale de’ venti,
Tocca a Lido la prora. E se
non fosse
Prepotenza de’ fati,
un’altra volta
Io pregherei che ti
spezzasser l’onde,
Malvagia barca, tutti
tranghiottendo
Questi innocenti — a
dissipar le fila
Dell’orrendo peccato. A te
da canto
Susurra, o donna, l’angelo
caduto
Tenebrose lusinghe; e una
fatale
Malinconia nel core
insinüarsi
Tu senti già. Meglio per te
sarebbe
Un tempestoso delirar di
sensi,
Che ti gittasse al marinaio
in braccio.
Schifosa e breve durería la
colpa!
Ella prese i fanciulli e lentamente
Venne sul lido. Nuda e
desolata
È quella terra; e di romite
pietre
Sparsa all’intorno. Non le
onora un segno,
Non le guarda una croce:
eppur custodi
Stanno colà d’una progenie
estinta.
Eternamente le percote il
vento,
Eternamente le flagella il
mare,
A ricordar che su quel cener
pesa
La sentenza di Dio. Ma l’uom
superbo
Guai se calpesta quelle
pietre e ride.
Dopo l’ora mortal
non ha la creta
Verità di giudizio; e
agonizzante
Cristo pregò dalla
sua croce a tutti
Il perdono del Padre!
Inculte rose,
Pochi e pallidi gigli erano
intorno
A quei nudi sepolcri.
Oh dilicata
E arguta e forte cortesia di
donna!
Edmenegarda il piè
dei fanciulletti
Rimovea da quei fior seco
pensando:
«I figli miei non vi
torranno, o meste
Urne, l’unica gioia, onde si
mostra
Liberale alle stanche ossa
la terra!»
E sospirò come chi
pensi al prezzo
D’una cara pietà nei
faticosi
Dí del dolore.
Un suo bimbo, seguendo
Con trepido desío per quella
costa
Il vol d’una solinga
farfalletta,
In una zolla incespicò.
Vi narro
Comuni istorie: ma son
questi i lievi
Stami che annodan l’avvenir.
Sorgiunse
Tempestiva la madre e il
vispolino
Trepidando garrì. Ma in
quelle strette
Paurose dell’anima, non vide
Che disciolto da’ polsi un
vezzo d’oro
Nelle morbide zolle era
caduto.
Con certo vago non
curar dipinta
Su vi splendea l’immagine
d’Arrigo,
Bruno, superbo, dispettoso e
bello.
Giorno e notte
compagno ella si tenne
Quel diletto ornamento! ed
or tra l’erbe
Miste d’un giglio egli
smarrito giace
Presso l’avel di giovinetta
ebrea,
Morta d’amore. Ricomposti
alquanto
I conturbati spiriti,
s’accorse
Edmenegarda della rea
ventura,
E ne tremò come di lungo
affetto
Che improvviso si rompa. E
il suo fanciullo
Riguardò corrucciata.
— «Oh tu perdesti,
Mamma, il tuo vezzo!»
«E tu cagion ne sei.»
«Si, veramente» (con voce di
pianto
Proruppe il bimbo).
«Non turbarti, o caro:
Il troverem. Ma voi vi
trastullate
Là su quell’erbe.
Cercherollo io sola.
Il buon Iddio già
non vorrà che io peni
Più lungamente». —
Spensierati al gioco
Obliarono tutto i due
bambini.
Edmenegarda con rotti sospiri
E tormentosa avidità
cercava.
Avrìa gemuto ogni più scabro
petto
A contemplar quella dolce
persona
Di qua, di là gittarsi
incertamente,
Curva, carponi, e con le
mani bianche
Frugando in mezzo all’erbe e
per le spine,
E tra il vel delle lagrime
le ardenti
Pupille sulla terra
affaticando.
Non lontano da lei terribilmente
Batteva un core a rimirar
quegli atti.
«Eccola! E indarno, indarno
sempre il sogno
Della mia vita io seguirò!
Né un guardo,
Né un sol guardo di lei
questa profonda
Febbre, che m’arde,
acqueterà! Che spero?…
Vedi iniqua fortuna?
Ella ha smarrito
Qualche sua dolce cosa, e
gli affannati
Occhi volge alla terra. Oggi
soltanto
Le son sì presso… e non mi
vede! Oh sia
Maledetta la cosa che a sè
tira
Le ostinate pupille e
inganna il lungo
Mio desiderio! Mordere le
possa
I bei diti una serpe, onde
sollevi,
Almen gemendo, quell’amato
capo!
Una volta, una volta
ella mi veda
Così scarnato e misero per
lei!»
In queste voci di dolor proruppe
Il giovine Leoni.
Era
di casa
Patrizia nato. Tra follie
consunse
L’età ridente. Nelle bische,
ai balli
Splendea su tutti e
beffeggiava il casto
Sospir dei fidi o non felici
amanti.
Ma nel viso gentil
d’Edmenegarda
Un dì scontrossi e ne tremò.
Del suo
Turbamento si rise, e non
pertanto
Anelò rivederla: e una
cocente
Torbida fiamma al fatuo cor
s’accese.
Da quell’ora solingo egli
passeggia;
Non più lieti convegni,
orgie notturne,
Riso e feste d’amici. Arde
il leggiero
Schernitor degli affetti;
arde. La cerca,
La perseguita ovunque, e se
per caso
Un lampo de’ suoi belli
occhi rapisce,
Gela ed avvampa di convulsa
ebbrezza.
A lui la notte, in pria
fredda e deserta,
Or tutta è un sogno del
celeste viso,
E il giorno un’acre voluttà
superba
Di ricomporlo nell’ardente
idea.
E come in quell’istante ogni movenza
D’Edmenegarda, e le fuggenti
trecce,
E il fluttüar degli
scomposti veli
Ei divorava!
— «Quanta cura!… Or dunque
Smarrito ha il paradiso?»
E anch’ei si pose
Sdegnosamente a ricercar. Né
appena
L’orme e gli occhi per caso
avea sospinti
Presso l’avel della
fanciulla ebrea,
Che sotto al gioco
dell’obliqua luce
Un lampo uscì dalle non
peste zolle,
Il vezzo è già nella
sua man. Vi scôrse
Le sembianze d’Arrigo. A
Edmenegarda
Volò.
— «Guardate!… Io lo trovai!… Guardate
Aman tutti, — ed io
solo, io senza amore
Passerò dalla terra!»
E nei
convulsi
Moti dell’ira il fatal vezzo
infranto,
Gittollo ai piedi della
donna e sparve.
Fu l’opera d’un punto. Ella non seppe
Domar gli occhi; il mirò; di
nessun’altra
Cosa le calse; piangere
l’intese…
E a goccia a goccia come
piombo ardente,
Nei tumulti del core
impäurito
Sentí stillarsi quel
terribil pianto.
Ne gemettero gli angeli. Percossa
Quell’infelice dall’orrendo
caso,
Si stringe a’ figli; ma
sudor le gronda
La chioma e il volto, e
gelido è l’amplesso.
Tenta pensar
d’Arrigo; ma turbata
Le traballa l’imagine alla
mente;
Tenta pregar; non puote.
Intorno gli occhi
Slancia tremando; li
raccoglie ai figli.
Gli apre, gli chiude, misera!
non puote,
E gli apre ancora avidamente
e cerca…
Chi?… Piangetene, o cieli!
Consumata,
Consumata nell’anima è la
colpa.
Ed ahi sí presto!
Che misteri asconde
Di dolor, di fortezza e di
peccato
Questa superba e lagrimabil
creta!
Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.
O Edmenegarda, il
demone con molte
Fatiche ha comperato la sua
preda;
Per anni molti ei la vorrà.
Che importa
Se tu ti slanci al tuo legno
fuggendo?
Che importa, se la
bruna navicella
Va come lampo, e pur gridi
affannata
Al remator che acceleri la
corsa?
Che val, se il tempo col
desío divori?
Tendi gli orecchi.
Non ti fêre un novo
Romor nell’acque? Volgiti!
non odi?
Come larva notturna, che persegue
L’agitato pensier del
viandante
E gli fa tardo il passo, il
respir greve,
Or rotti or doppi i battiti
del core,
Presso il navil
d’Edmenegarda un altro
Venía solcando; e la
medesim’onda,
Che dall’uno, dall’altro era
percossa.
O Edmenegarda, volgiti! non
odi?…
Ahi, che duro pallor t’ha
ricoperta!
Che abbandono di sensi!
I tuoi fanciulli
Ti credono dormente, e si
fan cenno,
Ponendo il dito sulle rosee
bocche,
Di non turbarti quell’amabil
sonno.