Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi
Vagola e trema sugli azzurri
flutti
Con la pietà d’un fuggitivo
amante
Il sol che muore: ed un suo
raggio estremo,
Ferendo i vetri alla romita
stanza
Posa sul crin d’Edmenegarda.
Oh sole,
No, non lasciarla. Anche su
lei risplendi;
È bella ancor questa
colpevol fronte.
Simigliante ad un naufrago, che manda
L’ultimo grido, e vinta la
persona,
Le disperate mani incrocia
al petto
E piega il capo sotto l’onde
e spira;
Così la combattuta
Edmenegarda
Col suo dolce peccato ahi!
s’addormenta.
«Tutti son lungi; ed io qui
sola il noto
Rumor sospiro degli amati
passi!
E ancor non viene!
Ei non dovria lasciarmi
Il mio Leoni a questo tetro
sogno.
Non teme ei forse ch’io
svegliar mi possa?
Sì consumata nel fallir
sarei?…
Oh infame il giorno
che mi fûr recate
Queste note d’amore!!»
E su dal seno
Una lacera carta ella traendo,
V’infisse i lumi; la baciò;
la strinse
Tra le palme e gemette.
«Io ben rammento
Che, appena l’ebbi, la
gittai nel foco…
Ma estinto il soffio del
dimòn l’avea.
Lungo era l’atto a lacerarla
intera…
Io nol potei!»
Che sogna la demente?…
Arsa l’avrebbe?… Ah,
se stridea la fiamma
Lí pronta a divorarla, indi
ritorti
Avrìa gli occhi la misera. E
se un primo
Impeto pur ve la traea,
sparmiato
Già non avrebbe le sue belle
vesti
E le man dilicate, onde
salvarla
Dalle subite vampe.
Oh! qual periglio
Può rattener la donna
innamorata,
Quando la punge quell’acuto
immenso
Empio patir?
Deh, non parlar di queste
Crëature sì fragili e
possenti,
Tu non nato ad intendere che
il vile
Gaudio d’averle e d’oblïarle
sempre!
«Duro è l’indugio. E ancor
non vien!»
Si
desta
Da lunge un’eco: Edmenegarda
ascolta
Avidamente; le si fan le
gote
Porpora viva… Il suo Leoni è
giunto.
«— Addio, diletta!»
Ella si tacque; e un
lungo
Sospir traendo, con le molli
braccia
Gli cinse il collo e lo
baciò.
— «Divina
Sei veramente! Durassero
eterne
Quest’ore! Stolto! io non
credea che tanta
In sé chiudesse voluttà la
terra!…
Dov’è sembianza che alla tua
somigli?
Chi non daria per queste
chiome un regno,
Per baciar mille volte,
com’io faccio,
Queste tue chiome, e a forza
di baciarle
Stemperarsi d’amor, com’io
mi stempro?…
Sì, Edmenegarda!…
Piega la tua testa
Qui sul mio cor!… Deh, senti
come batte
Un cor d’Italia… Ah, questi
miei non sono,
Non son gli amplessi del
superbo Inglese…»
«— Leoni mio, non
proseguir!… Ti prego
A mani giunte, non mi far
morire!…
Troppa è l’ebbrezza che nel
cor mi versi;
Ma per pietà non proferir
quel nome!…
Io non ho forza a
sostenerlo!… Taci!…»
«— Ei ti disama; non t’amò
giammai.
Co’ suoi gelidi modi ei ti
contrista,
Gentil rosa d’amor! Ben
meritava
D’aversi a moglie una
rubesta donna
Delle carniche rupi, e non
la dolce
Edmenegarda mia!»
«Deh! più non dirne;
Mi son pugnale avvelenato
all’alma
Le tue parole! Ei sì ancor
mi ama Arrigo,
Troppo umano e cortese a
questa sua
Miseranda colpevole!… Che
fora,
S’ei risapesse?… Oh mio
Leoni!… Un serpe
Mi rode il core!… Io lo
disamo, io sola;
E si tormenta il misero a
vedermi
Tramutata così!»
Può far portenti
La pietà nei gentili. Ed
ella intensa
La sentia per Arrigo. Arse
Leoni
In quel fiero sospetto: e
sulle labbra
Dal core offeso gli suonâr
parole
Sino allor non proferte.
— «E cieca or tanto
Fatta sei tu?… Veder ne lo
potessi
Sotto i vecchi palagi,
com’io ‘l vidi,
Passeggiar sorridendo! Egli
divora
Tutte degli occhi queste
nostre donne,
E, immemore di te, forse
possiede
Nel suo vil desiderio altre
sembianze,
Che un raggio, un’orma della
tua non hanno».
«— Leoni, è tempo di tacer!»
«Non anco,
Edmenegarda!…
Lasciali i rimorsi
A lui che vola a comperati
amplessi,
E svergogna cosí questo suo
dono.
Non meritato dal Signor!» —
Le guancie
D’Edmenegarda in una calda
fiamma
Si tramutâro.
«Ascoltami, Leoni!
Tu menti; è vano il dubitar;
tu menti!
Deh, così basso non
cader! Non farmi
Più pesante la colpa! Almen
mi lascia
Questa alterezza, che in
vulgar persona
Io non locai l’affetto.
Intender tanto
Non credea dal tuo labbro.
Arrigo è fiero,
Arrigo mio, più di
quant’altri alberga
La vostra Italia. Ei non
sapria macchiarsi
Di gelose menzogne. Egli, il
mio sposo,
Pria di mentir, morrebbe. Or
via, mi guarda;
Gli occhi ho pieni di
lagrime!… Sei pago?»
«— Edmenegarda!… Se le
atroci ambasce,
Che mi schiantano il cor le
risentisse
Una fragile donna, ella
saria
Sepolta già. Dissimular che
giova?…
Voi l’amate, l’amate!»
«Oh così fosse!…
Perchè trarmi dal core anche
il rimorso?»
«—No, Edmenegarda, non lo
dir!… Ma vedi!…
Vedi come per te cieco son
fatto!
Questa indomita
febbre è la mia parte
D’aria e di sole. Io morirei
senz’essa.
Credi, non sente amor chi lo
divide!…
Edmenegarda mia, vile io non
sono!
Questi crudi, che a voi
povere e frali
Insegnaron la colpa, e poi
non sanno
Sentir la gioia dell’avervi
intere,
Paghi d’un bacio che a
sbramar li venga,
Questi tutti son vili!» —
Dallo sguardo
D’Edmenegarda, ai concitati
accenti,
Lampeggiò l’allegrezza; e
intorno al collo
Gli ripose le braccia; e
figli e sposo
Svaniron lenti dalla sua
memoria
Sotto il vel dell’oblio, che
il novo affetto
Continuatamente iva tessendo
Più fitto sempre.
Ma sorrider lieta
Già non sapeva.
— «Oh mio Leoni! Infauste
Giornate il cor mi
presagisce. Ah sempre
Amami, sempre com’io t’amo;
e queste
Parole mie non oblïar. La
terra
Mi tesserà dolori,
avvilimenti;
Io sarò forte a sostenerli.
In core
Mi languirà la prece, e
disperata
Io non cadrò. Se mi mancasse
il pane,
Non saliranno i miei lamenti
a Dio;
Me l’avrò meritato!… Ma, se
mai
Tu… mi lasciassi…»
«Angiolo mio! Quai fole
Per la mente ti passano?
Sorridi,
Edmenegarda. Or via;
caccia dall’alma
Queste vaghe paure!… E non
ti basta
L’amor mio tanto?…»
«Oh sì, mi basta!… E vedi
Ch’io son tranquilla. Ma tu
pur, diletto,
Non affannarmi; non voler
ch’io tremi
Dell’ire tue! Qual gloria
indi n’avresti?…
Che resta a noi, se non
amarci?» —
A queste
Voci d’affetto sospirò Leoni
Di profonda amarezza, ed
esitando
La man le porse, come con
quell’atto
Perdon le dimandasse dello
averla
Contristata così.
Sul core afflitto
Ella serrò la cara mano… e
tacque!
Molti dolori chi molto ama
oblia!
Sceso era già dall’orizzonte il sole
E in grembo alle romite aure
del loco
Movea un suon di reconditi
sospiri
Rotti da qualche inebrïato
accento.
Ma quella sera sulle
dolci mura
Calâr tetri i crepuscoli;
alle imposte
Mugolarono i venti; e sembrò
voce
Quasi di pianto il mormorar
de’ flutti.
Anche l’addio delle tremanti bocche
Alla forzata ilarità del
volto
Non rispose quel dì.
Nelle fatali
Soglie si nascondea la
preparata
Ira del Nume; un innocente
bimbo.
Il sottil laccio tra
la siepe al falco
Ghermisce il collo, e la
invisibil goccia
Colmo alle ripe l’Oceàn
travolve.
Per quelle sale con aerei passi
Trasvolando Leoni, non
s’avvide
Del fanciulletto che di là
per caso
Passava. Urtollo; e il
poverino a terra
Giacque ferito nella bella
fronte.
Leoni come lampo gli
si tolse
Dagli occhi. Accorse alle
dolenti strida
La madre.
— «Oh santa Vergine! Rispondi;
Rispondi; angelo caro. Che
hai tu fatto?…»
«Mamma, non io; ma quel
signor del Lido…»
«—Taci; t’inganni; non è
ver. Non deve
Un bel fanciullo lagrimar.
Se taci
Se non parli ad alcuno, io
ti prometto
Che un bell’abito avrai, ma
de’ più belli
Che si veda in Venezia.» —
Ed asciugando
Il poco sangue del picciolo
viso,
Molte feste gli fece. Alle
carezze
Inusitate da gran tempo, e
al gaio
Promettere, il fanciul
serenò gli occhi
Subitamente; e non finìa la
madre
Di carezzarlo.
Una crudel tempesta
Da molti giorni si mescea
frattanto
Nell’anima d’Arrigo.
Ove fuggito
Era quel dolce, quell’amabil
riso
D’Edmenegarda sua? Perché sì
mesto
Il sonar della voce e sì
frequente
Lo scolorir del volto? onde
quel vago
Svïarsi de’ pensieri e quel
profondo
Compatir delle colpe?… e se
festiva
Talor si mostra, perché mai
traluce
Dalle note e dai gesti un
doloroso
Sforzo dell’alma? la cagion
del fiero
Mutamento qual era?…
Ella altre
volte
D’Arrigo a canto procedea
superba,
L’ondeggiar delle vele e il
varïato
Gioco de’ raggi e il
luccicar dell’acque
Lietamente notando. Ai vaghi
aspetti
Era gelida adesso e di
mirarli
Rifuggìa quasi. Nel
leggiadro core
Altre volte un desio caldo
la punse
Di visitar le insigni opre
dell’Arte
In compagnia d’Arrigo; or da
gran tempo
Non vedea quelle sale; e
senza cura
Abbellìa la persona; e senza
affetto
Educava i suoi fiori.
«In che le spiacqui?
Talor diceasi Arrigo. E
donde nasce
Quel tormentoso infastidir
di tutto?…
Quei rotti sonni?… Quel
tremar talvolta
Nelle mie braccia?… Oh che?…
Forse?…»
E
dal bruno
Fronte gocciava qualche
fredda stilla.
Poi, ripensando alle
celesti gioie
Da Edmenegarda avute; e a
quella tanta
Vita d’amor pei figli; e a
sè guardando
Giovine e bello e da tanti
anni amato
Con timida allegrezza, ebbe
vergogna
Di dubitar.
Né sì profondo infitta
Gli restò come pria dentro
al pensiero
Una persecutrice ombra, che
sempre,
Con la sua dolce Edmenegarda
uscendo,
Su’ lor passi incontrava.
— «Oh l’importuno!
Che pretende
costui?» proruppe un giorno
Con la sua donna Arrigo.
«E che?… Vorresti
Impedirgli la via?» —
Si ricambiaro
Ambo un sorriso; e fu sì
casto e pieno
E confidente, che potea di
mille
Sospettose paure esser
compenso.
Ma quando acuta i
visceri penètra
La vipera del dubbio, ella
consuma
Fieramente la vita, e non è
forza
Ch’indi la tragga. Nel
fervor dei prandi,
Nella vicenda de’ convulsi
giuochi,
Tu crederai di seppellir
quel mostro;
Ma sorgerà. Nelle sonanti
corse,
Tra i tumulti del dì, nella
notturna
Melodia d’un’angelica
canzone
Che di tepido oblìo l’anima
incanta,
Tu crederai di seppellir
quel mostro;
Ma sorgerà. Né sull’altar di
Dio,
Dove si placa ogni tempesta
umana,
La prece e il pianto
t’usciranno in pace.
— «Vieni, Adolfetto mio:
dolce è la sera;
Vieni a San Marco. Vi vedrai
di molti
Vispi fanciulli. Tu sta’
ritto e bello.
Fa’ loro invidia».
Vezzeggiando al padre,
Battè palma con palma il
fanciulletto
Tutto contento, ed abbellir
si fece.
Nero il turbante, come neve
il collo,
Ceruli i guardi, cerula la
veste,
Biondi i capelli, inanellati
e lieve
Per l’omero scorrenti, era
Adolfetto
Un angelico incanto. E parea
nato
Quel soave fanciullo a
render miti
Con la tanta bellezza anche
le fiere.
— Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente
Memorabile e cara alle
pietose
Fantasie del mio cor! Chi
porta gli occhi
La prima volta sull’eterne
torri
Del tuo San Marco e non
sospira, è degno
D’assiderarsi alle perpetue
brume
Del Boristene. Chi
trascorrer lascia
Le gentili tue donne e non
si sente
Rapito all’aria de’
leggiadri aspetti,
Non merta mai bacio
d’amante. E quando
Al grazïoso favellar festivo
Non esilara il cor, l’ultima
Islanda
Io ben dirò che gli fu
madre.
Al
cupo
Tempestar della mente e agli
odii ingrati
Della terra natale, e a
qualche arcano
E tremendo peccato, in
queste tue
Ospiti rive, dopo lunga
guerra,
Trovò riposo un esule; e
talvolta
Brillò la gioia ne’ fulminei
sguardi
Del poeta d’Aroldo.
Alle solinghe
Ore di quella travïata i
canti
Del poeta d’Aroldo eran
compagni.
E quella sera le
correan a forza
La mente e gli occhi sui
dolenti casi
Di Parisina. Alla fatal
lettura,
Ecco repente tramortir la
lampa,
Stridere i vetri: ella
riapre e chiude
Più volte il libro, e
pallida, d’intorno
Sguardando, le parea dalla
oscillante
Parete lampeggiar l’ombra
del duca.
Popolata è la
piazza, e sotto il doppio
Ordin degli archi in
allegria passeggia
La varia gente. Assiso era
col padre
Il fanciullin da un canto. E
con le bianche
Dita sfogliava una recente
rosa
Che la gentil fioraia, in
trapassando
Data gli avea. Dal doloroso
petto
Sospirò Arrigo a contemplar
divelta
La beltà di quel fior.
— «Perchè sospendi,
Adolfetto, il tuo
giuoco?… A chi riguardi
Sì fisamente?… Di’;
conosceresti
Quel signor bruno?…»
«Se il conosco! e molto
Male ei mi fece!…»
«Che?»
«Spinsemi a terra».
«Dove?»
«Fuggendo per le nostre sale».
«Tu sogni?»
«Babbo mio, deh! non guardarmi
Sì corrucciato».
«Parla, angelo, parla!…»
«La mamma corse ed egli era
scomparso.»
«Ed è quello?»
«Sì, quello.»
«In lontananza
Forse t’inganni!»
«Oh no.»
«Quando ripassa,
Guardalo attento!» —
— Ripassò Leoni. —
— «Dunque?…»
«Gli è quello!» —
«Arrigo si
coperse
Di mortal pallidezza! i
polsi un tratto
Gli si allentâro; e sotto
alla vergogna
Sospirò di morire. Il
paradiso
Della sua vita si chiudea
per sempre!
Ma dopo gli urti di quel primo affanno,
Che ogni forza, ogni senso
gli scompose,
Dell’aere diffuso al
refrigerio,
Pietosamente assursero in
Arrigo
I secondi pensieri.
«Ella tradirmi!…
Ella sì amante, che
parea vivesse
Del soffio mio!… Tradirmi
ella, mendìca
E allo splendor delle mie
nozze assunta!
Ella che sempre io
nominai coi nomi
Più giocondi e soavi!…
Arrigo, acqueta
L’anima ardente… e non
potria quel folle
Essersi appena avventurato
un giorno
A tentar le mie soglie, e
così offesa
Edmenegarda dispregiar
quell’atto,
Da non curarne o vergognar
tacendo?
Talor maestro di
sospetti è il caso
Perfido e vile. Ma… quel
novo stato
Di tristezza che l’occupa!…
Parlarle
Uopo è una volta. Oh
incanutir le chiome
Mi possano oggi! Mi diserti
il cielo
D’ogni ricchezza, un misero
sepolcro
Copra i miei figli… ma non
sia l’orrendo
Fallo; non sia!…»
Da una lampada d’oro
Sul letto nuzïal
d’Edmenegarda
Una timida luce si diffonde
Velatamente.
Ella è soletta, e il capo
Stanco reclina tra le
ardenti palme.
E pensava, pensava!… E in quei pensieri
Era un torbido assalto di
paure,
Di rimorsi, d’amor, di
pentimenti,
E indomato un desio di
sovvenirsi,
E un lungo sforzo d’oblïar.
Da quella
Mutua battaglia alfin scosse
la testa.
Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,
Lieve un pallor; non altro.
— E a lei vicino
Si pose.
— «Arrigo!»
«Edmenegarda! È tempo
Ch’io vi favelli. Rammentate
i giorni
Del nostro amore? Ei furon
lieti!… e forse
Non torneranno più!…»
«Tristo è il presagio,
Arrigo mio! »
«Sentite, Edmenegarda.
Qualche mistero di
dolor vi siede
Nell’anima profonda. Io non
vorrei
Aver fatto una misera. Quel
giorno
Che legai la mia fede (oh
così amaro
Non credea mi tornasse il
ricordarlo!)
Quel giorno come adesso, io
tenea stretta
Nelle mie la tua mano… e
questi accenti
M’uscîr dal core:
Edmenegarda, eterni
So che non duran sulla terra
affetti.
O inesorata li spegne la
morte,
O li lacera il mondo. Io
credo e spero
Che mi amerai… Ma… se una
volta stanca
Di me tu fossi… se al tuo cor
non pari
Trovassi il mio… se di
tristezza e noia
I tuoi giorni languissero…
prometti
Che parlerai, prometti!
— E a te piangente
Parve strano quel dir; tu
non credevi
Che quest’ora arrivasse….
Edmenegarda,
Tu nol credevi! — Or via;
parla una volta:
Che ti contrista?… Questa
lunga e dura
Serie di giorni desolati — è
troppo.
Parla; ti versa nel
mio cor. Non sono
L’amico tuo?…» —
Fu dieci volte spinta
Quella infelice a rivelar la
colpa.
Ma il terror, ma l’amor, ma
quella stessa
Bontà d’Arrigo, a cui tanta
ferita
Già recar non sapea,
miseramente
La rattennero — e tacque.
«Oh più non dirmi
Di sì dolenti cose! A te ben
noto
Esser dovria perchè sì mesta
ho l’alma!…
Son questi i giorni
che a’ miei dolci colli
Gir mi lasciavi; e della
madre in seno
Io deponeva i verecondi
arcani
Del mio felice vivere! — Da
un anno,
Sai ch’ella… è morta!…» —
E, a quella pia memoria,
Le cadeva una lacrima,
confusa
Col rossor di meschiar
l’urna materna
Alla prima menzogna.
— «Edmenegarda!…
Null’altro?… Questo…
veramente questo
V’amareggia?… Null’altro?…»
«E perchè fiso
Così mi guardi?» —
Tutto in quell’occhiata
Edmenegarda intese; e la
sostenne
Imperterrita.
— «Ascoltami!… Un atroce
Dubbio m’agita l’anima. Più
a lungo,
Viltà sarebbe il mio tacer.
— Conosci…
Certo Leoni?…» —
Un gelido trabalzo
Urtolle il core, ma passò
qual lampo.
— «Lo conoscete? »
«Arrigo mio, perdona
Se ti sorrido… Io sì che lo
conosco
Quello scortese. Un dì, male
avviato,
D’ignote genti a dimandar
qua venne;
E, nel partirsi, inavvertito,
a terra
Spinse Adolfetto nostro.»
E, proferendo
Le mendaci parole, un’aria
assunse
Di maraviglia, d’innocenza e
pace.
Ei la guardò; ma l’ineffabil riso
Tuttavia nei sereni occhi
brillava.
Caderle ai piedi, stringerla, baciarla
E ribaciarla; e non finir di
dirle
Mille accorate e mille dolci
cose
Fu per Arrigo un punto. Era
oblïato
L’orgoglio inglese in quegli
atti d’amore!
E l’abbracciava il misero!…—
Un
istante
Che allentato si fosse il
tempestoso
Urto di quella ebbrezza,
avria sentito
Tremar sotto gli amplessi
orribilmente
Le colpevoli membra, e sotto
i baci
Farsi di gelo la convulsa
bocca.