Vedesti mai della
Città fatata
Sulle sponde amorose, ove
s’innalza
Perpetuo il canto tra
l’oceano e il Sole,
Vedesti mai le lucide
sembianze
D’un’angelica forma ir
diffondendo
Fascini arcani, e dietro lei
confusi
Mille cuori agitarsi, e in
rapimento
Scintillar mille sguardi, a
cui dinanzi
Ella verrà nei sorridenti
sogni?
Mai non vedesti una
leggiadra donna
Col suo dolce compagno
irsene altera,
E preceduta da due biondi
figli,
Qual da una coppia di
nascenti rose?
E non ti parver quelle anime
amiche
Irradïate da un medesmo
affetto
Quattro corde sonanti e
risonanti
Sotto il ciel che le ascolta
e s’innamora?
Qual core è mai che
non esulti a queste
Melodie, che morir su le
perdute
Soglie del paradiso, e a far
men triste
La fulminata razza, un
giorno ancora
Sotto le dita dell’Amor son
vive?
Le sollecite madri
alle fanciulle
Quella donna additavano,
esclamando:
— Beate voi, se avrete una,
sol una
Parte dei giorni avventurati!
—
Oh certo,
Senza molto indagar, tu la
vedesti
La invidïata crëatura amante
O nel rumor d’un ballo
avvilupparsi,
O star composta ad una sacra
pompa,
O lungo il mare vagolar
solinga;
Tu la vedesti; e la più cara
stella
Del felice Adriatico ti
parve.
Or leva gli occhi all’ultima finestra
Di quel palagio, a cui lambe
la luce
Le fondamenta brune, e,
digradando
Via digradando, sul canal si
perde.
Quel palagio il conosci? — È
di Leoni. —
Conosci or tu quella
femminea forma
Col crin dimesso, con le
mani scarne,
Con la febbre nel cor, con
le pupille
Macchinalmente immobili
sull’acque?
Ahi! come poco ella
ti par diversa
Dalla gelida pietra a cui
s’appoggia!
Sol l’ignominia d’un
ripudio puote
L’umano aspetto tramutar
cotanto.
Invan tu cerchi nella
tua memoria
Di quella donna indizio. E
se una traccia
Lontan, lontano al tuo
pensier balena,
È un lieve sogno qual di
cosa morta
Da lunghissimo tempo, a cui
tornando,
L’anima tenta di rifarne
intera
La somiglianza — e più e più s’attrista.
Or, l’hai trovata?…
Quel crollar del capo,
Quel doloroso tuo lungo
sospiro
Mi rispondon che sì.
— Quanta pietade
Sentirà dell’afflitta anima
il mondo! —
Oh nol pensar!
Questo rettile abbietto
Non ha voci per piangere.
Egli manda
Sull’infelice il suo grido
di scherno,
E lo dispera col livor dei
morsi,
E nell’ora del mal fischia
di gioia.
Così, quando scoppiò l’orrido nembo
Sul fragil capo alla
reietta, i labbri
Verecondi di mille, a cui
non note
Son le vie del peccato,
amaramente
Fecero il ghigno; e da quei
labbri il nome
D’Edmenegarda si gittò nei
crocchi,
Senza vergogna; e fu divelto
a brani
Con maligna pietà dalle
opulente
Peccatrici, che menano a
trionfo
La tolleranza del codardo
sposo.
E se qualche pudica anima ai casi
Sospirò miserata, ebbe il dileggio;
E fin si diede a quel gentil
compianto,
Con demente rigor, la
scellerata
Nominanza di colpa!
Ed or che il nappo
Ella finì sino alla feccia,
il mondo,
Pietoso o stanco, l’obliò!…
—
Che importa,
Se precipita un’alma e senza
madre
Gemon due figli e pesa il
vitupero
Dove rise la gioia? Ordine è
questo
Di natura e dei fati! —
Or esce appena
Qualche rea celia, a
ricordar la nuova
Ospite di Leoni.
Egli da canto
Caramente le siede:
«— Alza la fronte,
Ti consola, amor mio! Su
quel feroce
Si scagliarono tutti. E se
anco l’ira
Ti ferisse de’ tristi, io la
divido
Con te, dolce amor mio! Tu
la mia vita,
Tu la mia gioia; tu di me
possiedi
Il giocondo avvenir. Come
esser puote
Se non giocondo?… Che ci cal
di questa
Così ampia terra? Anco in angusto
asilo
Amor compone il
paradiso!… Io tanto
T’amerò e tanto, che potrai,
(lo spero!)
Dimenticare il doloroso
sogno
Del tuo passato!…»
«Oh! mio Leoni…»
«Arresta —
Non turbarti, non
piangere!… E se d’uopo
N’hai veramente, non
badarmi; e piega
Qui la tua testa, poveretta,
e piangi!…
Merto ben io che mi
trafigga il dardo
De’ tuoi dolori!!» —
Edmenegarda il capo
Riscosse alquanto, e con più
lunga stretta
Serrò Leoni tra le braccia:
— «Amico!…
Vedi se i giorni del patir
son giunti!…
Io tel diceva!… Ma
tu sempre meco
Resterai, non è ver?… Tu
questa mia
Misera vita non vorrai
coperta
Di più dure vergogne. Io
farò forza
Per oblïar; per non ti dar
mai segno
Che ti contristi!… Ma se tu
mi vedi
Sospirar qualche volta… oh!
non dolerti,
Te ne prego a man giunte… Io
già non penso
Che a’ miei poveri figli!…»
«Angelo amato!
Perchè dirmi così?… Pria che
una sola
Lieve pena costarti, io
mille volte
Vorrei morir!… Ma tu… mi
amerai sempre?»
«— Sin che il cor batterà. Deh così presto
Questa febbre mortal non mi
consumi!»
«— Sei ben crudele, Edmenegarda!»
«Oh
ridi,
Leoni mio. Ma… così
piena ho l’alma
Di tanti sogni! Ed un di
loro è bello;
E mi par che s’avveri; e già
lo sento
Nell’esser teco!»
«E lo sarai, diletta
Compagna mia, nel dì dell’allegrezza,
Lo sarai nel dolor!…»
«Taci! Assopite
Reminiscenze tu nel cor mi
desti.
Non sono ancor molto lontani
i tempi,
Ch’ei così mi parlava!…»
«Or via, se m’ami,
Tu dèi lo spirto allontanar
da queste
Sconsolate memorie. Odi la
brezza
Che via pei flutti vagolando
spira?…
Vieni a goderla.»
«Il tuo voler m’è caro,
Caro più d’ogni ben che un
dì mi avesse
Potuto dar la terra!» —
E lungamente
Favellaron coi baci, entro
la bruna
Lor navicella errando.
In quella sera
Fu giocondo spettacolo a
vedersi
Agili gondolette, una
sull’altra
Scivolanti alla corsa, e un
muover chiuso,
Come di campo, e un dar
vario ne’ remi,
E un urtar nelle prue con
meditata
Frode leggiadra, e poi tutte
svagarsi,
Come nere isolette, in seno
all’acque,
E seguitarle de’ nocchieri
il canto.
Ma in quella gaia compagnia, la loro
Gondoletta non venne. E tu
la miri
Colaggiù, solitaria, in
lontananza,
Abbandonarsi alla balìa del
vento,
Come svïato pellegrin che
pianga
Per lo deserto.
In quelle cento prore
L’aperta gioia sfolgorò. Qui
siede
Il dolor e l’amor, fiori di
tempra
Passionata e gentil, che
cercan sempre
Gioie romite.
E quando quella turba
Di navicelle, dai percossi
flutti,
Una ad una, scomparvero, a
misura
Che il ciel più sempre si
vestìa di stelle,
Quel remoto battel venne
alla riva.
I languidi occhi Edmenegarda spinse
Dietro la folla che dai
curvi ponti
Diradata calando, iva in
dileguo.
E sgombero di genti era già
il lido…
Se togli un uom, che si
tenea per mano
Due fanciulletti, con le
fronti chine
E vestiti a gramaglia.
Ahi, che parola
Di tremendi dolori, indossar
lutto
Di persona vivente!!
Ella conobbe
L’anime offese, e serpeggiar
la morte
Sentì nel cor; ma si
contenne. E volti
Gli occhi sul mare, al suo
tacito amico:
«Come è bello, dicea, questo
lucente
Solco, che sotto all’agitar
dei remi,
Qual per magica verga, esce
dall’acque!»
Così volaro i tempi. E le congiunte
Anime solitarie, come due
Rondini amanti che fuggir
dal falco,
Guardavano il lor nido,
allontanate
Dalla guerra del mondo.
Edmenegarda,
Dopo lagrime lunghe, e
procellose
Preci, e torbide gioie, e
rivocati
Proponimenti, e divorar con
fiero
Sforzo quell’onda di
martìri, e pace
Dimandar dalla morte, e sul
futuro
Spinger ratto la mente e poi
ritrarla
Impäurita, e desïar che tutte
Precipitasser le create
cose,
E due spiriti soli issero
erranti
Sulle vaste ruine… alfin
quetossi
La desolata e stanca in quel
fallace
Sonno d’amore.
O Amor! come trasmodi
Nostra natura, e dentro
v’intenèbri
La scintilla di Dio.
Velo d’inganni
Tesse prima il rimorso; e il
cor s’avvede,
Ma, pago d’ingannarsi, il
cor non bada;
O se vi bada, di badarvi ha
sdegno;
E, poco a poco, il misero
costume
Rende l’inganno a verità
simìle.
Come fu? Come avvenne?… Indarno il chiedi.
Stanco s’addorme il bambinel
tra i fiori,
E si risveglia col velen
nell’ossa.
E così fu di lei, buona già tanto!
Credette pria; poi dubitò;
poi disse:
«Non è ver, non è ver! —
Qual fede io ruppi?
Su quale altare io
lo giurai? Qual Dio
Presiedette al mio giuro?
Esser non puote
Che un monarca sì grande oda
ogni vano
Bisbigliar de’ mortali. Un
re sì giusto
Esser non può che a servitù
condanni
Questo fuoco d’amor, che da
lui parte
Libero tanto ed è movenza e
luce
Del suo creato! L’avvenir?…
Chi ‘l vede?
Chi può giurar
sull’avvenir?… Chi giura
S’ei domani vivrà? Se questo
sole
Splenderà sulla terra? Ama
la tigre
Il suo compagno; ma se amor
la volge
Naturalmente ad altre gioie,
è stolto
Chi ne la incolpa. E l’uom
misero ardisce
Emendar la natura? Ama il
selvaggio
La donna sua; ma talamo è la
rupe,
Talamo il lido ai non
vietati amplessi,
Che fan forte l’amore. E
senza lacci
Sono i turbini e l’onde. E
chi le doma
Starà sempre in catene?… Oh
è ben scaduta
Questa di belve incivilita
plebe!»
Lette in infauste pagine, e dai labbri
Del suo Leoni mille volte
udite,
Tai cose ed altre a sé dicea
la donna.
Non qual chi pensa in
sicurezza il vero,
Ma qual chi tenta, con la
mente ardita,
Suadere al cor che ogni
paura è tolta.
E non sapea che quell’incerto moto,
Quel senso vago, quella nube
arcana,
Che le errava sull’alma, era
il più grande
De’ mortali spaventi, era
l’occulto
Sentimento di Dio.
Fu di Leoni
Così cortese, delicato,
intenso,
Previdente l’amor, che al
caro volto
Rifioriron le rose, e un
novo raggio
Vestì gli occhi diletti; e
le rivenne
Desiderio dei fior.
Furono in breve
Quelle stanze un profumo,
una celeste
Musica di colori, un inusato
Tesor di pompe. E qua serici
drappi
E lucenti ottomane, e sulla
terra
Morbide pelli a render muto
il passo;
E sulle mura le dipinte imprese
Di dame e cavalieri; e di
Gulnara
Sulle ginocchia del Corsaro
il pianto,
E il bel crociato che in un
roseo nembo
All’amoroso susurrar dei
rivi
Bacia i grandi e lascivi
occhi d’Armida;
E pendule dall’alto a
mezzaluna
Lampade vaghe a illuminar le
mense,
E argentei vasi, e
d’alabastro e d’oro
Splendide conche, e bei
volumi e fiori
Sparsi, confusi,
ondoleggianti… e un molle
Aere indistinto, una
fragranza intorno,
Un’armonia da rinnovar
l’Eliso.
Fra tanti vaghi e graziosi aspetti
Ella felice si credea. Ma
sempre
Quella nube fuggevole, quel
moto
Misterioso, che la fea per
forza,
Tornar crucciata sui passati
tempi.
Indi l’acre piacer dell’adornarsi
Le rïassalse il cor.
Donna, per quanto
Scaduta sia dalla sua bella
altezza,
Anco nell’onda di cocenti affetti,
Serba sempre un amor per la
sua veste.
Fors’è quel senso di pudico
orgoglio,
Che le insegna onorar la più
gentile
Delle create cose.
Il desir novo
Indovinò Leoni; e benedette
Fur le ricchezze dal felice
amante.
E ondosi drappi e gonne agili e bianche,
Come piuma di cigno, e
argentei veli
E malinesi e batavi
trapunti,
E lane arabe e perse, e
nastri e gemme,
A ornar le trecce d’ebano e
i nitenti
Omeri e il collo e le nudate
braccia,
Tutto, qual per incanto, a
sé davanti
Vide la bella fata; e il cor
di donna
Con precipiti palpiti
battea.
Ma non molto durò;
chè come piombo
Le pesâr quelle vesti, e
interrogarne
Il perchè non ardiva.
Una rancura
Vigile sempre nel profondo
petto
La tormentava, la scotea
dall’ebro
Assopimento: le dicea:
— Tu dormi,
Ma teco io sono!
Edmenegarda fece
Per non udir quell’importuno
grido.
Ma, qual punta di dardo in
piaga viva,
Ei riveniva.
Disperata pianse,
Meditò, corrucciossi, e
forza a forza
Apertamente oppose.
— «Hai ben ragione,
Leoni mio. Noiosa è
questa vita
Di servitù, chiusi
dall’onde. Io stessa,
Che vivrei teco ne’ deserti,
or sento
Che dritto n’hai, se la
disami. Eguali
Qui gli strepiti, sempre
egual la pace;
Gondole eterne e gondolieri
e ciance.
Mai quell’ampio e
vibrato aere, quel sole
Che non si franga dalle
pietre in fiamma;
Mai quel vario
veder, quell’agitato
Scalpitio de’ cavalli e quel
de’ campi
Dolce tumulto; mai quelle
segrete
Melodie che fa l’ôra in tra
le fronde;
Né un fil d’erba, né un
fior, né una dolce ombra,
Che queti il cuore! E non
poter da un cocchio
Splender coll’uom che s’ama;
o sulla sponda
Seder d’un rivo e udir per
la pianura
Limpidi canti, e nella folta
siepe
Il rosignol che piange! In
mezzo all’acque
Morrebbe certo l’amator
gentile!…
Oh la terra! la
terra!… Ai primi padri
Già non fur le pesanti onde
marine
Prima stanza d’amore!»
«E non tel dissi,
Edmenegarda mia, che
ti verrebbe
Questo vivere a noia?
Esserti caro
Quel che a me spiace?… Hai
detto ben. La terra,
La terra è stanza dell’amor;
non questa
Prigion dell’onde. Cresce,
nel sonante
Tumultuar, la vita. A questo
pigro
Nido di pesci abbandoniam le
stolte
Anime di costor. La non
curanza
Con lo spregio si paghi.
Edmenegarda!…
Alla terra, alla terra!
«O mio Leoni,
Mi batte il cor di questa
ebbrezza!… » —
Han
d’uopo
Quei due miseri ormai del
tempestoso
Romoreggiar del mondo!
E un agil cocchio,
Tratto in balìa di palafreni
ardenti,
Per le città, tra il sonito
e la polve,
Già li rapisce; e invidiata
splende
La bellissima donna. E or le
vetuste
Vie d’Antenore varca; e tu
la miri
Seder superba e sfolgorante
in quelle
Marmoree maraviglie, onde ai
futuri
Inclito andrà del mio
Japelli il nome.
Or su i berici
colli, in mezzo a tanta
Allegrezza di verde, alle
rugiade
Mescon dell’alba i solitari
amplessi;
Or volano al beato Adige in
riva,
E tra i penduli salci, ove
s’estinse
L’armonia di Catullo, un
molle accordo
Par che ai lor baci tuttavia
risponda.
Poi de’ piani
lombardi e delle valli
Cercarono il sereno aere, e
la ricca
Popolosa città.
Ma il gelsomino
Sotto i vampi del sol, senza
una fresca
Ala di vento che lo irrori,
a terra
Debbe un giorno languir!
Sai tu le gioie
Amare e forti della bella
figlia
Del Caramano, nei dipinti
arémi?…
Oggi il fervido sir preme
sul petto;
Pensieroso diman vede il
monarca,
E sente il peso delle sue
catene.
Un dì, regno sull’alma. Indi è procella
Di tetro amor — di voluttà —
di sdegno —
Di fastidio — d’oblio — di
rinascenti
Gioie — con vano ritornar
sui tempi
Che più non sono.
Di Leoni è fatto
Nebbioso il cor. Qualche
benigno accento,
Qualche cura gentil, qualche
soave
Sorriso vi splendea, come
una queta
Ma fuggitiva luce. Il resto
è lampo,
Che vien coll’oragano a
illuminarne
Gli schianti e la ruina.
O Edmenegarda,
Che cor fu il tuo —
quell’amator sì umano
E caldo e mansueto or lo
veggendo
Così diverso!
Gli favella?… È un dono
Inaspettato, s’ei la man le
stringe,
O sorridendo le ricambia il
detto. —
Gli si pone
d’appresso? Ei sfoglia un libro
Sbadatamente e legge. Osa
mostrargli
Qualche rancor? S’infuria; e
le fa pieni
Gli occhi di pianto. Allor,
come accorato,
La vien baciando; e un vivo
sol repente
Le si spande nel volto, e
muta in perle
Quelle rugiade del dolor.
Ma il crudo
Velen della memoria ogni
conforto
D’amarezza le tinge; e più
non sente
Edmenegarda, come
pria, quei caldi
Impeti passionati, e
l’indiviso
Nuvol dell’alma le si fa più
tetro.
Aridi i fior, l’aria pesante, ingrato,
Dispettoso il tumulto, aspra
la vista
Delle cose e dell’uom,
torbidi i giorni,
Trangosciate le notti… e il
suo compagno
Non curarsi e tacer! Questa
è la spina
Più sanguinosa.
Il forvïato tralcio
Trova un olmo, e s’appoggia.
Ahi! se quell’olmo
Stanco sarà di sostenerlo!…
«Oh Arrigo!…
Oh miei poveri
figli! Oh mia perduta
Casa! Oh speranze della vita
infrante!»
E profondo gemea. Ma nella voce
Del suo Leoni un refrigerio
ancora
Sapea trovar.
Necessità od affetto,
Gli era avvinta e bastava.
Anzi, in quell’alma,
Necessità ed affetto, onta e
rimorso,
Pentimento e peccato era una
cosa.
«Ahi, son fiere amarezze!
Ecco il fedele
Prometter suo! sola mi
lascia. E quando
Alta è la notte, io pallido
mel veggio
Comparir, non so donde. E fa
risposta
Alle parole mie con
disdegnosi
Gesti, o muti sospiri, o
vïolento
Suon di dolcezza… e
d’ingannarmi ei crede.
Mio Dio! quanto
mutato! Oh s’io sapessi
Quel ch’ei cela nel cor! Gli
tedian forse
Queste rive del Garda?… O
ch’io gli costo
Qualche grave pensier?…»
Sì fatte cose
Tra sé volgendo, abbandonò
le stanze,
Nel giardin si recò.
Pallidamente
In grembo alle argentate
acque del lago
Lucea la luna. Era diffuso
il cielo.
Placida l’ôra si movea tra i
rami;
E d’un novo color, sotto le
stelle,
Si vestivano i fiori. Entro
un cespuglio
La gentil capinera
innamorata
Modulava le sue dolci
canzoni.
Or sì or no, tra il folto delle
piante,
Qualche lucciola intorno iva
raggiando.
E vivo e terso, come
argentea zona,
Mettendo un soffio di sottil
frescura,
Luccicava tra l’erbe un
fiumicello.
E, a compir quella
pace, il caro e mesto
Suon della sera si spandea
dagli alti
Campanili del Sirmio; e in
una sola
Armonia fervorosa, a mille a
mille,
Salir limpide voci; e cielo
e terra
Pareano intesi a quel
sublime accento:
«Santa Madre di Dio, prega
per noi!»
Sola, non vista, in un segreto calle
Di quel giardino, la
colpevol donna,
Compreso il cor d’un subito
ribrezzo,
Incurvò le ginocchia, e,
giunte in croce
Le ceree mani, sovra cui
profuse
Giù cadevan le lagrime del
volto,
Lungamente pregò.
Furon parole
Rotte, confuse, inebrïate,
amare;
Furon moti e singulti.
Alfin la prece
Le uscì lucida e calda. Era
pei figli
E insegnata dal core:
«O santa Madre
Dei dolorosi, non a me
guardate,
Non a me, così rea! Ma i
tribolati,
Ma gli innocenti, gli orfani
son vostri!
Per le piaghe di Lui, che vi
amò tanto,
Proteggeteli sempre. E se
una volta
Sapran di me, che li lasciai
nel mondo
Sì crudelmente, oh! fateli
benigni
A questa loro travïata e
trista,
Che aspetta pace dalla
morte.»
E china
Ad un salcio la fronte e
sotto i raggi
Mesti del ciel, pareva un
decaduto
Spirito che pensasse al
paradiso,
Quando più pesa la crudel
memoria
Del commesso peccato.
Un’orma suona —
Si disperde — s’approssima —
s’aggira
Pei torti calli — si raccosta — È lui.
— «Ma che fate voi là, stesa
sull’erbe
Umide della notte?… Or via;
sorgete.
Quel non è loco da
pregar. Dimani
Torneremo a Venezia. Avrete
cento
E mille chiese eternamente
aperte,
Per stancar questo Dio.»
«Taci, Leoni…
Ma che ti feci io
mai?… Forse gioisci
Di vedermi tremar?… Dillo
una volta;
Che ti turba così?…»
«Nulla.» —
Da un cespo
Ella colse due gigli; ed un
lo pose
Con umil vezzo al suo Leoni
in petto.
Ma quei senza badar, foglia
per foglia,
Lo stracciò con le labbra; e
il nudo stelo
Lasciò cadersi, sospirando.
Anch’essa,
A quella vista, il suo bel
fior distrusse,
Con riboccante d’amarezza il
seno,
E nessun più parlò.
Che lungo sogno
Quella notte la assalse!
In pria, da lunge,
Come in vaghi ricordi, una
dimora
Nota le apparve, e due
giovani amanti
E due vispi fanciulli
avvicendarsi
Baci e carezze di celeste
affetto.
Indi una barca, uno
smaniglio infranto.
E colpevoli fremiti
e fulminee
Voci dai labbri d’un
fantasma uscite.
Poi mutò quella
scena. E patimenti
Lunghi intravide, e care
cortesie,
E ritorni alla vita, e
ricambiati
Baci d’amor; ma tra quei
baci un ghigno
Che le scagliava senza posa
il mondo.
E ancor novi
fantasmi. E il fragoroso
Suonar d’un cocchio; e
nell’obliqua fuga
Città, ville, castella e
colli e monti
E pianure e torrenti. Alto
un tripudio
Di cacce e prandi; libera
una pompa
Alle danze, alle corse; e in
quella vita,
Che parea venturosa, il
verme arcano
A corroderla sempre. Uno
spavento
Fea trabalzar sulle agitate
piume
La sognatrice; ma durava il
sogno,
Che del futuro le squarciò
il velame.
E sotto al raggio d’un fanal
notturno,
Cinto di bari, in una cava
oscura,
Scoperse un uomo (e le parea
Leoni)
Gittar convulso l’ultima
moneta
Sopra una carta; e stringere
le pugna,
Bianco dall’ira; e
bestemmiar la sorte
E giurar contro Dio.
Mise ella un grido,
Ma non seppe destarsi. E
quella stanza
Maledetta fuggìa. Ma
un’ampia landa
Le si pose davanti; e
misurarla
Vedea quell’uomo a
giganteschi passi,
E lunge lunge, oltre i
morenti lembi,
Onde si distendeano, onde ed
altre onde,
Senza riposo. E una raminga
prora,
Come penna di corvo entro
alle nebbie,
In quelle vaporose
indefinite
Lontananze del mar si
disperdea.
Trambasciata, sudante, ella si scosse.
Aperse gli occhi, le rivenne
il senso;
Sul cor tremante delle viste
cose
Ne passaron mill’altre; un
gel la strinse;
E disperatamente, tra le
coltri
Chiusa la testa, più pensier
non ebbe.
Taciti e soli, sul venir dell’alba,
Mosser dai campi alle natie
lagune.
Rifecer quelle vie senza
parola;
Risolcaron quell’acque.
Egual rimasta
Era la terra. Eguale il mar.
Partiti
Eran col riso dell’april;
col riso
Dell’april ritornavano. Ma
il core?
Ah! sui campi del core a
disertarli
Era passato il vento della
morte.
Quel riveder, risalutar gli alberghi
Consci di tante voluttà
segrete,
Ben fu com’aura, che vagasse
intorno,
Cercando i fiori dell’eliso
antico.
Ma non trovò che nude alighe
e pruni,
E dileguò, gemendo.
Alfin dei tempi
Destinati da Dio l’ora è
suonata.
Leoni ha risoluto. Aspre le
pugne,
Fieri i tumulti, amaramente
mista
La vergogna al dolor, morto
il passato,
L’avvenir senza speme, e
messi in fondo
Il nome e la fortuna, ha
risoluto.
Strascinerà
vituperato i giorni,
Sotto altro ciel.
Più volte quel codardo
Meditò di morir. Ma amor lo
vinse
Della misera creta ond’era
cinto,
Non terror del misfatto; e
ruppe il ferro.
Non fugge infamia. Dell’infamia il nome
Sol può mutar.
«La stolta ira del mondo
Mi percota. Che importa?…
Non è campo
Tra noi per misurarci. Ahi!
la perduta
Giovinezza del cor! Questa è
la spada
Che ferisce profondo. E i
lieti giorni
Non potran più rinascere… Ed
io solo
Fui, che li uccisi!… Ed
altre vite, ed altri
Estinti amori: e lacerato il
nodo
D’anime mansuete… e la
materna
Felicità d’un angelo!… Ah,
la morte,
Ch’io non so darmi, saria
pur pietosa,
Se mi venisse a liberar da
queste
Dure battaglie! Ancor
quest’oggi il pane…
Ancor quest’oggi. E poi?…
No, no. Sull’onde
Getterò la mia vita. Io più
non voglio
Ascoltar quella voce. È
orrenda cosa
Ascoltar la sua voce! Oh le
tempeste
Inghiottir mi potessero!…
L’Eterno
Benedirei. Leoni! anco un
istante,
E poi… lunge per sempre.»
Era
soletta
Su un veron del palagio
Edmenegarda
Co’ suoi mille pensier;
torbidi, incerti,
Rapidi, intensi, paventosi,
amari;
E, tra quelli, un occulto,
un ostinato
Presentimento… ma di tal
sventura,
Che nome non avea nella sua
mente,
E già stavale in cor.
«Dio degli afflitti!
Non sia ver, non sia ver!»
Morta la luce
Era d’intorno. Ribattevan
l’ore
Dalle squille notturne. Ella
un acuto
Strido mandò — ché un rumor
lieve intese;
E lieve un bacio le sfiorò
le chiome.
Vede un’ombra; poi
nulla. Intorno getta
Gli occhi smarriti; nulla. A
fievol voce
Chiama Leoni; ma nessun
risponde.
Era sogno?… Nol sa.
Vero?… Ella sente
Sul capo ancora il gel di
quelle labbra
Che la baciaro. In sé tutta
si stringe
Impäurita; un orrido deserto
Par che la cinga… e il cor
le si discioglie,
A groppo a groppo, in un
dirotto pianto.
Quante cose in quel punto ella si disse!
Quante più ne pensò! Non è
linguaggio,
Non è forma o color che le
dipinga.
S’incrociano; si sciolgono;
van ratte;
Rivengono più ratte entro la
mente
Disperata e confusa; e, in
geli e vampe
Tramutandosi, assalgono gli
abissi
Miserandi dell’alma, ove al
fin regna
In solitaria e paurosa notte
L’insensato dolor. Fûr pochi
istanti;
Ma tremendi, ineffabili,
nascosi
A umana idea. Traverso a
quello spirto
Errava ancora un negro
insuperabile
Turbine di memorie, e di
pensieri.
Poi languiron le forze della
vita;
E sui guanciali in un sopor
profondo
Piombò.
Da quel sopor chi ne la desta?
Chi la riscote? — Non è lui.
— Lo guarda…
Ma non è lui. Si risovvien
di tutto.
Quegli un amico è di Leoni,
e sorge;
«E’ dov’è, grida: ditelo!
Non monta:
Lo sapea da gran tempo. Or
via: parole,
Non sospiri; parole vi
dimando!
Non mi fate morir!…»
«Egli vi
lascia
Per mia bocca un addio. Di
perdonargli
I patiti dolori ei vi
scongiura;
E così solo e povero…
veleggia
Verso la Francia!»
La misera donna
Soffocò un urlo; e
rassegnata al cielo
Alzò le mani, e non avea
parole
Altre che queste:
«Il meritai! Doveva
Esser così. Sotto il
giudicio vostro
Io m’inchino, o Signor. Contro
vi venni,
Mal nata polve, e voi
saliste in ira
E m’avete percossa…
Il meritai!»