L’anima, che s’abbraccia col mondo fisico
e coll’immateriale, va alla sua meta.
Per la tua bassa ténebra
Non move un’aura blanda;
È senza stelle, o povera
Notte, la tua ghirlanda;
Non una dolce tibia
Di solitario amante
Lungo le verdi piante
Lieve ascoltar si fa.
Ma pur da me s’espandono
Suoni di fresco amore;
Più che le stelle e l’etere,
Grandi linguaggi ha il core:
Pensoso accetta il giubilo,
Lieto il dolor riceve,
E risonante e lieve,
Dov’è chiamato ei va.
Come chi parte a compiere
Pellegrinando un voto,
Tiene, piangendo, agli
ultimi
Tetti lo sguardo immoto;
Poi nel trovar non cognite
Siepi e solingo piano,
Torna cogli occhi invano
Ai campi che lasciò;
Tolto così da un fulgido
Sentier di sogni, anch’io,
Movendo in solitudine
Chiedo i ritorni a Dio;
Ma un imperante spirito
Su’ passi miei cammina,
E l’alma pellegrina
Più ritornar non può.
Dunque provato ai triboli,
Rinverginato al pianto,
Come i ruscelli al murmure,
Dio mi destina al canto?
Vieni, o mia lira,
abbracciami,
Giacché per fede antica
Forte e modesta amica
Dio ti congiunse a me.
Detti superbi o pavidi
Tu sul mio labbro attuta;
Quel che non sente l’anima,
Di modular rifiuta;
Non abborrir del povero
Per vil pudor le stanze,
Per misere speranze
Non inchinarti al re.
Vieni. Onoriam di lagrime
L’umanità che è mesta.
Sul nudo suol degli esuli
Santa rugiada è questa.
Con la speranza accostati
Ai tribolati ingegni,
Vinci gl’iniqui sdegni
Col doloroso amor.
Ma non però del candido
Riso fuggiam la luce,
Che a solitari palpiti
Le fantasie conduce,
Perchè del riso i balsami
Sul cor ce li diffuse
La stessa man, che schiuse
Le fonti del dolor.
Ella che pose ai turbini
L’ale e distese i cieli,
Die’ pur la vita all’alighe
E incolorò gli steli;
Tutto, dal serpe all’angelo,
Mi leva intorno un coro;
Tutto egualmente adoro,
Dal filo d’erba al sol.
Sotto l’ombrìa dei platani
Molli del novo incenso,
Assorto il cor nell’estasi
D’un viso amato, io penso
Subitamente al profugo
Se un uccellino io miro,
Che mova mesto in giro
Per rami ignoti il vol.
Con voi, fanciulle, i facili
Poggi odorosi ascendo
Lieto nell’alma, e reduce
Ripenso a voi piangendo;
Ma non così ch’io tolgavi
In quelle dolci feste
Un vezzo da la veste
O un gaio fior dal crin.
Ben saprò dir le provide
Speranze a la tradita,
Che i tenebrosi assalgono
Spaventi de la vita:
Io mi porrò degli umili
Sotto le verdi tende,
Dove più forte splende
La fede al pellegrin.
E tu, mia man, le nobili
Voci del cor tu scrivi,
Del cor che abbraccia i
tumuli,
Che vagola coi rivi,
Che di sorrisi illumina
Le sue mestizie arcane,
Che le allegrezze umane
Circonda di sospir.
Più che per altri il fervido
Tumulto del convito,
A me fia caro un vergine
Pane cibar romito:
Poi, qual fuggente rondine,
Verso la patria vera,
Coll’anima che spera,
Recarmi all’avvenir.
E tu, mia lira, insegnami
Come svagato io corsi,
E, col pensier, dell’opera
Si scontino i rimorsi.
Spandi così tra gli uomini
L’aura del tuo perdono,
Se non udito il suono
Da le tue corde uscì.
Come per l’alto un zefiro,
Si passerà dal mondo,
Ma lasceremo un cantico
Non vil né inverecondo:
E i sorvolanti effluvi,
Forse nei rovi ascosa,
Riveleran la rosa,
Che nel dolor fiorì.