DOLORI E GIUSTIZIE
Dunque sui sacri margini .
Velati dalla bruna
Ombra dell’Alpe, il languido
Mio capo adagerò,
Svegliando ai consapevoli
Silenzii della luna
Di melodie fantastiche
L’onda regal del Po?
Grazie a’ miei fati. Un intimo
Desio, come d’amante,
Di voi pur sempre, o memori
Plaghe, mi punse il cor;
Tornerò dunque a premervi,
Piagge dilette e sante,
Che un dì sull’orme al profugo
Lauri cresceste e fior.
Come la bruna rondine,
Fida del mar veliera,
Drizza pur sempre al cognito
Trave l’affetto, e il vol;
Io vi drizzai la trepida
Piuma del cor leggiera,
Più che alle stelle e ai zeffiri
Dei mio materno suol.
Chè voi mi amaste: e un gelido
Cor non amaste. O giorni
Miei desolati! oh vedove
Notti del mio pensier!
Oh ingrate veglie! oh inutile
Sogno de’ miei ritorni!
In che nefandi calici
Dio mi costrinse a ber!
Le fresche aurore, i limpidi
Miei vespri alla collina,
L’eco de’ corni e il fervido
Moto de’ veltri al pian,
Gli antri, le coste, i floridi
Boschetti e la marina
Sul mesto cor dell’esule
Versâr lusinghe invan.
Sin di due trecce il morbido
Nerissimo volume,
E il canto, per la tenebra
Ignea colonna a me,
Mai più rifar non seppero
Agli estri miei le piume,
Dacché il poeta, o libere
Alpi, l’addio vi die’.
Oh, quante volte, un arido
Crespo mirando, un fiore,
Sveglie bizzarre al cupido
Latente sovvenir,
Di procellosi palpiti
Sentii balzarmi il core,
E il pronto viso in porpora
Mutarsi e tramortir!
Oh, quante volte, armigero
Nido di prodi antico,
Di te parlando, un gemito
L’anima mia levò,
Siccome avvien nei facili
Momenti, che all’amico,
Si vuol narrar d’un misero
Nodo che Dio spezzò!
Con sì fiero tormento io t’amai;
E negli occhi dell’esule, oh credi,
La letizia non venne più mai!
Solitario nell’erme mie sedi,
Non curando la infida ventura,
Ai pensosi silenzii mi diedi!
E là presso alla pia sepoltura,
Che raccoglie il mio dolce parente,
Lacrimai colla mesta natura!
Ma pur sempre dal petto fremente
Misi un grido sul molto e nefando
Cimiterio dell’itala gente.
E il ben vigile sgherro esecrando
Per quel grido mi ordì la catena,
Poi le tetre miserie del bando.
Ti ringrazio, o mia gloria e mia pena,
Fedel musa, che meco hai diviso
Gli ardui giorni, costante e serena;
Ti ringrazio, chè il mesto mio viso
Più ti valse dell’intima acuta
Ricordanza del tuo paradiso.
Ahi! la fede dell’uom si tramuta,
Non la tua; così splendida e forte
Come l’ora in ch’io t’ho conosciuta!
Dolce amica, alle pallide e corte
Mie giornate, te sola vogl’io,
Dolce amica, al mio letto di morte.
Ché in te sola del nido natio
Più m’accese l’indomito affetto,
Chè in te sola conobbi più Dio.
Ahimè! d’odio rigurgita il petto
De’ mortali, e l’un verme si scaglia
Sovra l’altro a rapirsi il banchetto!
No, mia musa. È una giusta battaglia
Quella ch’odi sul sacro Ticino:
Ben fu cinto ogni brando, ogni maglia .
Là si pugna pel nostro destino,
Là son vòlti dell’Alpe i leoni
Nelle reni all’estranio Caino.
E tu pensa le grandi canzoni,
Musa mia, quando l’aquila infame
Fia respinta nei patrii burroni.
E coperta di barbaro ossame
Splenda Italia, e a quel pasto s’allegri
Delle cagne notturne la fame.
Oh speranza!… Ondeggiavano i negri
Battaglioni, fremevan le squille,
Ruggìa l’ira nel polso degli egri,
Era un rombo di campi e di ville,
Dardeggiavan di guerra sin’anco
Le pensose virginee pupille;
Di purpureo, di verde e di bianco
Colorata era l’aria d’intorno,
Luccicava d’un ferro ogni fianco.
Oh speranza! fior breve d’un giorno!
Tu cadesti coll’ombra… e rimase
Di percossi un funereo soggiorno.
Quanto lutto di vedove case!
Quante mense deserte di figli!
Quante piagge di tenebra invase!
Che tumulto di fughe e d’esigli!
Segno d’odio è re Carlo frattanto.
Io cantato lo avea nei perigli…
E pei tristi fu colpa il mio canto!
Arca di sette popoli,
Re de’ sabaudi e mio,
Chi ti contrista, o martire,
Sfregia l’Italia e Dio.
Ma tu, mio re, consolati,
Ch’ebra o demente voce
La savoiarda croce
Contaminar non può.
Io ti cantai. Sacrileghe
Mani scagliâr la pietra
Sulla raminga e povera,
Ma liberal, mia cetra;
E fèr sinedrio, e dissero
Le iene del deserto
Che il fulgid’òr d’Alberto
I canti miei comprò!
Vili! dannate il perfido
Labbro a sigillo eterno.
Me la latrata ingiuria
Fa sogghignar di scherno.
Vili! le meste pagine
Rigo de’ miei sudori,
Ma non ha gemme ed ori
Per comperarle un re!
Che se dall’umil polvere,
Dove obbliato io sono,
Più il capitan che il principe
Canto e l’acciar che il trono;
Se incito i forti a sperdere
Degli Amorrei le tende,
Chi la mia cetra offende
Quanto è minor di me!
Sì, ti cantai, magnanimo
D’Italia mia soldato,
Caro al Signor, di splendidi
Dolori incoronato!
Là ti cantai sul veneto
Mar, che tu re guardavi;
E, premio al canto, i savi
Le carceri m’aprir.
Mastri in foggiar repubbliche,
Non certo a voi m’atterro.
Amo il furor di Spartaco;
Odio de’ Gracchi il ferro:
Piango al destin di Cesare,
Qual di leon caduto,
E del pugnal di Bruto
M’è orrendo il sovvenir.
Ribalenò sul memore
Tebro quell’arme ancora…
Ma che nefanda tenebra
Dopo la bieca aurora!
Più Samuel non vigila
Di Solima alle porte;
E un bruno vel di morte
Copre di Dio l’altar.
Pietà, Signor! Terribili
Son questi giorni al mondo!
Vasto è l’abisso; e Satana
Ride dall’empio fondo:
E consegnato ai turbini
Quell’esecrabil riso,
La terra e il paradiso
S’avventa a separar.
De’ miei fratelli o fêretri,
Quanto v’invidia il core!
Bella è la morte a vespero
Quando col sol si muore
Colà sui campi! Il bambolo
Oggi a dolor si vesta;
E coronata a festa
Sia la caduca età.
Meglio morir che incedere
Su maladetta arena,
Dietro recando il sonito
Della servil catena!
Liberi no, ma despoti
Veggio dovunque e sento;
E chi un ne abborre, a cento
Come obbedir potrà?
Meglio recar nei gelidi
Regni dell’ombra i lumi
Stanchi ed offesi. O picciolo
Ma pur divin tra i fiumi,
Che a questa bella Italia
Crescon le rose indarno,
Oh insuperabil Arno,
Sulle cui rive un dì
Trasse Alighier dall’ispide
Guance il dolor più vero,
E poi dall’arco i numeri
Dell’immortal pensiero,
Tu pur sei tetro! e il margine
Però di fiori hai cinto.
La bara dell’estinto
Sparsa è di fior così.
È parricida l’alito
Dei vïolenti, il credi,
Fiume gentil. Nè all’umide
Or più vagar mi vedi
Stelle nascenti, o attendere
Cogli occhi inebrïati
Gli splendidi e rosati
Tramonti del tuo ciel.
Nè mi vedrai. La libera
Mia verità dispiacque.
Meglio fidar le subite
Ire alle nubi e all’acque,
Meglio che all’uom. Difficile
Pei coraggiosi è il giorno
Che ruota il pazzo intorno
La daga od il fiagel.
Savi tu cerchi, o misera
Italia mia; nè trovi
Che rotte plebi, e cupide
Rabbie, e tumulti nuovi:
E in cenci da postribolo,
Tra fescennine mazze,
Tratta per l’ebbre piazze
La casta libertà.
Oh! di cocenti lacrime
Righiam sommessi il ciglio,
Miei generosi. È tramite
Per me d’onor l’esiglio.
Date le spalle al pelago
Delle città frementi,
O arcani fiumi! o venti!
Tra noi si parlerà.
Coll’alba e coi crepuscoli,
Per fide selve e piani,
Si parlerà, dal mobile
Tetto dell’uom lontani.
Si parlerà coll’aquila
Della petrosa vetta,
Coll’erma lodoletta
Dal canto mattinier.
Parte di sè quest’Iside
Bella ed arcana a noi
Rivelerà. Col novero
Poco de’ figli suoi,
Dall’ombre malinconiche
Esce la dea talora,
E parla a chi l’adora,
Verginalmente il ver.
Là sulle balze inospite,
Campo a perpetui soli,
Dove l’abisso odorano
Scherzando i cavrioli,
Dove alla rara e pendula
Ombra di qualche pianta
Sibila il ghiro, e canta
Sui vespri il mandrïan;
Là chiederem gli oroscopi
Di questo palmo d’erba,
Che nomiam terra, imagine
Sì poca e sì superba!
E riguardando immobili
Tra i nembi e le paure
Da quell’eterne alture
Sull’ondeggiante pian,
Vedrem ferirsi adulteri
Schiavi e tiranni in guerra,
Scettri e catene infrangersi,
Ebra balzar la terra,
E fra la rea caligine
Di quella notte atroce
La sanguinosa croce
Del Nazaren tremar.
Là dall’aerio culmine
Questo vedrem. Ma quando
L’ara de’ tuoi pontefici
Sia vendicata, e il brando
De’ figli tuoi, penisola
Sacra di fede e d’armi,
Suoneran altri i carmi
Dal Cozio sasso al mar.
Oh, se ritorni a splendere
Nel ciel della speranza
L’arco de’ forti, il mistico
Segnal dell’alleanza,
Che un dì dall’Arno al Tevere
Parve raggiar sì lieto,
Dal Tevere all’Oreto
E dall’Oreto al Po,
Oh se ritorni!… Ascoltami,
Giusto Signor: s’aggreva
Molto fallir sugli ómeri
Dolenti di quest’Eva;
Troppo, egli è ver, di Gerico
S’è maculato il fiore,
Ma la tua man, Signore,
Purificar lo può.
Pensa che d’Eli a Davide
Qua la progenie crebbe,
Che qua scintilla il vertice
Del portentoso Orebbe,
Che sigillati scorrono
Qua sotto i tuoi lavacri,
Che qua tra i cedri sacri
La sposa tua fiorì.
Verghe, ceffate e spasimi
Scagliano i figli in lei;
Gettan sull’aurea clamide
Le sorti i farisei;
Fremi, o Signor! la chiamano
Regina d’Israele,
E poi l’aceto e il fiele
Le versano così!
Fremi, o Signor. La tiepida
Famiglia de’ tuoi fidi
Ben lacrimando annovera
Della tradita i gridi;
Ma non si lancia a toglierle
Dal sanguinoso crine
Il serto delle spine
Per darlo ai percussor.
E se talun fra il sibilo,
Degli itali laureti
L’alta del cor risuscita
Ira de’ tuoi profeti,
Fremi, o gran Dio! lo dannano
Alla catena e al bando…
Quando i tuoi giusti, oh! quando
Vendicherai, Signor!
E là frattanto il barbaro
Spia da’ lombardi colli
L’ire selvagge, e un brindisi
Manda ghignando ai folli.
Poi sul guancial men timida
China la testa a sera,
E forse all’alba spera
Rizzarsi alla tenzon!
E l’armi nostre, ahi! deboli
Saranno ed infelici;
Chè chi la madre insanguina,
Non può ferir nemici.
Così rompendo il Teutono
Nelle pollute stanze,
Misurerà le danze
De’ nostri ceppi al suon.
Tresca intanto la turpe semenza;
Pane d’odio al suo desco si frange,
Si tracanna licor di demenza.
Poi da’ sabbati l’ebbra falange
Fuor si vomita, e ruota il flagello
Sulla inerme, che sotto vi piange.
Orsù! dunque, raccogli il fardello,
O percossa tu pur: ma sorridi,
Dolce musa, al tuo dolce fratello.
Altre stelle vedremo, altri lidi,
Qua lasciando uno stuol numerato,
Scudo a noi, d’animosi e di fidi;
Che le tempia all’iniquo peccato
Solcherà con le cifre dell’ira,
E il dolor ci farà vendicato.
Dolce musa, per l’aure s’aggira
Dell’Arabia un augel, che si pasce
Negli odor della mistica pira.
Poi, combusto dall’orride fasce
Del roveto, più bello e raggiante
Dal suo cenere mesto rinasce.
Musa mia, questo afflitto esulante
Muore anch’egli; ma tu, mia cortese,
Non turbar le pupille tue sante.
Nacque anch’ei nell’arcano paese,
Dove è dato alla spoglia che muore
Vendicar della morte le offese.
Oggi passa in silenzio il mio cuore;
Ma dimani il Signor lo risveglia,
Perché giusto coi giusti è il Signore.
Tu frattanto dêi compier la
veglia
Al defunto, che in cento, che in mille,
Di qua lunge, orizzonti si speglia,
Per recar nelle consce pupille
Tali sguardi e sul labbro tai cose,
Che ai codardi sien folgori e squille.
Mentre te di ligustri e di rose
Cingerò con le man rinnovate,
Come il crin delle donne amorose.
E in baciar le mie labbra rosate,
Sentirai come pregne di cielo
Son le spoglie alla morte involate.
E tu allor nel tuo candido velo
Sorgerai solitaria e gentile;
E, al tuo canto, dai vepri e dal gelo
Su per l’aura un effluvio sottile
Salirà: poi fia rotta repente
Ogni gleba in un cespo d’aprile.
E in quell’ora profonda e ridente,
Là seduta nel tuo paradiso,
Ti vedran se sei bella e innocente.
E diran: «Per che spazio è diviso
Il suo canto dai canti mortali,
E dal riso del mondo il suo riso!
Pera il giorno che un nembo di strali
Fu scagliato per aura sì pura,
A ferir quel sembiante e quell’ali!»
E tu, nova e celeste figura,
Riderai, come donna che pensi,
D’altre cose, e di queste non cura.
E, a velarti, una nube d’incensi
Mollemente verrà dalla valle
In quell’ora di giubili immensi.
Ma tu intanto ti grava le spalle
Della croce del tuo pellegrino,
E soletta dividi il suo calle.
Non si monta per altro cammino
Su quel giogo coperto di fiori,
Non si splende gentil cherubino
Che passando per questi dolori.
Con
occhi cento, il livido
Poter, che in me s’indraga,
Freme dei pigri farmachi,
Conta le notti e i dì;
E va chiedendo ai rigidi
Mastri dell’arte maga
Quando potrà quest’ibrida
Larva sgombrar da qui.
—
Perchè riman? del popolo
L’urlo e il pugnal non teme?
Che fa costui? Domestico
Sangue toscan non è.
O perché dunque, incognito
D’are, di patria e seme,
Un volgo reo gli prodiga
Fiori e speranze al piè?
Via
questa larva! il folgore
De’ canti suoi possiede.
Via questa larva! i facili
Sonni turbar ci può.
Molti che noi non amano,
In questa larva han fede!
Oh tristo il dì che l’ospite
Arno abitar pensò!
Ma,
più dell’altre, oh perfida
Notte per noi fallita,
Che lo dovea, fra tacite
Armi, di qua snidar!
Gli saria stata ignobile
Sfregio l’ambigua uscita…
E invece un’egra coltrice
Or gli diventa altar!
E un
cicalío di bamboli
Sta contro noi frattanto:
E a denunciar quest’opera,
Spreca lamento e stil.
Oh che rovente lamina
È questo reo compianto,
Che penetrò le viscere
Della città servil! —
Non
v’accorate. I pallidi
Labbri di sangue schietto
Stillano, è ver; mi macera
Cupo, latente ardor;
Da scellerate affrangere
Tossi mi sento il petto,
L’ore notturne io numero;
Brucio di febbre ancor;
Ma
sdegnerei di crescervi,
O tribolati e vili,
L’ansie paure e i torbidi
Sogni che il ciel vi dà.
Or voi la man stringetemi,
Pochi, di cor gentili;
Firenze, addio. Fu nobile
Colpa la mia pietà.
M’odi.
Il fatal tuo lastrico
Cela un vulcan, nè il sai:
Sulle colombe i cupidi
Falchi l’artiglio aprir:
E tra i ruscelli e i salici
Dall’ombra de’ rosai
Le tenebrose vipere
Si slanciano a ferir!
Certo,
le ree potrebbero
Morir sotto i piè vostri,
O fieramente unanimi,
Se vi bastasse un cor.
Dio più non manda gli angeli
Per duellar co’ mostri;
E l’uom, che inerte spasima,
Merita il suo dolor.
Sacra
è la casa, il tempio,
La libertà, la croce,
Gli avi, le spose, i pargoli,
Il campo ed il confin;
Con chi li lascia offendere
Sia l’offensor feroce,
E al neghittoso imbianchisi
Nel vituperio il crin.
Non ti
turbar, mia tenera,
Mia dolce ispiratrice!
Che l’ansio cor ti palpita
Pe’ miei perigli, io so:
Ma sia dannata ai vermini
Bocca che il ver non dice;
Reo di silenzi al vindice
Mio Dio non salirò.
Vieni
e partiam. Con vincoli
Di fede e di coraggio
Ci unì la vita: esanime
Io sarò teco ancor.
Mi bacerai de’ lùgubri
Ceri notturni al raggio,
Mi deporrai sul feretro,
Lo cingerai di fior.
Quindi
sull’erma lapide,
Chiusa in tuo vel pudico,
Risponderai, se a chiedere
Ti venga il passeggier:
— «Le spoglie pie qua dormono
D’un mio profondo amico,
Cui lieti dì non risero,
Perché non tacque il ver.». —
Sorella
mia, non piangere…
Dammi un amplesso. Oh! vedi
Come soave e placido
Laggiù tramonta il sol?
Sorella mia, con simile
Pace si muor, mel credi.
Rose vogl’io, non lacrime
Sul funebre lenzuol.