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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • TEDIO E PRIMAVERA
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TEDIO E PRIMAVERA

La cingallegra canta

Sul ramuscel natio,

Che april di verde ammanta.

Con dolce susurrio,

Come un’argentea zona,

Brilla fra l’erbe il rio.

La sua natal canzona

L’errante savoiardo

Sulla gironda suona.

Esce un acuto dardo

Tinto d’ebbrezza arcana

Da ogni virgineo sguardo.

Qual cervo alla fontana,

S’abbevera d’amore

Tutta la stirpe umana.

Sol io, sol io nel core

D’ogni terrestre gioia

Ho disseccato il fiore.

La solitaria noia

M’assalta, come fiera,

E la sua preda ingoia.

Oh, allegra primavera,

Come oramai mi sento

Altro da quel ch’io m’era!

All’occhio infermo e lento

Si semina di stelle

Indarno il firmamento.

Son dissipate ancelle

Dalla nativa casa

Le mie canzon più belle.

L’alma di tedio invasa,

Vinta a nefande lotte,

È come selva rasa,

Sulle cui piante rotte

Riposa il ladro, e rugge

Il vento della notte.

La mia ragion si strugge

In campo d’ombre; e il senso

Fin del dolor mi fugge.

Or che son io? che penso

A questo mondo in faccia

E a questo cielo immenso?

Ferrea catena allaccia

Lo spirito infinito

E le impotenti braccia.

E son nocchier smarrito

In barca, che si spezza

Per mar che non ha lito.

Dell’onde sull’altezza

Il Tempo mi deride

E a disperar m’avvezza.

Perché, perché mi stride

La livida tempesta

Sul capo e non m’uccide?

Ahi, la mercede è questa

Del vagheggiato sole,

Che m’è sepolto in testa!

Sulle innocenti aiuole

Io seminai sospiri,

E non mietei che fole,

Ah, nei suoi vasti giri

Altro non è la terra

Che un astro di martìri,

Dove si piange ed erra,

Sin che una zolla breve

O un sasso vil ci serra!

Nè la cadente neve,

Nè la nascente rosa,

Nè l’aura fresca e lieve,

Nè fama gloriosa,

Nè dei rimasti i lai,

Nè ogni creata cosa,

Nè il vasto ciel co’ rai,

Nè il mar colla sua voce

Ci sveglierà più mai.

Questo è il pensier che coce,

Questo è il calvario orrendo,

Questa è l’orrenda croce.

Io già su lei mi stendo,

E nell’iniqua fossa

Pria di morir discendo.

E queste polpe ed ossa

Si disfaran, siccome

Fronda dal ramo scossa.

Or che mi giova un nome

E un maledetto alloro

Sulle tradite chiome?

Sogni e fantasmi d’oro

Il mio guanciale han cinto,

Dovrò sparir con loro.

E sul caduto estinto

Sorriderà la morte,

Come al cader d’un vinto.

Oh, mie superbie corte,

Un’ombra inerme io sono,

E mi credeste un forte?

Oh, mente mia, che in trono

Un dì seder ti parve,

Sei vanità di suono!

Oh, mie celesti larve

Dell’anima fanciulla,

Quando da voi disparve

La luce della culla,

Voi mi lasciaste adulto

Col mio saper che è nulla!

Studii del mondo occulto,

Baldanze del pensiero,

Io vi beffeggio e insulto.

Trista rugiada è il vero:

Altro non nutre e pasce

Che il fior del cimitero.

Beato è chi non nasce,

O generato appena,

Muor nelle bianche fasce!

Ah, su quest’empia arena

D’esilio e di peccato,

Sola una larva è piena

Dei raggi del creato:

La larva che matura

Sotto uno sguardo amato!

Larva che poco dura,

Ma che di fior coperti

Ci mena in sepoltura,

Della sua mano i serti

Trasformano in altari

I funebri deserti.

Ella gli spasmi amari

Del tormentato ingegno

Rende soavi e cari.

Ella di Dio dà segno

In questa buia chiostra

Dove ha Satàno il regno,

Deh, se il mio cor si prostra

A’ cenni tuoi, gran Dio,

Deh, per pietà mi mostra,

Scossa dal lieve oblio,

La dolce larva ancora

Del paradiso mio!

Dai vesperi all’aurora

Ben io la sogno, e l’alma

Come il pensier l’adora.

Simile a nivea salma,

Ella talor mi brilla

Per notte azzurra e calma.

Talor la sua pupilla

Il solitario foco

Dal cor mi dissigilla.

E allor celeste è il loco

Dond’io la guardo e tremo,

Divino è il tempo e poco.

Allor l’inerte e scemo

Vigor mi torna, e sento

Tutto il mio ben supremo.

E in mute ebbrezze intento,

Fuor che il pensier, che l’ama,

Di me tutt’altro è spento.

Nulla il mio cor più brama,

Perché rapito in lei

Altri che lei non chiama,

Nè ben narrar potrei

Se sien di morte o vita

I rapimenti miei.

Ma so ch’è una romita

Gioia profonda e strana,

Ch’io non ho mai sentita.

E forse ancor l’insana

Mente delira, e crede

A una fredd’ombra e vana,

Ombra che vola e riede,

Ombra che inutil vive,

O ad altri amor dà fede.

Cocenti e fuggitive

Ore del nostro sogno,

Perché si piange e scrive?

Penna, che invan rampogno,

Perché non ti rifiuti

A questo reo bisogno

Lampa, che guizzi e muti

Gli ermi chiarori tuoi,

Perché non mi saluti,

Perché morir non vuoi?

Segni d’inchiostro informi,

Perché vivete or voi?

Mente, perché non sciormi

Dalle malíe fallaci?

Pensier, perché non dormi?

Cor mio, perché non giaci?

Taci, indignata musa:

China la testa e taci.

La fantasia confusa

Cinta è d’angoscia e d’ira,

Come caverna chiusa,

Dove il lion s’aggira,

O dove, occulta a tutti,

Crepita ardente pira.

Ah! del pensiero i lutti

Lo rodono e lo sfanno,

Come la nave i flutti!

E l’uom, vivente inganno,

Altro non sente alfine

Che il suo pensier tiranno.

E voi, nelle divine

Aure del ciel, che fate,

Perpetue pellegrine

Prima dell’uom create,

Stelle d’arcane tempre?…

Ah! voi di là ruotate

Sull’uom che sogna sempre!…

 




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