IL DUBBIO
Là di Lutezia assisi
In un fiorito parco,
Caldi dal nappo i
visi,
D’Egina il bel
Nearco,
Sir Dunistan
brittannico,
Il polonese Ermano,
E Pedro il cordovano
Fean brindisi
all’Amor.
L’Anglo sclamò giocondo:
— Viva di Kent la
rosa.
Vince ogni donna al
mondo
La mia futura sposa.
L’occhio cilestre ha
simile
All’onda de’ suoi
laghi,
Biondi i capelli e
vaghi
Come la luce e l’or.
—
— Viva, sclamò l’Ibero,
Il fìor d’Andalusia.
Nessuna ha il piglio
altero
D’Alma, la vergin
mia.
Le cade il crin
sull’omero
Come la notte bruno,
Passa e non cura
alcuno,
Ma le son tutti al
piè. —
Quel di Polonia alzando
Il nappo arrubinato,
— Dal dì, sclamò,
che al bando
Lo Czar m’ha
condannato,
Geme in Varsavia un
angelo
Sotto virgineo velo,
Sì altero e pio, che
in cielo
Uno simil non v’è. —
E l’Eginese: — O stolti,
Vedeste Argia
d’Atene?
Qual de’ femminei
volti
Al paragon le viene?
Cinzia una volta e
Venere
D’Egeo sonaron
l’acque,
Ma quando Argía ci
nacque
L’inno alle Dee
finì. —
Dai paragoni offeso
Ciascun nella sua
cara,
L’onor vantonne. E
sceso
Nella seconda gara,
L’un punse l’altro.
E avrebbono
L’armi fors’anche
tratto,
Ma quel di Spagna a
un patto
Gli ebri discordi
unì,
— Balziam, compagni, in
sella.
Corta è d’Amor la
strada.
Tutti la nostra
bella
Ad impalmar si vada.
Poi qui, fra un
anno, i talami
Vengano all’ardua
prova.
Chi indugia o non si
trova
Nota d’infame avrà.
—
Giuraron tutti. E in dorso
Salito al suo
destriero,
Ognun lo spinse al
corso
Verso il nativo
impero;
Securo ognun di
vincere
In quel torneo
cortese,
Dove sarian discese
La Fede e la Beltà.
Baciâr le donne liete
I ritornati amanti.
Poi con un’ara e un
prete
Furon tranquilli i
santi.
Dopo le nozze, il
tacito
Destin gittò il suo
dado;
E, i dì raccolti al
guado,
L’anno fatal scoccò.
Là di Lutezia antica
Sul Parco il vespro
scende.
Di Venere pudica
La stella in alto
splende.
Tre da un vïal
comparvero,
Ma scompagnati e in
duolo;
Tranne Nearco solo,
Che Argía per man
guidò.
E con cipiglio oscuro
Nearco ai tre si
volse:
— Così teneste il
giuro? —
E l’Anglo il labbro
sciolse:
— Splendea di Kent
sui margini
Cordelia, e mia
divenne;
Ma la sua fè non
tenne,
E di brillar cessò.
Ella sul ghiaccio eterno
Di Montebianco il
passo
Con me traea.
L’inferno
La spinse in orlo al
sasso,
E scompari. — Qui
pallido
Si fece l’Anglo in
viso,
E quel ch’ei tacque,
un riso
A rivelar bastò.
Sclamò l’Ispano: — Il fiore
Dell’Andalusia è
spento.
Lo sdegno del
Signore
L’ha dissipato al
vento.
Alma sorrise al
giovine
Don Diego in una
festa;
Ma l’onor mio
v’attesta,
Ch’ei sul mattin
perì.
Poscia, una volta, in mare,
L’empia, a scomposte
chiome,
Tremò sognando, e
urlare
La udii nell’ombre
un nome…
Siedea sul vasto
Atlantico
La notte e
l’uragano;
Io non frenai la
mano,
E il mar se la
inghiottì. —
E anch’ei con un sogghigno
Chinò la fronte
oscura,
L’Arcangelo maligno
Sembrando alla
figura.
Allor con più
terribile
Riso proruppe il
Greco:
— Fior d’innocenza
io reco
La bella Argía con
me.
I vostri fior son morti;
Il mio m’è sempre
accanto,
Sorridi, Argía. Tu
porti
Su tutte l’altre il
vanto. —
E ogni proferta
sillaba
Di tal velen fu
tinta,
Che ai piè cadergli
estinta
Era miglior mercè.
Quel di Polonia allora
Con mesto ardor
gentile,
Sclamò: — Felice
Eudora
Che non fu rea, nè
vile.
Ella pregò per
l’esule,
Pianse le notti e i
giorni,
Ne disperò i
ritorni,
E i suoi la
seppellîr.
Dormi in funerea veste,
Mia povera solinga.
Non più sorrisi o
feste,
Non più d’Amor
lusinga.
Sol quando i brandi
s’alzino
Per la natal mia
terra,
Sui patrii campi in
guerra,
Chiedo pur io morir.
—
I tre chinâr le ciglia
Di reverenza in
segno
Alla defunta figlia,
E di Sobieski al
regno.
Ma allor la illustre
vergine
Della contrada
Argiva,
Fatta di fiamma
viva,
Sorse, e così parlò:
— Rea non son io. Da frodi
E tradimenti altrui
Son maculati i nodi,
In che felice io
fui.
Beata, Eudora!
All’Erebo
Tu discendesti
almeno,
E d’un vivente i a
seno
La fede tua restò.
Da Satana voi nati,
E noi dal fianco
d’Eva,
Sempre sui nostri
fati
La vostra man si
aggreva.
E un sogno,
un’ombra, un impeto
Dell’ira o
dell’orgoglio,
A noi sovverte il soglio,
Che un breve amor ci
dà.
Là in dorso al
Montebianco
E sui nembosi
flutti,
Quell’altre due
fors’anco,
Per accusarvi tutti,
Al Dio che non
ingannasi,
Levan le fronti
caste,
E voi che giudicaste
Quel Dio giudicherà.
—
Uno sghignazzo obliquo
Dal bel Nearco
uscía.
Era Nearco iniquo,
O menzognera Argía?
Come due fredde
immagini,
Quegli altri due
rimasi,
Sentian de’ proprii
casi
Dubbio e spavento al
cor.
Quindi saliti in tergo
Dei corridor focosi;
Tutti al nativo
albergo
Volâr nell’ombre
ascosi;
Dietro seguiali
Satana
Per valli e per
caverne,
E sulle sfere eterne
Gemea velato Amor.