FORESTA
Numina per
sylvam ludunt: vos carpite flores,
Nymphae.
Come è fuor dell’usato
Tacita la foresta!
Non allegro latrato
Di cani o tibia di pastor tu senti:
Nelle sue verdi chiome
Pur non giocano i venti.
O come strana, o come
Ell’è, senz’esser mesta!
Se tu intendi l’udito,
Mia dolce Azzarelina,
Ti fere un mormorio
Sottil, vago, infinito:
Non altro. È la divina
Iside che s’asconde
Sotto i muschi e le fronde?
Od è un più dolce Iddio
Che qui sospira? Io nol so dir, ma parmi
Che una potenza arcana
È qui. Son forse i carmi,
Che il fauno e la silvana
Van susurrando lieti
Dentro il crin degli abeti,
O sotto le rugose
Felci che il lume della luna imbianca?
Dalle segrete cose
Io qualche nota so rapir talvolta:
Qui mi t’assidi a manca,
Azzarelina, e ascolta.
In questa verde selva
Tutto è laccio d’amore:
L’erba favella al fiore,
Il fior favella all’albero,
E l’albero alla belva,
E la belva feroce o la gentile
Al ritornante aprile.
In questa selva bruna
Le deïtà più belle
Favellano alle stelle,
Parlan le stelle all’etere,
E l’etere alla luna,
E la luna alla Notte e questa ai tanti
Suoi pensierosi amanti.
Nell’alto verde io teco
Favello, Azzarelina;
E una cara indovina,
Che ti ripete il murmure
Delle mie voci, è l’Eco;
E l’Eco parla all’aura, e l’aura lieve
Parla al tuo vel di neve.
E il candido tuo velo
Parla al tuo core, ed io
Parlo con ogni iddio
Di questa selva, e il pelago
Parla di noi col cielo;
E, più che giunco il rivo o foglia il ramo,
Azzarelina, io t’amo.
È questa selva eterna,
Perchè ritorna maggio,
Perchè degli astri il raggio
Molle ne irrora i cespiti,
Pur quando gela e verna:
Perchè fresco un umor, come in noi due,
Stilla nell’urne sue.
Qui sorgerà la festa
Dei bruni veltri ancora;
E alla ridente aurora,
Dei mandrïani il cantico
S’udrà per la foresta:
E numi e ninfe nelle conscie grotte
Invocheran la Notte.
Sui talami muscosi
Quanti sospir' sommessi,
Quanti teneri amplessi,
Mentre usciran le amabili
Ore danzando! O ascosi
Baci rapiti ai sacri boschi in seno,
Chi vi pon legge o freno?…
Non ha dolcezze uguali
Fior d’Ibla o fior d’Imetto,
O nel divin banchetto
Ciò che invermiglia il calice
Al Re degli immortali;
Nè ottien poi sempre chi ha corona e trono
D’un di quei baci il dono.
Azzarelina, oh! bada
Che alata è la terrena
Letizia. A me catena
Fa’ di tue braccia: è limpido
Il ciel, nella rugiada
Spira l’ambrosia, son fioriti i dumi:
Questa è l’ora dei numi!
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Com’è, com’è profondo
Il silenzio del bosco
E quel degli occhi tuoi!
Dimmi: è scomparso il mondo
O il mondo è qui con noi?
Io più non mi conosco,
E in me stilla un languor che sembra morte.
Le tue braccia rattorte
Al collo mio, come fiorenti rami
Di mandorlo, colora
Col suo raggio la luna,
Ma riso o voce alcuna
Sul tuo labbro non fiora.
Giaci pallida e muta e al ciel somigli,
Che è muto a riguardar l’opra sua rara.
Scomposta abbruna l’erba
La tua treccia superba;
Due rugiadosi gigli
Son le tue tempia, o cara:
Potessimo dormire,
Senza più risvegliarci, in questa riva!
L’anima nostra è viva,
Poscia che amò, per una cosa sola,
Alta, gentil: morire.
Però che il tempo vola,
Vola e non torna più. Svegliarsi è grave
Dopo un sogno d’amore;
Dormi, fanciulla mia, dormi soave.
Come ti batte il core!
Che profondo sorriso
Ti spunta in fantasia?
Ah! tu sogni l’Eliso,
Azzarelina mia.
O nuvole che andate
Improvvise per l’aria,
La bella solitaria
Vi commova a pietà. Deh! non turbate,
Aquiloni del ciel, la sognatrice.
È maligno talento
Invidïar la breve ora felice
A noi schiatta percossa,
A noi che andiam, come fogliette al vento,
Nella cupida fossa.
Dormi, amor mio. Chi sa ciò che tu miri
Sotto il vel delle ciglia e in che sospiri
Tu spargi la infinita
Ridente anima tua fuor della vita.