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Giovanni Prati
Poesie scelte

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FORESTA

Numina per sylvam ludunt: vos carpite flores,

Nymphae.

Come è fuor dell’usato

Tacita la foresta!

Non allegro latrato

Di cani o tibia di pastor tu senti:

Nelle sue verdi chiome

Pur non giocano i venti.

O come strana, o come

Ell’è, senz’esser mesta!

Se tu intendi l’udito,

Mia dolce Azzarelina,

Ti fere un mormorio

Sottil, vago, infinito:

Non altro. È la divina

Iside che s’asconde

Sotto i muschi e le fronde?

Od è un più dolce Iddio

Che qui sospira? Io nol so dir, ma parmi

Che una potenza arcana

È qui. Son forse i carmi,

Che il fauno e la silvana

Van susurrando lieti

Dentro il crin degli abeti,

O sotto le rugose

Felci che il lume della luna imbianca?

Dalle segrete cose

Io qualche nota so rapir talvolta:

Qui mi t’assidi a manca,

Azzarelina, e ascolta.

 

In questa verde selva

Tutto è laccio d’amore:

L’erba favella al fiore,

Il fior favella all’albero,

E l’albero alla belva,

E la belva feroce o la gentile

Al ritornante aprile.

In questa selva bruna

Le deïtà più belle

Favellano alle stelle,

Parlan le stelle all’etere,

E l’etere alla luna,

E la luna alla Notte e questa ai tanti

Suoi pensierosi amanti.

Nell’alto verde io teco

Favello, Azzarelina;

E una cara indovina,

Che ti ripete il murmure

Delle mie voci, è l’Eco;

E l’Eco parla all’aura, e l’aura lieve

Parla al tuo vel di neve.

E il candido tuo velo

Parla al tuo core, ed io

Parlo con ogni iddio

Di questa selva, e il pelago

Parla di noi col cielo;

E, più che giunco il rivo o foglia il ramo,

Azzarelina, io t’amo.

È questa selva eterna,

Perchè ritorna maggio,

Perchè degli astri il raggio

Molle ne irrora i cespiti,

Pur quando gela e verna:

Perchè fresco un umor, come in noi due,

Stilla nell’urne sue.

Qui sorgerà la festa

Dei bruni veltri ancora;

E alla ridente aurora,

Dei mandrïani il cantico

S’udrà per la foresta:

E numi e ninfe nelle conscie grotte

Invocheran la Notte.

Sui talami muscosi

Quanti sospir' sommessi,

Quanti teneri amplessi,

Mentre usciran le amabili

Ore danzando! O ascosi

Baci rapiti ai sacri boschi in seno,

Chi vi pon legge o freno?…

Non ha dolcezze uguali

Fior d’Ibla o fior d’Imetto,

O nel divin banchetto

Ciò che invermiglia il calice

Al Re degli immortali;

Nè ottien poi sempre chi ha corona e trono

D’un di quei baci il dono.

Azzarelina, oh! bada

Che alata è la terrena

Letizia. A me catena

Fa’ di tue braccia: è limpido

Il ciel, nella rugiada

Spira l’ambrosia, son fioriti i dumi:

Questa è l’ora dei numi!

. . . . . . . . . . . . . . . . .

 

Com’è, com’è profondo

Il silenzio del bosco

E quel degli occhi tuoi!

Dimmi: è scomparso il mondo

O il mondo è qui con noi?

Io più non mi conosco,

E in me stilla un languor che sembra morte.

Le tue braccia rattorte

Al collo mio, come fiorenti rami

Di mandorlo, colora

Col suo raggio la luna,

Ma riso o voce alcuna

Sul tuo labbro non fiora.

Giaci pallida e muta e al ciel somigli,

Che è muto a riguardar l’opra sua rara.

Scomposta abbruna l’erba

La tua treccia superba;

Due rugiadosi gigli

Son le tue tempia, o cara:

Potessimo dormire,

Senza più risvegliarci, in questa riva!

L’anima nostra è viva,

Poscia che amò, per una cosa sola,

Alta, gentil: morire.

Però che il tempo vola,

Vola e non torna più. Svegliarsi è grave

Dopo un sogno d’amore;

Dormi, fanciulla mia, dormi soave.

Come ti batte il core!

Che profondo sorriso

Ti spunta in fantasia?

Ah! tu sogni l’Eliso,

Azzarelina mia.

O nuvole che andate

Improvvise per l’aria,

La bella solitaria

Vi commova a pietà. Deh! non turbate,

Aquiloni del ciel, la sognatrice.

È maligno talento

Invidïar la breve ora felice

A noi schiatta percossa,

A noi che andiam, come fogliette al vento,

Nella cupida fossa.

Dormi, amor mio. Chi sa ciò che tu miri

Sotto il vel delle ciglia e in che sospiri

Tu spargi la infinita

Ridente anima tua fuor della vita.

 




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