CANTO TERZO
O giovinette, gioia vereconda
Delle case materne, a cui
dovrebbe
Vergin campo d’amori esser
la terra,
Quand’io vi veggo rotear ne’
balli,
Di rose e gigli incoronate
il crine,
Quand’io v’ascolto ne’
giocondi crocchi
Le memori narrarvi ore del
chiostro,
O le speranze del futuro
amante,
Non vi sorrido; ma pietà mi
stringe
Dolorosa di voi, che
imprenderete
La dura via tra poco. Una
celeste
Larva è l’amor, che spanderà
d’ebbrezza
La vostra notte; ma
sull’alba gli occhi
Vi nuoteran, senza saperlo,
in pianto.
Deh, se più tarda
del desìo vi splende
La visïon delle ridenti
nozze,
Deh non v’incresca, o
giovinette, il vostro
Vergine asilo e il queto
orto materno!
Deh non vi punga di
mutar la pace
Di quelle mura col rumor del
mondo!
Guai se una volta
lacrimaste i tempi
Non redituri! E se di spose
e madri
A quel tremendo ministerio
eccelso
Dio vi destina, di
più forte gente
Fate ricca la terra! Incliti
amori
E pietose virtuti al secol
novo
Date una volta; e la gentil
fortezza
Degli atti vostri avrà
corone e canto.
Ma fra quanta di rei
turba infelice
(ahi poche e stanche) i
verginali capi
Riposerete alla fiorita
landa
Voi, coraggiose martiri,
venute
La frale ad espïar anima
d’Eva!
E tu, mio Genio, pellegrin ti reca
Sul precipite abisso. E
quando ascolti
Altre misere incaute
approssimarsi,
Alzati e grida col furor
negli occhi
D’Edmenegarda il nome. E se
la turba
Dall’impeto è travolta,
allor dell’ali
Fatti un velo alla fronte, e
piangi e prega.
Passan l’ore sull’uom, passano i giorni
Che triste o lieto,
irremutabil sempre,
Numera il Sol. Ma le
speranze, i sogni,
Gli odii, gli amori, e
l’incalzarsi eterno
Delle memorie, e l’avvenir
celato,
E i durissimi tedii, e il
faticoso
Dibattersi dell’alma, e il
trovar pace
Dopo fieri cimenti, ahi
tarda e breve
E guerreggiata con orrenda
gioia
Da Satàna e dall’uom; questi
misteri
Non li numera il tempo. Anni
ed istanti
Con pari vol misurano.
Nessuno
Quei dell’altro indovina.
Han vita e moto
E sepoltura in noi; sin che
lo strale
Fischia della suprema ora
nell’alto,
Guizza il lampo di Dio sulle
tenèbre…
E quell’ambage non è più.
Chi tenta,
Poichè la rea fra le tradite
braccia
Tremò, chi tenta penetrar
gli abissi
Dell’anima sviata?… Ella
sorride;
Chiama, con voce più soave,
il nome
De’ suoi figli e d’Arrigo; e
in una tinta
Lieve di rosa s’incolora il
lungo
Pallor del volto. Più
profonda è fatta
La battaglia del cor, che
nessun vede,
Ma che improvvisa ad or ad
or balena
Da un sospir divorato e da
una fredda
Stilla di pianto.
E Arrigo?… Egli si
sforza
D’esser lieto, e non può.
Ben come un dolce
Fantasma, che talor passa
per l’ombre
D’un sogno tormentoso, ei si
dipinge
La fè d’Edmenegarda; e
l’accarezza
Come il dormente quella
bianca imago.
Ma, quasi mesta del notturno
gelo,
Fugge la bella forma, e
risepolto
Nelle tenèbre il sognator
sospira.
«Perchè quest’ombra di
sospetto a tergo
M’incalza sempre?… Ma, se
rea foss’ella,
Come potrebbe sostener sol
uno
De’ baci miei, nè di rossor
morirne?
Avria sconvolto le
sue leggi eterne
La natura ed il ciel? Come
in sì breve
Ora mutar l’angelico
costume?
Io demente l’accuso;
e chi sa quanto
Ella si strugge, e se de’
miei s’accorse
Dubbi codardi! Io vigilai
già troppo,
Nè mai l’aspetto di colui
m’apparve,
Nè ombroso un gesto, un moto
io mai non vidi
D’Edmenegarda mia, di quella
mite
Anima che talor si fea
tremante
D’un mover lieve di notturna
foglia,
D’un fior che le cadesse. Oh
questa è colpa,
È colpa in me, ch’io vo’
punir.»
Siffatti
Son d’Arrigo i pensieri. E
cerca ovunque
Disvïarne la mente. Ecco;
alla sua
Leggiadra donna d’abbellirsi
a festa
Amabilmente impera.»
— «Il gaio mondo
Vola a’ teatri. Edmenegarda,
altero
Fammi di te, tra tutte
quante bella!
Sentirai la virtù
delle immortali
Melodie di Rossini in bocca
a questo
Angelo ispano! Tutt’Europa
ai canti
Della Garcìa sospira.» —
Allegra accolse
E timida l’invito. Eran più
giorni
Che nol vedeva, consigliero
a entrambi
Il prudente timor. Forse
tra’ mille
Ritrovato coi destri occhi
amorosi
Quella sera l’avria.
Quanta vaghezza
D’abiti e forme! e che tesor
si spande
Di profumi e di luce, e che
diffusa
E terribile e mesta onda di
note
Per la bella Fenice!
Inni di gloria,
Canti d’amor, selvagge ire
dal petto
Fulmina Otello, e solitario
cade
Di Desdemona il pianto, e
sotto i salci
Freme l’arpa divina.
Oh! chi non arde,
Chi non gela a le lunghe e
disperate
Note d’amor, di gelosia, di
morte?
Suonano le commosse aure di
grida;
Palpita Arrigo; ed ella, in
quei tumulti
Soffocando il terror, giù
nella folla
Furtivamente il suo Leoni
affisa,
Che, chiuso in altre
voluttà, non plaude,
Ma profondo sospira.
I canti estremi
Lacerarono Arrigo; e quando
Otello
Con le sue mani furïose
estinse
Desdemona infelice,
inorridito
Pianse l’inglese e ricercò
sul volto
D’Edmenegarda una pietà
segreta…
Ed ella?… Indarno la chiedea
dal cielo!
Da molti giorni era
composto in pace
Il cor d’Arrigo; e carezzava
i figli
Festevolmente, e sulle sue
ginocchia
Se li togliea, facendoli
amorosi
Messaggieri di baci alla lor
madre.
E alfin, quel dubbio
ad espïar, risolse
Per qualche dì, con dilicato
affetto,
D’abbandonar la sua dolce
compagna
E le venete spiagge; anche a
rapirsi
Da quei duri pensieri.
A voi più volte,
O frïulane valli, inebrïato
Tornava Arrigo col desio;
che un’orma
In voi trovar della natal
sua terra
Gli parea sempre; e il
vostro aere cortese
Gli custodiva il più soave
arcano
Degli anni suoi; però che
sulle sponde
Del Tagliamento un dì vide
una mesta
Giovinetta vagar
pensosamente,
Al mite raggio delle prime
stelle
E ai fioretti del margo
acconsentendo
Qualche sospiro; e dimandò
chi fosse;
E più d’ogni altro gli fu
caro il nome
D’Edmenegarda. E ancora una
vaghezza
Lo pungea di mirar quelle
divelte
Torri, che la solinga edera
allaccia.
Campo una volta a baronal
fortuna,
Or son nicchia notturna alle
selvagge
Volpi, e per gli atrî, ove
suonâr le spade,
Passa a staccar qualche
frantume il vento,
Mentre in alto la bruna
aquila ondeggia,
E il fulmineo serrando arco
dell’ale,
Precipita alla preda. A quei
castelli
Lambe le falde impäurito e
passa
Il vïandante, e i colpi
della scure
Sull’erma balza il legnaiuol
sospende
Ad or ad or: chè dentro alla
solinga
Magion de’ Savorgnani ode un
feroce
Ballo di morte, e lungo
quelle sale
Vede traverso i colorati
vetri
Passar rossi fantasimi,
agitanti
Fiaccole e spade.
Anche il pensier d’Arrigo
Dietro quelle sognate ombre
correa.
Poi riposando a fantasie
gentili,
Rammentava, o gagliarda
Utino, l’opre
Del tuo Giovanni, che
attingea dai labbri
Del divin Raffaello il
benedetto
Soffio dell’arte che d’amor
si pasce,
E cielo e terra,
innamorando, crea.
E del merlato
Spilimbergo intorno
Udìa sull’aura reverente i
nomi
Del Vecellio e d’Irene, ambo
immortali.
E là trovar tra i
memori oliveti
Già gli parea la giovenil
sua vita,
E di là, le marine onde
solcando
Pregustava nel cor la
inaspettata
Voluttà dei ritorni.
E così volle,
E a la sua cara ne parlò.
Sostenne
Edmenegarda, tra la gioia e
il pianto,
Quella battaglia: e ch’ei si
rimanesse
Tremava; eppur lo scongiurò
di starsi;
E gioì del rifiuto; e insiem
rimorso
Di quel gaudio sentì.
Misera! il fato
Già ti chiuse ogni via,
tranne quell’una
Che d’abisso in abisso ti
sprofonda.
Povera foglia alla bufera in
preda!
«— Dunque tu parti!… Anche
per me saluta,
Arrigo mio, quei
colli, e le dilette
Rive del Tagliamento, e quei
beati
Campi! ma lungo il tuo
restar non sia!» —
E di vera tristezza eran
parole.
— «Noi ci vedremo in pochi
dì. Scrivetemi,
Edmenegarda!»
«Arrigo mio, m’è nuovo
Questo tuo far. Perché
nell’abbracciarmi
Non mi chiami del tu? Tetra
una nube
Ti sta sul volto, nè
stanotte il sonno
Ti consolò. Che hai?»
«Nulla, mia cara.
Prendi cura di te, pensami e
scrivi.
Addio, fanciulli!» —
Al sen tutti li strinse
E si partìa. Ma la rinata
spina
Laceravagli il cor. S’era
ingannato?…
O quella notte Edmenegarda
in sogno
Proferse un nome?… E ancor,
per quelle sale
Passando, acuto un brivido
lo colse.
«Quanto son vile! Non è ver.
Sì, vile…
Sì, demente son io.»
Ma, ad ogni passo
Verso la ripa, una gelata
mano
Sentia calar sul divampante
petto,
A respingerlo addietro. Egli
räuna
Ogni sua forza, quell’incubo
orrendo
Per debellar. Nè vinta era
la pugna.
«Tornarmen’io?… Pormi in
agguato?… All’arti
Del sospetto discendere?…
Follia!
Ma inumano è lo
strazio. E in un dì solo
Io quest’inferno dissipar
potrei.
Tanto è ch’io peno!
E in un sol dì la vita
Potrei mutarmi in paradiso
eterno!»
Lieve una piuma a traboccar bastava
Quella bilancia, e non tardò
la sorte
A gittarvela su.
Già il piè d’Arrigo
Monta la prora; già la corda
è sciolta;
Ei volse il capo… e fu per
caso; e sopra
La man passovvi; e vide… e
non s’illuse…
Vide colui, che con pupille
ardenti
Lunge, in agguato, a
contemplar lo stava.
Leoni sparve. Arrigo si raccolse
Un istante: ha risolto. A
terra scese;
La via rifece; per ignota
parte
Entrò; salì non visto: in
una stanza
Orba di lume si celò; la
fronte,
Quasi per molto faticar, gli
cadde
Sull’ansio petto; e un’onda
di pensieri
Lunghi ostinati gli muggìa
d’intorno.
Immenso amor, vergogna, ira,
sospetti,
E terrori e speranze, eran
commiste
Quasi in un vario e
vorticoso nembo
Di tenèbra e di luce; e
dentro a quella
Tempestosa meteora — spïando
—
Stava l’inglese all’infernal
tortura
Ogni piè, che sonasse alle
sue scale,
Gli era un colpo nel petto;
ogni persona
Che arrivasse, una morte. E
in pochi istanti
Ore ed ore passarono.
Arrossiva
Già di sé l’infelice… allor
che un’ombra
Rapida intese. Ei trema; la
pedata
Si ferma all’uscio; e l’uscio
s’apre; ei guarda,
Misero! guarda; e vede
un’ombra… un uomo…
Vede Leoni trapassar!
Le fibre,
Le vene, l’ossa gli divampan
tutte.
Ma sbarrata e di vetro è la
pupilla;
Cadaverico il volto; e sol
la vita
Da un tremor lieve delle
labbra appare.
Inchiodato così stette un
istante
Indi sorrise; e due
gelate stille
Dagli occhi morti gli colar
sul petto.
Stette ancora un
istante. Alfin si mosse
Quel pallido fantasma; ad
ineguali
Passi arrivò sulla tradita
soglia;
E l’aperse — e li vide — e
d’uno sguardo
Li fulminò. — Poi chiuse.
Annichiliti,
Trascolorati, come fredde
pietre
Restäro entrambi.
Edmenegarda tenta
Trar dalla gola un solo
accento; è indarno.
E, a forza
sollevando la convulsa
Testa, gli accenna di
partir. Leoni
La man ghiacciata le serrò.
«Congiunti,
Donna, per sempre!…»
E a proseguir non valse:
E, sovra il gel delle livide
labbra
Non baciato baciandola, col
capo
Vertiginoso, a strascico le
membra
Disviluppando, di colà si
tolse.
Arrigo il vide ripassar. Fu un punto,
Ch’ei non pose sovr’esso
l’omicida
Mano a strozzarlo. Ma,
serrati i denti
E incrociate le braccia, ei
si contenne.
E quando il seppe
dileguato, un cupo
Urlo mandò qual di ferito
tigre;
E sull’infame limitar, di
nuovo
Ritto, immobile, apparve.
La tapina
Nol vide già: chè le cadea
la fronte,
Quasi con peso d’agonia, sul
petto.
Ma pur — senza
vederlo — a sè davanti
Lo sentia, lo sentia, muto e
tremendo.
E si sforzò di sollevar le
braccia,
E congiunte le palme, senza
pianto,
Senza parola, verso lui le
stese.
«Non pregate, o signora.
Ospite io v’ebbi
Sett’anni; or basta. Ad
altre mense, ad altri
Talami andrete.»
Uscir quelle parole
Fulgoreggiando. Traboccò
riversa
Edmenegarda, e una
schiumosa riga
Mista di sangue sui
guanciali apparve.
Un urto!… un urto
ancora… e a terminarla
Sarìa bastato.
Ma il Signor non volle!