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Giovanni Prati
Poesie scelte

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  • GELOSIA ORIENTALE
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GELOSIA ORIENTALE

Coperto la fronte di mirti e d’allori,

       Tra l’arme e il tripudio di compre beltà,

Cinquanta odorose stagioni di fiori

       Mirò sulla terra Braimo pascià.

Eppur su quel crine non fiocco di neve,

       Non velo di nebbia nell’occhio seren;

Al nappo d’amore quel labbro non beve

       Che pronta non arda la fiamma del sen.

La bella Odalisca fra tutte le belle,

       Zorama di Gaza, con tacito piè

Al pallido varca fulgor delle stelle

       La soglia gelosa del vago suo re.

E quando sull’alba rimira vestite

       Le punte dei chioschi d’un dolce color,

Le coltri abbandona sì lungo gioite

       Ancor colle labbra stillanti d’amor.

E irride superba le vinte rivali

       In duri abbandoni dannate a languir;

Chè pende la gioia de’ baci regali

       Da un sol di Zorama segreto sospir.

Ma sono due sere che lenta Zorama

       S’interna fra l’ombre d’occulti sentier,

Che all’opere usate le ancelle non chiama,

       Che ha grave la fronte d’un tetro pensier.

Volando una notte, con petto più anelo,

       A’ gaudi promessi da un cenno del dì

O vide, o le parve, trascorrere un velo

       Che lungo tra gli archi, qual nebbia, svanì.

Fu larva? fu donna? Zorama non crede

       Le storie che il buio spavento sognò;

Eppure in quell’ora dimanda una fede,

       Che il duro suo fato più darle non può.

Or dunque, fu donna!… Repente quel viso

       Smarrì la celeste nativa beltà,

Fu il gel della tomba sul morto sorriso,

       Ma quel che è nell’alma nessuno lo sa.

Ancora una notte del sire all’amplesso

       Ritorna; si scontra nel velo fatal;

Seida, Seida! L’ha vista dappresso;

       Tentò, ma non trasse l’occulto pugnal.

Non grida, s’avventa. La serra alla gola,

       Si svinghia Seida, s’afferrano ancor;

Ormai di due vite s’è fatta una sola,

       Son strette due tigri da mutuo furor.

Ma un gemito acuto quell’aure percosse,

       Ma un corpo sul calle riverso piombò.

Non chieder se amasti, l’estinta qual fosse.

       Star contro alla serpe la rosa non può.

Zorama la guata. Raccoglie le chiome:

       Nel vel di Seida si terge la man

Cospersa di sangue; la chiama per nome,

       La scuote alla vita con scherno inuman.

— Tu di fata hai l’orma lieve,

Rubi il canto all’usignuol;

Il tuo volto è come neve,

Il tuo sguardo è pari al sol.

  E perchè non ti risvegli,

O degli angeli il più bel?

Ricomponi i tuoi capegli,

Vieni in braccio al tuo fedel. —

.  .  .  .  .  .  .

E via la trascina sin presso alle soglie

       Fatali; sul marmo la gitta; e perchè

Ancor di bellezza un raggio s’accoglie

       Sul volto a Seida, la sforma col piè.

E ancor non è paga. Gelosa, furente

       Ne interroga il core, lo sguardo, il respir;

Non cerca se è morta, la brama vivente

       Per anco poterla vedere a morir.

Poi tra la luce e i balsami

Dell’amoroso loco

Entra Zorama. Indocile

Per inusato foco

La invita alle sue coltrici

Il bello e infido Sir.

— Zorama, oh! perchè pallida

Mi guardi e non rispondi? —

— So che nel petto i gaudii

D’un altro amor nascondi;

Che in abbandono e lacrime

Il mio dovrà perir. —

— Oh, che di’ tu, se l’unico

Grande amor tuo mi dona

Più che i miei cento popoli,

Più che la mia corona?…

Calma l’incerto spirito,

Cara, e t’affida in me.

— Sì; ma v’è tal, che il palpito

D’un impudico affetto

Non cela… e se ti nomina

Ti chiama il suo diletto. —

— La invereconda accennami;

Parla, Zorama, ov’è? —

— Ma è dolce come un roseo

Sorriso del tramonto;

È vaga come un zefiro

Tra i fior dell’Ellesponto… —

— Ella è più rea d’un demone

Se pianto a te costò. —

— Gran pianto!… E qui pesavami

Sempre un’orrenda idea.

Ogni mia fibra, a scorgerla,

Furiosamente ardea.

M’ascolta; i tuoi vestiboli

Ella pur or calcò.

Noi ci scontrammo: — «Amabile,

Bella Zorama, addio.

— Che fai Seìda? —  Io vigilo,

E penso all’amor mio. —

Parti, gelato è l’aere. —

— Gelo non sente amor.

Qui vo’ restarmi. — Appressati,

Braimo; ancor v’è forse.

Così Zorama. E subito

S’alzò, la man gli porse;

Sentì Braimo un brivido

D’incognito terror,

.  .  .  .  .  .  .

Si schiude la porta; del sire lo sguardo

       S’affigge in un corpo; fremendo ristà;

Prorompe Zorama con riso beffardo:

       — Paura del gelo l’amore non ha. —

Il resto è mistero. Ma d’urla mortali

       Quegli archi segreti suonarono allor;

E i bianchi pilastri di larghi e fatali

       Vestigia di sangue rosseggiano ancor.

 




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