GELOSIA ORIENTALE
Coperto la fronte di mirti e
d’allori,
Tra l’arme e il tripudio di compre beltà,
Cinquanta odorose stagioni
di fiori
Mirò sulla terra Braimo pascià.
Eppur su quel crine non
fiocco di neve,
Non velo di nebbia nell’occhio seren;
Al nappo d’amore quel labbro
non beve
Che pronta non arda la fiamma del sen.
La bella Odalisca fra tutte
le belle,
Zorama di Gaza, con tacito piè
Al pallido varca fulgor
delle stelle
La soglia gelosa del vago suo re.
E quando sull’alba rimira
vestite
Le punte dei chioschi d’un dolce color,
Le coltri abbandona sì lungo
gioite
Ancor colle labbra stillanti d’amor.
E irride superba le vinte
rivali
In duri abbandoni dannate a languir;
Chè pende la gioia de’ baci
regali
Da un sol di Zorama segreto sospir.
Ma sono due sere che lenta
Zorama
S’interna fra l’ombre d’occulti sentier,
Che all’opere usate le
ancelle non chiama,
Che ha grave la fronte d’un tetro pensier.
Volando una notte, con petto
più anelo,
A’ gaudi promessi da un cenno del dì
O vide, o le parve,
trascorrere un velo
Che lungo tra gli archi, qual nebbia, svanì.
Fu larva? fu donna? Zorama
non crede
Le storie che il buio spavento sognò;
Eppure in quell’ora dimanda
una fede,
Che il duro suo fato più darle non può.
Or dunque, fu donna!… Repente
quel viso
Smarrì la celeste nativa beltà,
Fu il gel della tomba sul
morto sorriso,
Ma quel che è nell’alma nessuno lo sa.
Ancora una notte del sire
all’amplesso
Ritorna; si scontra nel velo fatal;
Seida, Seida! L’ha vista
dappresso;
Tentò, ma non trasse l’occulto pugnal.
Non grida, s’avventa. La
serra alla gola,
Si svinghia Seida, s’afferrano ancor;
Ormai di due vite s’è fatta
una sola,
Son strette due tigri da mutuo furor.
Ma un gemito acuto
quell’aure percosse,
Ma un corpo sul calle riverso piombò.
Non chieder se amasti,
l’estinta qual fosse.
Star contro alla serpe la rosa non può.
Zorama la guata. Raccoglie
le chiome:
Nel vel di Seida si terge la man
Cospersa di sangue; la
chiama per nome,
La scuote alla vita con scherno inuman.
— Tu di fata hai l’orma
lieve,
Rubi il canto all’usignuol;
Il tuo volto è come neve,
Il tuo sguardo è pari al
sol.
E perchè non ti risvegli,
O degli angeli il più bel?
Ricomponi i tuoi capegli,
Vieni in braccio al tuo
fedel. —
. .
. . .
. .
E via la trascina sin presso
alle soglie
Fatali; sul marmo la gitta; e perchè
Ancor di bellezza un raggio
s’accoglie
Sul volto a Seida, la sforma col piè.
E ancor non è paga. Gelosa,
furente
Ne interroga il core, lo sguardo, il respir;
Non cerca se è morta, la
brama vivente
Per anco poterla vedere a morir.
Poi tra la luce e i balsami
Dell’amoroso loco
Entra Zorama. Indocile
Per inusato foco
La invita alle sue coltrici
Il bello e infido Sir.
— Zorama, oh! perchè pallida
Mi guardi e non rispondi? —
— So che nel petto i gaudii
D’un altro amor nascondi;
Che in abbandono e lacrime
Il mio dovrà perir. —
— Oh, che di’ tu, se l’unico
Grande amor tuo mi dona
Più che i miei cento popoli,
Più che la mia corona?…
Calma l’incerto spirito,
Cara, e t’affida in me.
— Sì; ma v’è tal, che il
palpito
D’un impudico affetto
Non cela… e se ti nomina
Ti chiama il suo diletto. —
— La invereconda accennami;
Parla, Zorama, ov’è? —
— Ma è dolce come un roseo
Sorriso del tramonto;
È vaga come un zefiro
Tra i fior dell’Ellesponto…
—
— Ella è più rea d’un demone
Se pianto a te costò. —
— Gran pianto!… E qui
pesavami
Sempre un’orrenda idea.
Ogni mia fibra, a scorgerla,
Furiosamente ardea.
M’ascolta; i tuoi vestiboli
Ella pur or calcò.
Noi ci scontrammo: — «Amabile,
Bella Zorama, addio.
— Che fai Seìda?
— Io vigilo,
E penso all’amor
mio. —
Parti, gelato è
l’aere. —
— Gelo non sente
amor.
Qui vo’ restarmi. — Appressati,
Braimo; ancor v’è forse.
Così Zorama. E subito
S’alzò, la man gli porse;
Sentì Braimo un brivido
D’incognito terror,
. .
. . .
. .
Si schiude la porta; del
sire lo sguardo
S’affigge in un corpo; fremendo ristà;
Prorompe Zorama con riso
beffardo:
— Paura del gelo l’amore non ha. —
Il resto è mistero. Ma
d’urla mortali
Quegli archi segreti suonarono allor;
E i bianchi pilastri di
larghi e fatali
Vestigia di sangue rosseggiano ancor.