CAPITOLO
XIV.
Le
Sicilie.
In una
calda serata di estate, sul tardi, sir John, Lucy e Antonio sedevano sulla
loggia attenti al canto degli usignuoli, e mirando il corso della luna
lentamente cadente. E mentre il suo splendido disco, fermatosi un momento sulla
cima della collina di Bordighera, lanciava onde di luce tremule come fiamma a
traverso quella folta corona di alberi, Lucy proruppe in un leggier grido di
piacere:
- «Non
pare un vulcano?» domandò; «io non ne ho veduti mai, ma immagino che dev'essere
come quello,» e indicava la collina.
-
«Avete ragione,» disse Antonio; «gli somiglia tanto che mi par quasi di
guardare la mia vecchia amica, l'Etna, ma in miniatura. Mi ricordo quelle notti
felici, quando osservavo seduto sulla terrazza della mia casa in Catania i
segni solenni di un'imminente eruzione, e sognavo desto gli splendidi sogni
dell'avvenire. Il presente,» continuò con un mesto sorriso, «ha così poca
rassomiglianza con i miei sogni d'allora, come somiglia l'infocato liquido alla
fredda lava modellata dai lazzaroni in fantastici ornamenti per
guadagnar qualche grano dai forestieri.»
Questi
detti provocarono molte domande da parte di Lucy, e molte risposte del Dottore
intorno l'Etna e Catania e la Sicilia; nelle quali Antonio ebbe agio di
stimmatizzare con forti parole quello che egli chiamava il mal governo della
sua infelice isola natìa. Sir John non lo poteva udire senza emettere le sue
proteste: - «Via via, siate giusto,» opponeva il Baronetto; «i re, in una
questione che è di vita o di morte per essi, non avranno dunque nemmeno la
facoltà di difendersi?»
-
«Fate la domanda nel senso opposto, e voi colpirete meglio nel segno,» replicò
Antonio! «Una nazione non avrà dunque la facoltà di proteggere e difendere la
sua libertà e la sua indipendenza?»
-
«Certamente,» disse il Baronetto, «ma voi vi avanzate troppo, troppo davvero.
Se i re qualche volta sono spinti agli estremi, di chi è la colpa? Certo del
partito col quale, non è possibile alcuna transazione; - dico del partito
ultra-democratico, che non può essere soddisfatto se non piantando repubbliche
sulle ruine di tutti i troni.»
-
«Partito ultra-democratico! repubbliche?» esclamò Antonio. «Chi sognò mai di
repubblica in Sicilia? Se noi arriviamo a questo, e può darsi un giorno o
l'altro, sarà per opera degli stessi Borboni. I Siciliani sono un popolo
essenzialmente monarchico. Le loro tradizioni, le abitudini, i costumi hanno
profonde radici nella monarchia. Noi siamo debitori ai re delle nostre libere
istituzioni, e la Sicilia, fu rispettata e felice durante una lunga successione
di re. Quando la tempesta del 1789 spazzò via i Borboni napolitani dai loro
dominii di terra ferma, ove trovarono essi sicuro ricovero, assistenza di ogni
sorta, e cuori fedeli se non nella fedele e leale Sicilia? Quel che essi hanno
dato in ricambio, tutto il mondo lo sa. E chi ci ajutò a consolidare il nostro
libero edifizio, intendo dire chi assistette alla formazione della nostra
Costituzione del 1812 - quella Costituzione a difender la quale hanno
combattuto, e son morti i Siciliani durante questi ultimi ventott'anni, - fu la
monarchica Gran Bretagna.»
-
«Dunque avete un Parlamento come il nostro?» domandò Lucy.
- «Lo
avevamo,» rispose Antonio con rammarico.
- «E
perchè è stato abolito?» domandò Lucy «Avete promesso informarmi un qualche
giorno di ciò che concerne la Sicilia. - Fatelo, vi prego, quest'oggi.»
- «Fu
una promessa temeraria,» disse Antonio mezzo sorridente. «Il suo adempimento
riescirebbe nientemeno che a farvi un sommario della storia siciliana; e credo
che la vostra pazienza e quella di sir John malamente resisterebbero alla
prova.»
Ma
Lucy insistendo, e sir John esprimendo lo stesso desiderio, Antonio cedette.
(Il Lettore, se in un'opera di fantasia non ama veder mista la storia, non ha
che a saltare il resto di questo capitolo.)
- «Le
libertà siciliane2,» disse Antonio. «sono coetanee a quelle
d'Inghilterra. Fin dal secolo XI, la Sicilia sotto gli auspicii di un principe
normanno, come l'Inghilterra, pose i fondamenti della sua libertà e
indipendenza. La sovranità nazionale risiedeva difatto nel Parlamento che
disponeva della corona dell'isola; e nessun principe considerava valevole il suo titolo, o sicuro il suo
potere, se non era basato sopra un'elezione parlamentare. La grande obbiezione
opposta ai Principi nella casa d'Angiò aveva per motivo l'esser essi stati
imposti dal Papa e non eletti dalla nazione. Questa, e non altra, fu l'origine
dell'irritazione che scoppiò nei Vespri Siciliani (1282). Il Parlamento, di sua
libera volontà, chiamò allora al trono la stirpe d'Aragona nella persona di
Pietro; e, in tempi più recenti, la Castigliana nella persona di Ferdinando il
Cattolico. Nè è da omettere che alla morte di costui, il suo successore Carlo
V, non fu immediatamente riconosciuto; ma soltanto nel 1518 ricevette l'investitura
dal Parlamento, come i suoi predecessori, giurando di mantenere le immunità e
le libertà siciliane. Parrà strano che l'autonomia siciliana sia passata illesa
a traverso il fuoco di tre secoli di unione colla Spagna; ma cesserà la
maraviglia, riflettendo che il vincolo onde congiungevasi Sicilia a Spagna, era
piuttosto di nome che di fatto. Il trattato di Utrecht diede la Sicilia a
Vittorio Amedeo di Savoja: il quale, da una clausola speciale, fu obbligato ad
approvare, confermare e ratificare i privilegi, le immunità, i costumi, ecc.,
goduti dall'isola. Così le libertà della Sicilia vennero a formar parte del
diritto pubblico europeo. Il governo di Vittorio Amedeo vi fu di corta durata;
chè il cardinale Alberoni, poco più di vent'anni dopo, riuscì ad espellerlo; e
la Sicilia liberamente si riunì di nuovo alla fortuna di Spagna. I Borboni, nel
cominciamento del loro governo, strettamente osservarono il patto fondamentale;
e i due regni di Napoli e di Sicilia continuarono indipendenti e distinti l'uno
dall'altro, come durante il regno di Filippo II. Quando Carlo III ricevette in
Palermo la corona di Sicilia e l'omaggio della Rappresentanza nazionale, alla
sua volta prestò il giuramento di fedeltà alla Costituzione. Così fece il suo
figlio e successore Ferdinando, che assunse il nome di Ferdinando III di
Sicilia, e IV di Napoli; affinchè fosse la distinzione fra i due regni a tutti
manifesta.
«Sotto
la direzione dell'illuminato Tanucci (Ferdinando aveva ott'anni di età quando
salì al trono) i primi anni di quel regno diedero generale soddisfazione ai
sudditi, almeno nella Sicilia: e ciò spiega come la tempesta del 1789 passò
sopra l'isola senza turbarne la tranquillità. Felice e sicura, con una
Costituzione che le dava di far pacificamente le riforme necessarie, perchè
avrebbe dovuto prender parte a una lotta, dalla quale non avrebbe mai
acquistato niente di meglio di quello che possedeva? Intanto i troni della
terra ferma d'Europa erano scossi fin dalle fondamenta; e nessuno più di quel
di Napoli. Si potrà ora mai credere che venne scelto quel momento per menare un
colpo alle nostre antiche libertà, e così alienare dal re i fedeli Siciliani?
Il Governo napolitano, unito alla coalizione contro la Francia, inteso a
radunar danaro, il nerbo grandissimo d'ogni guerra, fece allora ricorso al
nostro Parlamento per un sussidio mensile di ventimila once (diecimila lire
sterline), per il tempo che sarebbe stato necessario. Il Parlamento siciliano
componevasi di tre parti, detti bracci, cioè braccia e rami dello Stato:
due la nobiltà e il clero, e il terzo i vassalli della Corona; e per la
validità delle risoluzioni era necessaria la maggioranza assoluta. Il Clero e
la Nobiltà non si opposero al sussidio, ma sì a che rimanesse indeterminato il
periodo della sua durata. I dipendenti dalla Corona votarono soli senza
restrizione la tassa: e re Ferdinando, con audace abuso di potere, ordinò
allora che il voto de' suoi vassalli valesse come il voto di tutto il
Parlamento.
«Tuttavia
questa prima violazione de' nostri diritti cadde a terra da sè; che nel momento
in cui stava per iscoppiare in Sicilia una fiera resistenza, la disfatta
dell'esercito austro-napolitano sotto il generale Mack, lasciò Napoli a
discrezione dei Francesi, e la Corte e i suoi aderenti furono costretti a
rifugiarsi a bordo delle navi inglesi da guerra che si trovavano nella baja.
«Scampati
a molti pericoli in terra, i reali fuggitivi dovettero incontrare i pericoli di
mare. Una fiera tempesta surse due giorni dopo il loro imbarco, durante la
quale uno de' giovani principi spirò; ma gli altri furono alla fine sbarcati a
salvamento in Palermo. - «Uomini di Palermo, gridò la regina Carolina pigliando
terra, volete voi ricevere la vostra Regina?» in quelle circostanze il
malcontento di prima fu dimenticato, e successe un entusiasmo generale; e
Ferdinando e Carolina vennero condotti quasi in trionfo al Palazzo Reale, e
furono presto circondati di tutto l'usato fasto. Gli abitanti di Palermo fecero
di tutto per le loro Maestà: cavalli, carrozze, argenteria, danaro furono
forniti in abbondanza; chè confidavano i Siciliani quest'arrivo dovesse
cementare una più stabile unione, e assicurare una durevole concordia fra la
Nazione e il Sovrano. Ma furono presto disingannati. Nulla dirò di quel periodo
di quattro anni dal 1799 al 1802, quando alla pace di Amiens la famiglia reale
fu ristabilita sul trono di Napoli. Dovrei abbozzare con più deboli tinte il
quadro che mi abbisognerà poi dipingere in seguito.
«Ferdinando
e la sua famiglia, nel 1806 furono di nuovo costretti a rifugiarsi in Sicilia.
Come a tutti i Borboni, l'esperienza e le sventure predicavano loro invano.
Attaccati alla speranza di riconquistar Napoli coll'ajuto e con le forze della
Sicilia, sarebbe parso naturalissimo che avessero a gran cura evitato, se non
altro per politica, di offendere i sentimenti degli isolani. Ma fu all'opposto.
Prima di tutto la corte pose rapacemente le mani sui Monti di Pietà,
patrimonio de poveri. Fu espilato dappoi il danaro collocato nel Banco sotto la
garanzia del Governo, le proprietà degli assenti, amici o nemici poco
importava, confiscate; le quali somme servivano ad ingrassare gli emigrati
napolitani formicolanti alla Corte; i quali, secondo un grave istorico, il
Colletta, non erano altro di meglio che birbanti, codardi, e le più triste
coscienze del regno. Ogni impiego amministrativo (e ricordatevi che la Corte
stava in Sicilia), ogni ufficio, ogni carica, ogni onore, fu accordato a'
Napolitani e ad essi esclusivamente. Fu organizzato un sistema di spionaggio
politico. Non c'era piazza pubblica, non conversazione privata, che non fosse
infestata da spie; perfino l'interno delle famiglie non era sicuro dalla loro
intrusione. Il Governo sospettava per tutto Giacobini. Un cittadino fu messo in
carcere solo perchè era stato veduto spesso a discorrere con un amico esiliato
per accusa di giacobinismo - pro crebis conversationibus. Un altro fu
bandito per aver letto un giornale con piacere - pro lectura Gazzettarum cum
delectatione. E infinite le piccole vessazioni contro chi portava barba e
pantaloni, cose entrambe considerate quale segno esterno di giacobinismo.
«Re
Ferdinando era uno de' più deboli fra' Borboni di Spagna. Purchè potesse ire a
caccia e a pesca colla gentaglia, alla quale si associava, e fare il re da
commedia o da lazzarone, poco si curava di adempiere l'officio di Re delle due
Sicilie. Sua moglie, l'assoluta, la ferrea, la licenziosa Carolina d'Austria,
lo reggeva completamente. Non poteva accomodarsi questa donna ambiziosa alla
perdita del trono di Napoli. Il rapido e immenso successo, e la fortuna della
dinastia Napoleonide privandola di ogni speranza di riavere Napoli col solo
ajuto de' Siciliani e di poche navi inglesi, pensò tentare una nuova prova.
Intavolò, per mezzo di sua nipote Maria Luisa, trattative segrete collo stesso
Napoleone. La tenne egli un po' di tempo a bada, dandole speranza di riaver
Napoli, e di cederle la Marca d'Ancona per di più. Aveva bensì prima a
sbarazzarsi degli Inglesi.
«Se i
Borboni di Napoli portavano ancora la corona, era senza dubbio in grazia degli
Inglesi. Non conveniva pertanto, in chi ne coglieva il benefizio, andar a
cercare se fosse più vantaggio proprio, o generosità, nell'opposizione fatta
ovunque dall'Inghilterra alla Francia. Che una flotta inglese avesse salvato il
Re e la famiglia reale nel 1799; che il sangue inglese fosse stato largamente
versato a Maida, e l'oro inglese speso liberamente per essi (che dal 1805 in
poi il Re aveva ricevuto l'annuo sussidio di trecentottantamila lire sterline,
portato a quattrocentomila nel 1809); che da dieci a quindicimila soldati
inglesi stessero nell'isola per proteggerli - erano tutti fatti notorii.
Naturale era perfino l'aspettarsi almeno una politica sincera da chi aveva
accettato cotali favori; ma non era la gratitudine, nè l'onestà comune, il
carattere distintivo di Ferdinando e della Regina. Ebbero gli Inglesi alla fine
sentore delle macchinazioni di Carolina, i particolari ne sono tuttavia
ravvolti nel mistero; ma, se ne trovano prove decisive fra le carte del
Ministero degli affari stranieri a Parigi.
«L'Inghilterra,
fino dal 1810, restò spettatrice attenta, ma passiva, di quanto accadeva
nell'isola. In quell'anno bensì cominciò ad agire. Lord Amherst fu richiamato,
e spedito in sua vece lord Bentinck, in qualità di Ministro plenipotenziario
della Gran Bretagna, e Comandante in capo delle forze inglesi nel Mediterraneo.
«L'ambasciatore
inglese trovò Palermo agitatissima per una nuova offesa fattale dalla Corte
proprio il dì prima dell'arrivo di lui. Esaurita l'indicata somma votata l'anno
precedente dal Parlamento siciliano, il Re, eccitato dalla Camarilla,
risolse di ottener nuovi sussidii senza incomodare i rappresentanti della
nazione. Il Consiglio di Stato, composto, ad eccezione di un solo, di
Napoletani, fu radunato, e dalle sue deliberazioni uscirono tre decreti, da'
quali era stato messa Palermo in quel fermento. Col primo, tutte le proprietà
territoriali dei Corpi religiosi o dei Municipii venivano dichiarate proprietà
della Corona. E alfine di realizzarne più prontamente il valore, un secondo
decreto ordinava una lotteria, per la quale erano distribuite in premii le
terre nominate. Il terzo stabiliva la tassa dell'un per cento sui contratti di
vendita di qualunque sorta.
«Generale
fu l'indignazione eccitata da cotesti decreti, e il Parlamento se ne fece
organo per manifestarla. Quarantatrè nobili del braccio de' Baroni,
segnata una forte protesta, la presentarono al Re. Non fece egli aspettar molto
la risposta. La notte del 5 luglio 1811 furono arrestati e imbarcati per le
carceri delle varie isole vicine i Principi di Belmonte, Castelnuovo,
Villafranca, Aci e il duca d'Angiò, riguardati come capi dell'opposizione.
«In
questo mentre giunse lord Bentinck; e fu salutata la sua venuta dai Siciliani
come quella di un salvatore. Adoprandosi il meglio che poteva a calmare il
sobbollimento del popolo, faceva del pari forti rimostranze al Re e a' suoi
ministri, intorno alla imprudenza e alla stoltezza della politica da loro
adottata: - ma invano. - «Questo panciuto sergente,» diceva la Regina che lo
aveva preso in odio, «è stato qui spedito dal Principe Reggente a rendere
omaggio al Re e non a dettar leggi.» Non potendo vincere la di lei ostinazione,
lord Bentinck andò allora in Inghilterra per far intendere al Gabinetto di
Saint-James lo stato vero delle cose in Sicilia; e tornò dopo sei settimane; e
questa volta con ogni pieno potere. L'Inglese non era uomo da lasciarsi
prendere a scherno. Vedendo però che le conferenze senza fine alle quali lo
invitavano il Re e la Regina e il Principe ereditario non davano nessun esito
alle domande categoriche da lui presentate, recise la questione operando
decisamente. Cominciò dal sospendere i sussidii in danaro forniti
dall'Inghilterra alla famiglia reale; e stabilì il suo quartier generale a
Palermo, ove chiamò da Messina alcune truppe inglesi. Questi atti non bastando,
minacciò di mettersi egli alla testa del suo esercito, e impadronirsi del Re e
della Regina, e spedirli a Londra. Sapevasi che lord Bentinck era uomo di
parola, però la cosa fu subito accomodata. Il Re finse ufficialmente una
malattia; e nominato il Principe Reale Vicario Generale del regno, si recò a
mutar aria al suo parco di Ficazza. Anche la Regina lasciò Palermo. Dato a lord
Bentinck il comando dell'esercito siciliano, furono messi in libertà i cinque
Baroni, e annullati gli illegali decreti. Nello stesso tempo furono convocati i
tre bracci del Corpo legislativo, affine, dicevasi, di riformare la
Costituzione.
«Il
Principe Vicario aprì il Parlamento in persona. Dopo un discorso sull'argomento
delle riforme a farsi, propose la Costituzione della Gran Bretagna come modello
di quella per la Sicilia. Questa prima riunione del Parlamento fu prolungata
tutta la notte e parte del giorno seguente; e sarà ricordata ne' nostri annali
quale attestato della devozione patriottica di tutti i suoi membri. Rinunciando
il Clero a' suoi privilegi, consentì all'unione co' Baroni per formare una sola
Camera di Pari; e rinunziando i Baroni dal loro canto a quei privilegi
ereditarii, de' quali, da tempo immemorabile, erano sempre stati tanto gelosi,
quella notte cessò in Sicilia il feudalismo. Dopo una lunga discussione furono
votati dodici articoli, la base della nuova Costituzione. Ed essendo necessaria
la sanzione sovrana, il Parlamento, per evitare il pericolo di sotterfugi in
avvenire, pregò il Principe Vicario che ne ottenesse l'approvazione del Re
prima ch'egli vi apponesse la firma. Il Principe ne scrisse al Re; e il Re sul
margine della lettera mise di suo proprio pugno: «Essendo ciò conforme alla mia
intenzione, vi autorizzo a farlo.»
Il
partito di Corte si pose subito ciò nonostante a tramare contro le riforme
pubblicamente approvate. Fissato il giorno in cui il Re sarebbe andato a render
grazie per la ricuperata salute alla chiesa di San Francesco, quel giorno
doveva esser fatta una dimostrazione contro la Costituzione. Ma i reali
cospiratori avevano fatto i lor conti senza lord Bentinck. Apparsa in istrada
un po' d'artiglieria, e spiegate alcune truppe - questo bastò per reprimere la
dimostrazione prima che incominciasse; e il Re rinunziò ad andare a San
Francesco, e contentossi di recitar le sue preci in casa. Non fu bensì utile la
lezione per lui, o piuttosto per l'incorreggibile Carolina. Non perdutasi
d'animo, preparò un altro coup-de-main; per l'esecuzione del quale
confidava sulle truppe siciliane raccolte a Trapani e a Corleone: intendeva
così sbrigarsi a un tratto degl'Inglesi e della Costituzione. Ma anche questa
volta fu lord Bentinck per lei un osso troppo duro. Riuscito vano ogni mezzo di
persuasione, si ricorse alla forza; e un reggimento di cavalleria cominciò a
circondare di notte la Reggia, bloccandola completamente. E dopo molte
tergiversazioni, Ferdinando cedette finalmente alla dura necessità, e consentì
alle condizioni di lord Bentinck. Le quali furono: - che la Regina partisse
immediatamente di Sicilia; che il Governo fosse immediatamente affidato al
Principe Reale; e che fosse conferito a questi l'alter ego senza alcuna
restrizione.
«Questa
vittoria sul partito di Corte e l'assenza della Regina restituì all'isola un
po' di tranquillità. Il Parlamento potè allora continuare la sua opera di
riforme; e furono aggiunte molte clausole importanti alla Costituzione; - fra
le quali quella che regolava la successione alla Corona e stabiliva
l'indipendenza della Sicilia. L'articolo è steso letteralmente così: - «In caso
che il Re di Sicilia ricuperi il trono di Napoli, o acquisti di fatto alcuna
altra corona, sarà obbligato a porre sul trono di Sicilia in sua vece il figlio
primogenito; o lascerà quel suo figlio nell'isola, cedendogliela, e dichiarando
sin da quel momento la Sicilia indipendente da Napoli, e da qualunque altro
regno o governo.» Nel maggio 1813 fu promulgata, così è detta, la Costituzione
del 1812; e lord Bentinck, credendo compita la sua missione in Sicilia, si recò
in Ispagna. Benchè fosse la regina Carolina assente, tuttavia il suo spirito
reggeva ancora la Corte; e non solo fu fatto ogni sforzo per iscreditare la
Costituzione, ma si provò anche ogni mezzo per eccitar l'animosità popolare
contro gl'inglesi. Lord Bentinck tornò a tempo per riacquistare il terreno
perduto durante la sua assenza; ma di nuovo spedito poco dopo a Livorno e a
Genova, parve che il buon genio della Sicilia fosse partito con lui.
«Io
non descriverò l'accanito combattimento che si attaccò fra la Nazione e il Re,
pro e contro la libertà e vo di balzo alla catastrofe. Caduto Napoleone,
gl'Inglesi si ritirarono dalla Sicilia. Successero quindi le trattazioni di
Vienna, la sorpresa del ritorno dell'imperatore, l'agitazione e il tumulto dei
cento giorni, e la final vittoria dei Collegati. La detronizzazione di Murat,
decisa a Vienna, restituì ai Borboni i loro dominii di terraferma; e lasciato
l'erede presuntivo in Palermo, Ferdinando si recò subito a Napoli. Ebbe luogo,
in giugno 1815, la sottoscrizione del trattato generale del Congresso di
Vienna; e nel dicembre dell'anno seguente, apparvero quei due famosi editti,
dai quali era cancellato dalla mappa di Europa il nome della Sicilia come regno
indipendente.
«Col
primo di essi, che dichiaravasi basato sull'articolo 104 del Trattato di
Vienna, Ferdinando lasciava i titoli separati, co' quali aveva regnato sopra
Napoli e Sicilia: e adottava il nome di Ferdinando I del Regno Unito delle Due
Sicilie. Riunendo così le due corone, in un tratto erano annichilate e
l'indipendenza e la bandiera nazionale e il conio separato dell'isola. Col
secondo, per una singolare mancanza di logica, la Costituzione fu nel tempo
stesso e soppressa e confermata; chè il Re mentre reclamava quale sua reale
prerogativa il diritto d'impor tasse, promettea tuttavia di non accrescerle da
sè oltre la somma stabilita dal Parlamento del 1813, «senza il consenso del
Parlamento (queste furono le parole testuali) non potranno mai aumentarsi.»
«Dissi
che il primo editto dichiaravasi basato sopra un articolo (il 104) del Trattato
di Vienna; ma avrei dovuto dire pretendevasi, perchè in realtà quello era un
cavillo. I termini adoperati nel trattato erano: - «Il re Ferdinando IV è
ristabilito, egli ed i suoi eredi e successori, sul trono di Napoli; e
riconosciuto perciò dalle potenze come Re del Regno delle Due Sicilie.» Questo
accomodamento nè per la forma, nè per la sostanza poteva pertanto toccar la Sicilia.
Gli agenti spediti da Ferdinando a Vienna erano stati spediti a discuter solo
un affare suo personale - cioè la restaurazione al perduto trono di Napoli.
Gl'interessi della Sicilia non avevano a che fare con questo; la Sicilia non
aveva niente da trattare o da dire al Congresso di Vienna; - non ci aveva
neppur un rappresentante. Il Re e il cavalier Medici vi figuravano solo per i
domini napolitani. Ciò è tanto vero, che il Re fu nominato negli Atti del
Congresso soltanto come Ferdinando IV di Napoli, e mai col titolo congiunto di
Ferdinando III di Sicilia; ed anzi è a presumere che se le Potenze a Vienna
realmente avessero avuto intenzione di fondere i due paesi in uno, avrebbero
dichiarato questa intenzione, e senza ambagi: come fecero stipulando l'annessione
di Varsavia alla Russia, del Belgio all'Olanda, e di Genova al Piemonte; ed è a
supporre che si sarebbero, come negli altri casi, specificate le condizioni di
siffatta unione. Ora nulla di ciò trovasi nell'articolo 104. Esso dice
semplicemente: «Ferdinando è riconosciuto Re del Regno delle Due Sicilie.» Se
ne può quindi mai arguire, anche per un solo istante, che la forma del
singolare data alla parola Regno, invece del plurale - una sola lettera
variata in una parola - sia fondamento sufficiente per procedere alla
distruzione di un diritto secolare?
«E
questo per l'indipendenza siciliana. Quanto alle libertà della Sicilia,
Ferdinando erasi provvisto di un pretesto plausibile per sbarazzarsene col
trattato segreto conchiuso coll'Austria. Era in esso dichiarato che: «Sua
Maestà il re delle Due Sicilie riassumendo il Governo del regno, non ammetterà
alcuna innovazione che sia in alcun modo in opposizione alle antiche
istituzioni monarchiche, o al sistema e ai principii adottati da Sua Imperiale
e Reale Maestà nel Governo interno delle sue provincie italiane
(Lombardo-Veneto).» Se questa convenzione era stata diretta contro la
Costituzione siciliana, costituiva una novella prova della perfidia e del
tradimento di Ferdinando; nè obbligava in alcun modo la Sicilia. Ma le parole
del Trattato provano che era, e poteva solo intendersi riferita a Napoli. Del
possesso del Regno e delle mutazioni che si sarebbero o no fatte, se ne parlava
al futuro. Ora, in primo luogo, Ferdinando non aveva mai perduto nulla in Sicilia,
avendo il Principe Vicario amministrato l'isola come suo delegato. E, in
secondo luogo, le mutazioni in Sicilia erano state fatte tre anni prima della
predetta Convenzione; e lungi dall'essere incompatibili colle istituzioni
monarchiche, intendevano ristabilire la monarchia nel suo pristino stato, e
instaurarne le leggi giurate successivamente da trenta monarchi. Ma a che vale
il diritto senza la forza? Chi aveva la forza non la voleva usata in nostra
difesa. Il Gabinetto inglese stiracchiò col Ministero napolitano, sul più o sul
meno di privilegi normali da esserci lasciati; ma quanto al punto principale,
l'indipendenza, fummo abbandonati al nostro fatto,»
Sir
John, a questo punto, fece un movimento come per parlare; ma l'italiano riprese
sorridendo:
-
«Ripeto fatti storici, sir John. La colpa di quanto avvenne, è forse meno delle
persone che delle circostanze di allora. La pace era il gran desideratum
dell'Europa; e a questo desiderio la Sicilia fu sagrificata. Quando io dico sagrificata,
non sono che l'eco delle opinioni pubblicamente sostenute ed espresse dentro e
fuori del Parlamento britannico da distinti vostri concittadini. Lord Bentinck,
e migliore autorità della sua non ci è in questo argomento, disse nel giugno
1821: - «Quello di cui mi lamento, si è che non fu data la libertà ad un popolo
al quale era stata promessa. Io considero il nostro onor nazionale impegnato
all'adempimento di tale promessa. E debbo confessare, quanto alle istruzioni
spedite d'Inghilterra, che non avrei potuto far meglio redigendole io stesso,
con tutto il profondo amore che sento per i Siciliani. Ma che si è poi fatto
per dar forza a queste istruzioni? Nulla. Ricevute con speranza e con gioja dai
Siciliani, quale esito ebbero? - l'unione dei due regni. Questa unione non solo
fu una violazione, ma la completa distruzione della Costituzione siciliana; e
annichilò i diritti della Nazione, e fece la Sicilia «provincia di Napoli.» Non
posso garantire sieno queste le precise parole di lord Bentinck, che io cito a
memoria,» continuò il Dottore; «ma assicuro che questo ne era il significato.
Anche sir James Mackintosh riguardò sotto lo stesso aspetto l'argomento. Ma di
ciò basti.
«È ora
necessario dire che non fu mai più convocato il Parlamento, e che lo spirito
come la lettera delle così dette concessioni del 1816, fu quotidianamente
violato? Il pubblico malcontento crebbe ognora, ed era vicino uno scoppio,
quando avvenne in Napoli la Rivoluzione del 1829, seguita dalla proclamazione
della Costituzione di Spagna. Il momento parve propizio ai Siciliani per
assicurare con modi pacifici la loro antica indipendenza. Fu un deplorabile
malinteso che occasionò la collisione fra il popolo e i soldati napolitani di
presidio in Palermo, nella quale il primo fu vincitore. Venne allora formata
una Giunta provvisoria, con pieni poteri circa le risoluzioni più convenienti a
ristabilire l'indipendenza dell'Isola. La Giunta mandò una deputazione al Re di
Napoli, domandando un governo indipendente per la Sicilia con a capo il
Principe Reale. Queste domande non furono ascoltate. Pretendeva il Parlamento
napolitano assorbir la Sicilia, in nome di due principii oppostissimi: 1° il
diritto divino del Re confermato dal Trattato di Vienna; 2° il diritto della
democrazia che non poteva lasciar esistere in Sicilia una Costituzione
aristocratica quanto quella del 1812. Sfortunatamente l'isola era divisa
internamente in due partiti favorevoli l'uno alla Costituzione di Sicilia,
l'altro a quella di Spagna. Un esercito spedito da Napoli nel mese di settembre
cominciò l'assedio di Palermo; e dopo quindici giorni di ostinati combattimenti
si venne a capitolazione; per la quale era riserbata al Parlamento siciliano la
soluzione della questione d'indipendenza. - Ma il Parlamento di Napoli annullò
tale capitolazione, quasi disonorevole per l'esercito napoletano; ritenne bensì
le armi e le fortificazioni consegnate in seguito di tale accordo. Mentre i due
paesi così contendevano fra loro, che faceva re Ferdinando? Era andato a
Lubiana e a Troppau, sollecitando l'intervento austriaco contro quella stessa
Costituzione da lui solennemente giurata nel mese di luglio 1820. Che importava
al vecchio Re uno spergiuro di più o di meno? Gli Austriaci pochi mesi dopo
occupavano Napoli e la Sicilia; e i due paesi che non eransi potuto accordare
per vivere rispettivamente liberi, gemevano ora sotto il giogo di una comune
schiavitù.
«Ferdinando
morì nel 1825; gli successe il figlio Francesco; il quale, come Principe Reale,
aveva giurato la Costituzione del 1812, e poi quella di Spagna del 1820, e
aveva pur partecipato alla protesta armata contro l'occupazione straniera nel
1821. Salendo al trono, Francesco I perdette la memoria, e senza esitanza seguì
le orme del padre. In quei cinque anni di regno, il Governo fluttuò sempre in
un pantano. Incredibile la corruzione che si sparse in Napoli e in Sicilia:
ogni cosa poteva comperarsi, ogni cosa vendersi: uffici, onori, titoli, e fin
la giustizia si mercava. Viglia, valletto del Re, e Caterina di Simone, prima
camerista della Regina, erano le due persone più influenti del Regno, e per
mezzo loro conchiudevasi la maggior parte di quegli infami contratti. Il Re non
nascondeva minimamente la cognizione di aveva di questo procedere di cose; al
Contrario vi profondeva motti spiritosi. Il mondo nel 1828 vide che come era
spregevole, tanto era crudele. Un tentativo d'insurrezione nella città di
Cosenza e di Salerno fu letteralmente soffocato nel sangue. Per ordine di Del
Carretto, alter ego del re, la piccola città di Bosco fu cannoneggiata
sino a ridurla in ruine, e fu sul suo luogo innalzata una colonna d'infamia. Si
dice fossero gli ultimi giorni di Francesco tormentati da vani rimorsi. Morì
nel 1830 lasciando a Ferdinando, il Re presente, un Regno degradato,
depauperato e profondamente scontento.
«I
primi atti del giovane Ferdinando (aveva appena vent'anni) furono di buon
augurio. La maggior parte dei ministri, creature e favoriti del Re morto,
vennero a grado a grado licenziati, e Viglia mandato via. Si stabilirono giorni
di udienza pubblica, e Ferdinando pubblicò un Manifesto, per cui dichiarava
essere sua intenzione di rimettere in ordine le finanze dilapidate del Regno.
Questi atti molto gradì il popolo. Nè la Sicilia rimase priva della sua parte
di promesse. Intenzione era del Re, come distintamente si esprimeva il
Manifesto, «di procurar sanare le piaghe, fatte alla Sicilia dal padre e
dall'avolo suo.» La dimissione del marchese della Favara, luogotenente-generale
dell'Isola, uomo universalmente odiato, e la nomina in sua vece del conte di
Siracusa, fratello di Sua Maestà, lasciò credere ai buoni isolani che il nuovo
Sovrano dicesse davvero. Per mala sorte il seguito non corrispose al principio:
quello che era sembrato schietto amor di giustizia, non era in realtà se non
astuzia di Re; chè tuttavia durava in Europa l'effetto della rivoluzione di
luglio in Francia; ed era il Re abbastanza savio, per vedere come convenisse
calmare e conciliare il popolo ancora scontento per l'ignobile mal governo di
Francesco.
«Diminuendo
bensì il pericolo, riprese tosto il Re la sua naturale disposizione. Il primo
sintomo della reazione nella mente di Ferdinando fu la nomina a ministro di
polizia di Del Carretto, lo sterminatore di Bosco. Egli e monsignor Cocle
confessore del Re, acquistarono presto un completo predominio sul giovane
monarca, e il gesuitismo e la polizia diventarono tosto le due pietre angolari
dello Stato3. Nel regno precedente ogni cosa era stata venale; - in
questo gli affari non andarono meglio; - che monsignor Cocle e Del Carretto
facevan le parti del preceduto Cameriere e Camerista. La
punizione delle legnate, conosciuta la prima volta in Sicilia durante
l'occupazione austriaca del 1821, fu ristabilita sotto l'attuale
amministrazione. Non passò molto, e tutte le recenti illusioni dei Siciliani
svanirono. Il Governo parve desiderasse piuttosto avvelenare che sanare le
vecchie piaghe. Del nostro Parlamento non si parlò più, quasi non fosse mai
esistito: - era delitto il solo nominarlo. Eppure le tasse avevano sorpassato di
gran lunga la somma fissata dal decreto del dicembre 1816; e tutto questo
malgrado le promesse che non si sarebbero aumentate senza il consenso del
Parlamento. Nel 1835 l'improvviso richiamo del conte di Siracusa colmò il
malcontento popolare.
«Nella
estate del 1836 apparì in Napoli il cholera. I regolamenti di quarantena fra
Napoli e Sicilia erano stati sin allora estremamente severi e vessatorii. Ma
ora che il flagello terribile era proprio in Napoli, il cordone sanitario
veniva trascurato e negletto; mentre era stato mantenuto con tanto rigore
essendo il male lontanissimo, in Russia. Questo fece nascere l'opinione
universalissima che fossero il Re e i Ministri d'accordo per lasciar invadere
dal cholera la Sicilia. Pur troppo il contagio giunse presto in Palermo; e
credo nessuna città ne fosse più crudelmente desolata. D'una popolazione di
170.000 abitanti, in un mese 21.000 perirono. Il terrore generale si tramutò
rapidamente in generale delirio. Si sparse largamente l'idea che il Governo
avvelenasse il popolo all'ingrosso. Anche un leggier sospetto di tal sorta
appena nato, diviene presto matura certezza.
«Mario
Adorno, uno di quelli che più fortemente avevano recalcitrato alla abolizione
della indipendenza siciliana, colse l'occasione del malcontento diffuso; ed
eccitata un'insurrezione in Siracusa, proclamò la Costituzione. Catania seguì
immediatamente l'esempio: innalzò la bandiera siciliana, abbattè le statue dei
Borboni, e formò un Governo provvisorio. Anco nella valle di Messina, e nelle
piccole città adiacenti a Palermo, ove profondamente era radicata l'opinione di
una congiura di avvelenatori, accaddero insurrezioni parziali. Del Carretto,
fornito di poteri illimitati e accompagnato da un forte corpo di truppe, venne
in Sicilia meno per conquistarla che per raccorre i frutti della vittoria: che
al momento del suo sbarco era affatto cessata la rivoluzione; ed i Cataniesi
alla notizia della sua spedizione, vedendosi privi di appoggio, di loro proprio
accordo avevano fatto la controrivoluzione. I più compromessi avevano cercato
scampo nella fuga, eccetto Mario Adorno, che fu preso e fucilato. La nessuna
resistenza non mosse punto il distruttore di Bosco ad intralasciare un sol atto
di crudeltà. Furono stabilite per tutto Commissioni militari, e i cittadini
imprigionati a migliaja. Molte centinaia furono condannati a morte, e non meno
di cento subirono la pena. In Bagheria fu fucilato un giovanetto di quattordici
anni. Le condanne si eseguivano al suono della musica militare. E tanta era di
fatto la furia di uccidere, che un giorno, dopo uno di questi orrendi
spettacoli, contati i corpi degli uccisi, vi si trovò un morto di più del
numero stabilito.
«Terminata
la nobile conquista, e rimeritato il nobile conquistatore colla croce di San
Gennaro, il vero significato della sanguinosa tragedia venne fatto presto
manifesto per gli atti ufficiali che la seguirono. Fu dal Re colto avidamente
quel pretesto, e fu finita una volta persino coll'ombra delle rimanenti libertà
siciliane: la sostanza era da molto tempo svanita. Accresciute le tasse, empita
di Napoletani l'amministrazione, adottato in Napoli un'abile sistema di
centralizzazione, ogni vestigio di libertà municipale, di libertà di stampa, di
associazione, di petizione, fu distrutto. Per ristringere in breve una lunga
istoria, non fu alla Sicilia lasciato altro che gli occhi per piangere, e la
memoria immortale de' suoi diritti. Questa memoria, e la coscienza della
giustizia della sua causa, sosterrà quel nobile ed infelice paese in tutte le
sue prove: finchè per lei arrivi, come arriverà certamente, il dì del
rendiconto.»
Antonio
asciugò la sua fronte dalle gocce di sudore - cagionato meno dal caldo che
dalla sua forte commozione. Lucy era commossa poco meno di lui; e fu con voce
appena sensibile, che gli disse: - «Ma non ci avete detto qual motivo vi
obbligasse a lasciar Catania.»
- «È
vero,» rispose Antonio, «ogni memoria de' miei personali fastidii si è perduta
in quella della catastrofe nazionale. In verità, pochi vorran credere che in
nessun paese possa bastare un caso semplice come quello che io dirò, per
costringere un uomo all'esilio. Io non ho preso parte nei movimenti della mia
città natale. Non mica perchè il mio cuore siciliano non battesse rapido e
forte ai sacri nomi di libertà e indipendenza; non perchè non mi fosse
simpatica quella lotta e non l'approvassi, a dispetto di tutte le tristi
previsioni quanto all'esito di un tentativo isolato; ma perchè ogni mia ora era
occupata nei doveri della mia professione. Benchè la mortalità fosse minore che
in Palermo, il cholera faceva pure una grande strage in Catania, e giorno e
notte io era in giro. Una sera del mese di marzo fui chiamato da un caro amico,
caduto improvvisamente malato. Avevo appena riconosciuti i primi sintomi della
malattia dominante, quando una mano di soldati entrò in camera. Un ordine
d'arresto era stato rilasciato; e un sergente, alla testa di una mezza dozzina
d'uomini, era stato spedito a impadronirsi di lui. Fu comandato al povero
malato di alzarsi da letto, e prepararsi ad accompagnare i soldati. M'interposi
facendo conoscere il mio nome e la mia professione, e dissi che portar via il
mio amico in quello stato era lo stesso che ucciderlo; e ne avvertivo il
sergente per la grave responsabilità che prendeva sopra di sè. Mi fu risposto che
i suoi erano ordini precisi, e che, morto o vivo, il mio amico doveva andare
con lui; e ciò dicendo il sergente portò via il lenzuolo dal letto. A
quest'atto brutale perdetti la mia freddezza d'animo. Non so che cosa dicessi o
facessi quel giorno; ma finì che fui ammanettato, tirato fuori per forza dalla
casa, e portato in istrada.
«Molto
non avevamo camminato, quando c'incontrammo in un uffiziale, e di alto grado
per quanto ne potei giudicare nell'oscurità sopraggiunta. Fece fermar la mia
scorta e indirizzò alcune domande al sergente. «Un medico!» sentii esclamare
quello sconosciuto; «non è tempo questo da arrestar medici, mio buon amico.» E
dopo alcune altre parole fui liberato dalle manette; e l'uffiziale mi prese
sotto braccio e mi condusse da una parte, mentre il sergente e i suoi uomini
andavano dall'altra. Trovandomi vicino a lui, vidi allora dalle spalline che il
mio compagno era un generale. - «Dove volete andare?» chiese. Dissi la strada
ove abitavo. Accompagnommi alla mia porta, e licenziandosi mi disse: - «Questi
sono tempi difficili, e un'accusa di ribellione è un affar serio. Se io avessi
un consiglio a darvi, sarebbe di scappar via quanto prima potete;» e così
dicendo mi lasciò. Ecco il caso, per il quale andai in esilio. Molto meno di
quanto io avessi detto o fatto in quel giorno, era costato a più d'uno la vita.
Insistette mia madre e mio zio perchè seguissi il consiglio di quell'incognito
amico, e così feci. Di poi ho conosciuto il suo nome; nè sono il solo cui egli
sia riuscito a salvare la vita. Dio lo benedica! Son felice e
altero di poter dire ch'egli è un Siciliano!»
- «E
il vostro amico malato?» domandò Lucy.
-
«Morto, signorina, morto poche ore dopo. Seppi la sua morte prima di far vela.
Non avendo osato di portarlo in carcere, avevano lasciato una guardia ad
invigilarne l'agonia.»
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