CAPITOLO
XXII.
Napoli.
L'agitarsi
delle opinioni nazionali, dalla elezione di Pio IX e dalle prime riforme di
lui, andato sempre crescendo lentamente, ma senza interruzione per tutta
Italia, non era in alcun luogo divenuto più forte che in Napoli e in Sicilia.
Mentre le crescenti domande di riforme non incontravano resistenza nel potere
governativo di Roma, Toscana e Piemonte, il caso era molto differente a Napoli e
in Sicilia. Quivi, all'opposto, una decisa opposizione ad ogni progresso stava
in sulle armi pronta alla battaglia; e più di una volta le grida sincere di
«Viva Pio IX! - Viva Ferdinando II e la Riforma!» avevano avuto in risposta
scariche di moschetteria, ed erano state seguite da severe carcerazioni. La
Sicilia, perduta la pazienza, veduta la sua moderazione, i suoi lunghi
patimenti, e la sua fedeltà del pari spregiati, si risolvette alla fine di
strappar di viva forza quello che colle petizioni e le proteste avevano fino a
quel punto tentato invano di ottenere. Cavalleresca nella sua miseria, ella
determinò al Re un giorno, fino al quale avrebbe aspettato l'esito della sua
ultima domanda di giustizia; non curata la quale, avrebbe allora ricorso all'ultima
ratio dei popoli e dei Re. Come era a prevedersi, la sfida fu trattata
colla solita crudele indiffenza; e la Sicilia, esatta in tener parola, si levò
in armi. Palermo incominciò; e il dì fissato la Sicilia era in piena
insurrezione.
Questa
notizia mise tutta Napoli sossopra. Fu come un fiammifero acceso gittato in
fuoco latente. A migliaja il popolo si precipitò in via Toledo; a migliaja si
accalcò sulla piazza avanti il palazzo Reale. Erano disarmati, è vero, e le
loro grida pacifiche erano: «Viva il Re! Viva la Costituzione!» ma l'atto era
minaccioso. A giudicarne dalle apparenze, il Re inclinava a riguardare quella
effervescenza di opinioni popolari come una sfida personale; e non esitava
punto di accettarla. Una grande bandiera rossa, che spiegavasi soltanto quale
segno di guerra, fu veduta sventolare dalle torri del Castel Sant'Elmo. La
moltitudine tenne la posizione presa, nulla spaurita dal brutto emblema, di cui
salutò il color sanguinario con grida che divenivano ognora più fiere. Le
coccarde tricolori pareva spuntassero loro sotto i piedi dal pavimento; le
quali distribuite rapidamente, decoravano ogni cappello e ogni abito.
Vi
sono momenti ne' quali le bajonette e i cannoni diventano impotenti contro la
moltitudine anche inerme e indifesa. Quando il sangue del popolo si solleva, le
mani e le braccia di carne gittano giù le mura di pietra e deridono
l'artiglieria. La storia moderna, dalla distruzione della Bastiglia in poi, è
piena di questi esempi. Una crisi di tal sorta era allora vicina, e se riuscì a
finir senza sangue sparso, può attribuirsi al coraggio del general Roberti, il
prode e onesto Comandante del Castello, il quale rifiutò di bombardar la città;
e piuttosto esibì la sua dimissione. Questo avvenne nella mattinata scura e
nebbiosa dei 27 gennajo 1848.
Il Re,
trovandosi in un difficil dilemma, chiamò allora a sè la maggior parte degli
eminenti personaggi ne' quali riponeva fiducia. Il conte Statella comandante in
capo di Napoli e il general Filangieri erano del numero. Unanimi risposero a Ferdinando,
consigliandolo a mutar senza dilazione i ministri, e ad accordar la
Costituzione. Fu disciolto in conseguenza il Ministero; e l'anima di esso,
l'eroe di Bosco e di Catania, Del Carretto, venne messo senza cerimonia a bordo
di una nave a vapore del Governo. Seguito dalle maledizioni de' suoi
concittadini, e accolto con esecrazione in Livorno e in Genova, ove il
bastimento dovette fermarsi, il disgraziato ministro fece il meglio che potè il
suo viaggio per Marsiglia. L'esilio di Del Carretto fu atto di tarda giustizia,
e mite, se si paragona a' suoi delitti; ma fu nondimeno un atto di nera
ingratitudine da parte del Re. Dal momento che Ferdinando cominciò a temer per
sè, si condusse come sogliono tutti i tristi volgari, e sacrificò senza esitare
colui che egli avrebbe dovuto sostenere, e come suo complice attivo e senza
scrupoli, e come suo servo fedele.
La
universale preghiera del popolo doveva alla perfine essere ascoltata: fu
promessa una Costituzione, che venne pochi giorni dopo proclamata. Il Re
adoperò queste parole nel suo solenne preambolo: - «Aderendo al voto unanime
dei nostri amatissimi popoli, abbiamo di nostra piena, libera e spontanea
volontà promesso di stabilire in questo reame una Costituzione... E nel nome
temuto dell'Onnipotente Santissimo Iddio Uno e Trino, cui solo è dato di
leggere nel profondo de' cuori, e che noi altamente invochiamo a Giudice della
purità delle nostre intenzioni, e della franca lealtà onde siamo deliberati di
entrare in queste novelle vie di ordine politico, abbiamo risoluto di
proclamare e proclamiamo irrevocabilmente da noi sanzionata la seguente
Costituzione.»
E il 2
febbrajo, con ogni pompa e apparecchio solenne, questa Costituzione fu giurata
dal Re, dai Principi della famiglia reale, dai nuovi Ministri, dai principali
ufficiali dell'esercito, dalla Magistratura, e da tutti gli alti Dignitari del
Regno. Dopo altri pochi giorni, fu promulgata la legge elettorale; e la
convocazione del Parlamento venne fissata per il 1° maggio.
È
nella natura delle cose che in tempi di grandi agitazioni, gli uomini i quali
trovansi alla testa degli affari riescano a dare poca soddisfazione a ciascun
partito. Quello che esisteva è rovesciato; - quello che deve esser fatto, è
solo allo stato di speranza. L'aspettazione è spinta al colmo, e se gli uomini
che sono al timone non arrivano all'altezza di quella, è necessario rimangano
molto al disotto; e conviene infatti necessariamente che restino di gran lunga
inferiori all'aspettazione. Nè i nuovi ministri fecero eccezione alla regola.
Si apposero da ogni parte errori nella loro condotta; - nel non trovare
immediatamente una soluzione alla quistione siciliana, nodo gordiano in quelle
circostanze; - nel non dare alla loro politica un deciso colore italiano; - nel
non adottare i tre colori italiani, e via discorrendo. In breve, il Ministero
non valse a nulla di bene, e divenne così apertamente impopolare, che dovette
dimettersi. L'entrata al potere della nuova amministrazione - dalla data della
sua formazione, detto il Ministero del 6 di marzo - fu salutata da un immenso e
generale grido di gioja. - Questo era lo stato delle cose quando Lucy, verso la
fine di marzo, arrivava a Napoli.
Il
gran tumulto e l'agitazione della città, la gioja rumorosa di tutte le classi,
in ispecie dell'infimo popolo (gli stessi lazzaroni erano in quel momento
adoratori della libertà; e quanto può dedursi dagli eventi posteriori, si è che
le arti machiavelliche possono pervertire i sentimenti più naturali dell'uomo),
avrebbero dato alla nostra eroina ampia materia di importanti osservazioni, se
altre cure non l'avessero esclusivamente occupata. La gente dell'Albergo in via
Toledo, ove scese lady Cleverton, spalancò gli occhi e strinse le labbra
sentendo che la signora e il suo seguito volevano far vistare il passaporto per
Palermo. - Forse Milady ignorava che Palermo era in aperta ribellione, e tutta
la Sicilia insorta? - Milady lo sapeva, ma era determinata ad andarvi; ed essi
dovevano fare ciò che loro era ordinato. In quel mentre arrivò Mr. X, - un giovane
addetto all'Ambasciata inglese, ove i passaporti erano stati presentati a
segnare. Questo gentiluomo era cugino di lord Cleverton, al quale doveva il suo
impiego diplomatico; e veniva da Sua Signoria per dissuaderla dal tentare ciò
ch'egli chiamava una folle spedizione. I due paesi erano in guerra aperta, - il
mare non era sicuro, - le navi di crociera napoletane vegliavano apposta per
impedire a qualunque straniero lo sbarco nell'isola. Senza alcun pericolo
attuale, lady Cleverton poteva venire a ritrovarsi in qualche spiacevolissima
condizione. Lady Cleverton sembrava ostinatissima... - «L'Ambasciatore di S. M.
Britannica,» continuò a dire l'addetto, «non voleva autorizzare Sua Signoria a
correr siffatti pericoli. Correndo voce che lord Minto potesse essere inviato
fra pochi giorni a portar condizioni ai Siciliani; se lady Cleverton persisteva
nella sua determinazione, si sarebbe potuto allora procurarle passaggio nel
regio vapore.» Lucy non poteva persuadersi che fossero necessarie tutte quelle
precauzioni per una signora inglese viaggiante per salute. Sua Eccellenza venne
in persona la sera a parlare alla sua reluttante compatriota; e tanto
insistette per farle adottare quella proposta, che ella dovette cedere. Non
osava dichiarare il motivo per cui ella preferiva l'aria di Palermo a quella di
Napoli; non già perchè sentisse punto vergogna di quel che faceva; che nessuna
Sorella di Carità era stata mossa mai da più puri motivi. Ma Lucy aveva adesso
bastante esperienza di mondo per capire che esso rare volte ammette la
spiegazione migliore ad atti che possono interpretarsi in due modi; ed ella per
rispetto mondano serbò il proprio segreto.
I
giorni seguenti riuscirono lunghissimi per la nostra Viscontessa. Nulla è tanto
difficile quanto l'aspettare. Mr. X, - l'addetto, che nella sua qualità di
cugino, reclamava il diritto di divertirla, - era estremamente assiduo nelle
sue attenzioni, e proponeva tutte le solite corse alle più belle località da
vedersi. Lucy non voleva accettare alcun divertimento; non poteva soffrire di
esser disturbata ne' suoi pensieri. Bensì, per il naturale di lei grato e
gentile, non disse mai al suo visitatore, che gli sforzi di lui accrescevano
anzichè diminuire la febbre della sua impazienza.
Un
giorno, il giovane diplomatico venne con un fare di affannone più pronunciato
del solito: pareva, anche nelle ore di ozio, che egli portasse il peso del
mondo sulle spalle. Quel giorno egli era pieno della notizia, che vi aveva ad
essere la sera seguente un gran ricevimento a Corte, il primo dopo lo
stabilimento del Governo costituzionale: e valeva però la pena di andarci, non
foss'altro per il ridicolo della cosa.
- «Che
intendete dire?» domanda lady Cleverton.
- «Per
san Gennaro, come dicon qui,» risponde il diplomatico ridendo, «ci verranno
tutti i veterani della Carboneria, tutte le celebrità del partito progressista.
Un'infornata di rancidi Avvocati e di Medici, faranno ora le prime parti in
Corte. Dio mio, come li sberteggerà bene Ferdinando!»
- «Non
capisco, come voi, dovendo intendervene meglio d'ogni altro, quale Inglese,
abbiate da mettere in ridicolo le dotte professioni,» osserva seccamente lady
Cleverton.
- «Ma
qual uomo al mondo, mia dolce signora cugina, pensa di mettere gli Avvocati e i
Medici napolitani a paragone cogli Inglesi?»
- «E
perchè no?» domanda la signora in tono egualmente secco.
- «Non
mi fate la ciera sì arcigna,» risponde il bel gentiluomo ridendo, ma non troppo
soddisfatto; «perchè realmente io faccio eco alla opinione di tutti. Di questa
classe alla quale par vi interessiate tanto, non conosco alcuno, salvo di
vista. Sua Eccellenza ha, per buona sorte, messo il nome vostro sulla lista dei
forestieri da esser presentati domani. Sarà meglio che ci andiate, e ne
giudichiate voi stessa.»
-
«Credo che ci andrò,» rispose lady Cleverton; «credo che per veder uomini, il
cui nome figurerà in una pagina della storia, valga la pena di andarci.»
Il
diplomatico fu assai imbrogliato dalla vedova del suo illustre parente. In fin
dei conti, pensò, le migliori del suo sesso direbbero di no, invitate ad andare
a Pompei, al Vesuvio e al San Carlo, sotto pretesto di salute e mancanza di
animo; ma elleno andrebbero a Corte anche fossero moribonde.
I
pronostici dell'intelligente diplomatico non dovevano verificarsi. Quando lady
Cleverton entrò nel Real Circolo, trovò ogni persona e ogni cosa che avevano
molto l'aspetto che hanno generalmente in siffatte straordinarie occasioni: non
si poteva dire nemmeno che vi fosse alcuna mancanza di araldica in
quell'assemblea. Forse, grazie ai nuovi elementi introdottivi, v'era più
vivacità, v'era certo meno pesante gravità del solito. Se eravi alcuna
deviazione dall'etichetta di Corte, l'esempio era dato dal Re stesso, che
passava di crocchio in crocchio, parlando e stringendo la mano a ognuno
cortesemente, a rappresentando al naturale la parte del Re cittadino. Era
vestito semplicemente di nero; senza la gran croce di san Gennaro, la cui
fascia portava a tracolla, e senza il rispetto mostratogli, si sarebbe potuto
prendere per uno degli ospiti, e non dei meglio appariscenti. Alto, colle gambe
lunghe, la testa piccola, i capelli grigi e di vista corta; con poco di
prevenente o d'imponente nella sua persona, eccetto ciò che doveva al suo ritto
portamento e alla deliberata andatura; Ferdinando II aveva piuttosto
l'apparenza di un uffiziale anziano di cavalleria in ritiro, che di un Re di
trentotto anni.
Pure
lady Cleverton lo guardava con piena ammirazione. Tutto ciò che aveva udito
dire dal dottor Antonio di Ferdinando, e della sua razza, in quel momento era
dimenticato; e le ombre gittate sulla sua fronte da tristizie antecedenti,
sparivano agli occhi di lei nell'aureola di popolarità che cingevalo come capo
delle riforme; - Principe che filosoficamente aveva ceduto alla voce della pubblica
opinione; - Principe che aveva paternamente esaudite le preghiere del suo
popolo. Non meritava forse benedizioni e gratitudine chi aveva sparsa la
felicità da per tutto in un regno intero?
Ma il
giovane diplomatico, che le serviva da Cicerone, non voleva abbandonarla alle
sue riflessioni solitarie.
-
«Guardate que' due signori,» dissele, «fra i quali passeggia Sua Maestà: quello
a sinistra del Re è Bozzelli, Ministro dell'interno, pur jeri emigrato; l'altro
col capo grosso, arruffato e statura mezzana, è Carlo Poerio Ministro della
Pubblica Istruzione. Tutto quello che si sa sul conto loro, è che sono entrambi
avvocati, ricchissimi di facondia, e sono stati spesso imprigionati per accuse
politiche, che non poterono bensì esser provate. E ora eccoli qui l'entusiasmo
di Napoli, e riputati le due grandi colonne del Ministero.»
Quel
signore dal diplomatico nominato Poerio, attirò grandemente l'attenzione di
Lucy. Egli aveva la fronte potentemente ampia, come quella tanto ammirata del
dottor Antonio; l'occhio chiaro e nitido della gazzella, e il labbro sottile e
fortemente serrato, che dava chiaro indizio di volontà invincibile.
-
«Quel giovane sottile, dai capelli biondi, pensieroso all'aspetto,» continuò il
diplomatico, il quale, pur di parlare, non si curava molto di essere o non
essere ascoltato, «è il professor Settembrini, editore di uno de' principali
giornali, un utopista solenne. Doveva avere un portafogli; ma, credo, qualcuno
facesse opposizione contro di lui, per la sua troppo giovanile apparenza. Tuttavia
potete tener per sicuro che è segnato come uno dei futuri legislatori di questo
paese. E così quel vecchio con occhiali d'oro, che ci passa vicin vicino,
qualche fungo della Magistratura e di cui ho dimenticato il nome. Paron..., -
qualcosa di simile; ah! Pironti, proprio lui, un intrigante di prima sfera.
Tutta gente uscita jeri dal nulla. Solo il cielo sa da dove spuntino!
Quell'alto e dignitoso signore nel vano della finestra di faccia,» disse
l'Inglese abbassando la voce in rispettoso bisbiglio, «è il fratello del Re, S.
A. R. il Conte di Siracusa, una volta Vicerè di Sicilia. Mi fa maraviglia, ma
non so chi sia quello a cui sta parlando! È una faccia a me ignota, -
qualch'altro parvenu, suppongo.»
Lucy
non potè tenersi dal fare un atto di stupore, il sangue le salì alla faccia, e
grosse gocce di sudore spuntarono sulla sua fronte. - «Cos'è?» esclamò
l'inesperto diplomatico. «Vi sentite male?»
- «Non
è nulla - un'improvvisa vertigine.»
-
«Volete forse uscire? - Sarà effetto del caldo che fa nella sala.»
-
«Probabilmente,» rispose Lucy con voce tremante. Per buona sorte recossi da lei
in quel punto lo stesso Ambasciatore inglese, e il diplomatico fece il suo
inchino senza altro commento. - A Sua Eccellenza dispiaceva molto, ma aveva
ragione di credere che la missione di lord Minto in Sicilia sarebbe stata
rimessa di lì a un'altra quindicina di giorni almeno. Nuove complicazioni erano
sorte. La viscontessa accolse con molta freddezza questa notizia. Ella non si
curava di una piccola dilazione, era anzi possibile che potesse rinunziare
affatto al suo progetto. Era troppo ben educato Sua Eccellenza, per fare altro
atto che alzar le ciglia a questa dichiarazione inaspettata. Egli che realmente
si era preso non poco fastidio per quell'affare, si trovava ora messo da parte
senza nemmeno un «vi ringrazio.» Dopo un breve dialogo inconcludente,
l'Ambasciatore seguitò a fare la sua serie d'inchini usati, e Lucy alla fine
rimase sola.
Il
compagno del Conte di Siracusa era un uomo alto, coi capelli e gli occhi neri,
che a prima vista mostrava appena di aver passata la trentina. Il suo contegno
era pensieroso e sereno; il suo sorriso molto simpatico, il suo portamento
nobile ed eretto; in una parola, era il contegno, il sorriso, la figura del
dottor Antonio. Invece della sua barba lunga, portava ora dei folti baffi sul
suo labbro superiore. Eccetto questa piccola differenza, e un'ombra di
pallidezza maggiore di quella di prima, non c'era in lui alcun cangiamento.
Pareva giovane e bello a suo modo, come pareva otto anni prima.
Il Re,
essendo venuto vicino ad essi, il Conte e Antonio lasciavano la finestra
avvicinandosi a Sua Maestà; che scambiava alcune parole col fratello, e
subitamente prendeva il braccio del dottore, e portandolo sotto il suo
continuava la passeggiata. Lucy non aveva perduto una sola particolarità di
quella piccola scena, e tanto meno si era lasciato sfuggire il subitaneo lampo
di que' neri occhi ben noti, quando s'incontrarono ne' suoi, e il rossore che
fece di fuoco quel pallido aspetto. Quale sentimento fece rivolgere altrove il
capo alla bella viscontessa, e le fece cercare di nascondersi dietro alcune
signore? Fu timore di una augusta presenza, o fu apprensione di sentirsi
tristamente mutata da quella di prima? Lucy appena lo sapeva, il moto era stato
istantaneo, meccanico, irresistibile; e trovavasi in agitazione di spirito
troppo grande per volere scandagliare o analizzare i segreti motivi di
quell'atto.
Durante
una mezz'ora, gli occhi di Lucy si volsero più d'una volta verso la porta, per
cui aveva veduto uscire il Re e il dottor Antonio. Più d'una volta, vedendo
venire per quella porta alcuni signori alti, con baffi e capelli neri, ella
aveva sentito battere forte e rapido il suo cuore. Egli viene alla fine - non
in fretta, ma col suo lungo passo usato, gentile e senza presunzione della
mutata fortuna, come quando, povero medico del villaggio, faceva il giro delle
visite ai suoi umili malati di Bordighera. Egli viene, e con occhi scintillanti
si dirige verso di lei.
- «Voi
qui!» esclama, mentre ella gli stendeva la mano. «Che fortuna imprevista! Chi
avrebbe sognato, otto anni fa, che ci saremmo incontrati in Napoli, e
nientemeno che in Corte!»
- «Chi
l'avrebbe pensato davvero!» Fu tutto quello che Lucy potè dire. La sua anima
era estatica per il dolce e magico suono della voce di lui risuonante di nuovo
alle sue orecchie.
-
«Come state voi, e come sta il mio buon amico sir John?» domanda Antonio dopo
una breve pausa.
-
«Papà, quando io lasciai l'Inghilterra, era impedito da un attacco di gotta!
Deve raggiungermi presto qui. Intanto mi diede una lettera per voi, credendo
che vi avrei trovato a Bordighera. L'avrete domani mattina prima di ogni altra
cosa.»
-
«Grazie,» disse il Dottore; «quanto mi piacerà dar di nuovo una stretta di mano
al cortese sir John!»
-
«Come mai vi trovate in Napoli?» domanda Lucy. «Credevo foste in Palermo, e per
di più malamente ferito.»
- «Che
ne sapete voi della mia ferita?» disse vivamente Antonio.
-
«Vidi la signora Eleonora in Genova, che me lo disse. Ella è tanto contenta
adesso - ha tutte e due i figli con sè. Mi fece leggere la vostra lettera. Era
inquietissima sul conto vostro, e anch'io.»
-
«Davvero? Benedetto il suo bel cuore!» disse Antonio. «E che ho fatto per
meritare due tali amiche? Due come voi, formano per me un'oasi nell'ampio
deserto del mondo.»
- «Io
non voglio sentirvi dir male del mondo,» risponde Lucy con un pochino
dell'antica sua aria fanciullesca.
-
«Benissimo, e nemmeno io lo voglio - adesso,» dice Antonio.
-
«Ditemi della vostra ferita - come sta?»
-
«Guarita perfettamente. Era una mera scalfittura.»
- «E
perchè tardar tanto a scrivere alla signora Eleonora? Quale scusa per avere
lasciati i vostri amici nell'ansietà?»
- «La
continua occupazione e i fastidi di ogni sorta. Tuttavia, ebbi torto davvero. Domani,
ve lo prometto, spedirò una lettera a Genova,» disse il Dottore.
-
«Badate di non dimenticarvene; e fate conoscere alla cara vecchia signora il
mio più vivo affetto. Or dunque parlatemi di quello che vi è accaduto dopo che
ci separammo; - della rivoluzione, della Sicilia, di ogni cosa. Non vi siete
dimenticato, n'è vero, della mia antica predilezione per le domande?» aggiunse
ridendo.
- «E
ora, come prima, le vostre domande saranno sempre le ben venute,» rispose egli.
«Saprete tutto di me e della Sicilia; ma prima convien ch'io sappia di voi e
della vostra famiglia, bella signora,» continua Antonio, che era stato
osservando con qualche ansietà la tanto a lungo desiderata amica sua. Lucy gli
disse della sua salute, proprio come era solita far prima; ed egli l'ascoltò
con quella stessa premura e attenzione con cui soleva ascoltarla nella vecchia
osteria del Mattone.
-
«Rimetteremo tutto in regola nuovamente, coll'ajuto di Dio,» disse Antonio
allegramente quando ella ebbe finito. «Aria fresca, abitudini quiete e metodo -
voi conoscete da lungo tempo il mio amore pel metodo - e una conveniente
obbedienza agli ordini del vostro Dottore (egli sorrise e gli occhi di Lucy
l'assicurarono che non gli avrebbe mancato), faranno prodigi per voi come
fecero in Bordighera.»
Toccava
ora ad Antonio di dar conto di sè, e lo fece molto brevemente. Seguiremo il suo
esempio, riprendendo solo il racconto un po' più indietro; e toccando di uno o
due punti da lui omessi, indispensabili per chiaramente intendere la nostra
storia.
Destatosi
dal suo breve sogno amoroso in Bordighera, Antonio, come abbiam detto, aveva
giurato in cuor suo di più non avere altra amante fuorchè la sua patria, e di
consacrare a lei, a lei sola, le forze dell'animo e della mente sua. Dicendo
noi la sua patria, intendiamo naturalmente l'Italia; che il patriottismo di
Antonio non si limitava all'isola in cui era nato, ma abbracciava tutto il bel
paese. Ad effettuare quella idea, non aveva posto tempo in mezzo; e subito
erasi messo in relazione con i capi dell'emigrazione italiana: non tanto per
farsi agente di propaganda e procurar nuovi elementi al partito liberale,
quanto per accordare insieme quelli già esistenti, e dare ad essi quell'unità
di fine e di direzione, che poteva solamente assicurarne il buon successo nel
dì della prova. I beni eredati da sua madre davano al Dottore una modesta
indipendenza; e perciò i mezzi di poter proseguire senza interruzione, e
promuovere con più efficacia l'oggetto che si era proposto. Un viaggio a piedi
in Isvizzera, intrapreso per salute nella primavera del 1843, gli diede
l'opportunità di conoscere e di essere conosciuto da molti dei principali esuli
italiani; e siccome le idee e le speranze loro erano d'accordo colle sue, fu
cosa facilissima l'intendersi. Dal 1843 al 1847 passò la maggior parte del suo
tempo in Torino: ove, curando gratuitamente i poveri, guadagnossi una
riputazione ben meritata di carità e di scienza; e scrivendo inoltre varie
operette di medicina, il nome di profondo ed elegante scrittore. Verso quel
tempo, cioè nella primavera del 1847, le notizie di Sicilia cominciarono a
divenir seriamente importanti. Il governo napolitano, come già osservammo,
lungi da dare alcuna soddisfazione alle esigenze popolari, grandemente eccitate
dalle riforme accordate in Torino, Firenze e Roma, le combatteva nel modo più
brutale. Una insurrezione era imminente in Palermo, così dicevano le
corrispondenze private. Antonio con pochi amici s'imbarcò per Malta, da dove,
al principio del gennajo 1848, passò in Palermo. Egli e i suoi compagni
nascosti fin dal 12 di gennajo, quel giorno con una bandiera tricolore in pugno
presentaronsi nella piazza della Fiera Vecchia. Si corrispose da tutte le parti
al grido di all'armi! e l'insurrezione cominciò vigorosa. Il
combattimento fu lungo e ostinato, che durò dal 12 al 29 gennajo. Ma non
ostante un rinforzo di truppe fresche sbarcate il 15 dalla flotta napolitana, e
di un vivo bombardamento della città dal forte du Castellammare, l'impeto
popolare fu irresistibile. Quasi per incanto prese tutte le fortezze una dopo
l'altra: il Palazzo Reale fortificato venne assalito con tale ardore (quivi fu
ferito Antonio), che la guarnigione lo abbandonò il 25; e le truppe cacciate
dalla città furono inseguite da ogni parte vigorosamente e vittoriosamente.
L'insurrezione
si estese su tutta la faccia dell'isola: Girgenti, Catania, Messina,
Caltanissetta, Trapani, Siracusa, l'una dopo l'altra seguirono tutte l'esempio
di Palermo. I soldati di guarnigione deposero in alcuni luoghi le armi, in
altri furono pienamente disfatti, in altri si ritirarono nei forti, come a
Messina, dalla cittadella mantenendo contro la città il fuoco. L'ultima città
di qualche importanza unitasi a quel movimento, fu Noto. L'adesione di essa
avvenne il 4 febbrajo; e lo stesso giorno la bandiera tricolore sventolava
sulle mura della fortezza di Castellammare. Allora il Comitato Generale di
Palermo, costituito per dirigere convenientemente l'insurrezione, assunse i
poteri e il titolo di Governo Provvisorio della Sicilia; e ne era Presidente il
venerando Ruggiero Settimo.
Come
abbiamo già detto, un nuovo ordine politico di cose era stato intanto
inaugurato a Napoli: circostanza che dava belle speranze di un pronto
accomodamento fra i due paesi. Poco tempo dopo furono infatti cominciate le
trattazioni - sotto gli auspici di lord Minto - fra il Governo napolitano e
quel di Sicilia, intorno alle quali vogliamo soltanto osservare che, per parte
del Governo di Napoli, esse furono cominciate e proseguite senza quello spirito
di rettitudine e di conciliazione, per cui solo, se non interamente dissipata,
potevasi diminuire la diffidenza da deplorabili fatti antecedenti radicata
nell'animo dei Siciliani. La verità di questa asserzione apparisce chiara a
chiunque si voglia prender l'incomodo di percorrere la corrispondenza ufficiale
tenuta in quel tempo da lord Minto col visconte Palmerston. «Io comincio,»
scrive lord Minto a lord Mount Edgecumbe in Palermo, «comincio a credere molto
seriamente che qui (in Napoli) non si abbia intenzione di venire ad amichevole
accordo; e tutto quello che è stato fatto o si fa, non tenda ad altro che a
prepararsi per le ostilità, e assicurare gli ajuti stranieri.» Questo è il
senso della lettera di Sua Signoria data in febbrajo 1848.
Stanchi
di esser tenuti a bada, e conoscendo la necessità di sottrarre sè stessi e
l'isola dai pericoli della posizione provvisoria, il Comitato Generale di
Palermo pubblicò alla fine una dichiarazione. Era in essa detto chiaramente,
che non si sarebbe continuato a trattar sulle condizioni della pace, a meno che
fosse accettato il patto sine qua non, che nell'isola non avesse a tener
guarnigione se non l'esercito siciliano. Furono nello stesso tempo convocati i
Collegi elettorali per il 15 di marzo, e fissato il 25 per l'apertura del Parlamento.
Il
Ministero napolitano, disperando interamente vincere le difficoltà dello stato
delle cose, rinunziò allora al potere, e gli successe l'Amministrazione del 6
di marzo. La venuta al potere di uomini della qualità di Carlo Poerio, Salceti
e Savarese, prometteva di portare a final composizione l'ardua quistione
siciliana. Il 7 di marzo si tenne Consiglio di Gabinetto in presenza del Re - e
v'intervenne, invitato lord Minto; nel quale Consiglio fu preparata una serie
di atti e venne segnata una quantità di decreti, per i quali si credette
potessero essere soddisfatti i Siciliani. La convocazione del Parlamento, già
fissata dal Comitato di Palermo, fu dichiarata legale con un Atto di
convocazione emanato dal Re per lo stesso giorno. Il Governo napolitano
accordava alla Sicilia Parlamento separato, separati Ministri, ad eccezione del
Ministro degli Affari Esteri; e l'uomo più popolare di que' giorni, la
personificazione, per così dire, della rivoluzione siciliana, Ruggiero Settimo,
fu nominato Luogotenente Governatore dell'isola in nome di Ferdinando II.
L'ufficio di Ministro speciale per la Sicilia, da risiedere in Napoli, e servir
di mezzo di comunicazione fra il Governo dell'Isola e il Re, fu creato; e venne
nominato a quella dignità il commendatore Scovazzo, siciliano. Ma il punto
difficile e di sommo momento, che nessun altri fuori dell'esercito siciliano
avesse a tener guarnigione nell'Isola, senza il consenso del Parlamento
siciliano, fu lasciato interamente da parte. Dee parer cosa strana, come lord
Minto, alla cui presenza quelle decisioni furono prese, non abbia messo in
campo questa vitale questione. Pure, solo pochi giorni prima, cioè il 1° di
marzo, egli ne aveva scritto a lord Palmerston: - «I Siciliani, cercando porre
le loro libertà sotto la garanzia de' loro concittadini, sono giustificati
dalla propria esperienza: chè difatti nel carattere e nella condotta del
Governo attuale (di Napoli) non c'è nulla che meriti la loro fiducia.»
Quel
silenzio inesplicabile intorno all'esercito - punto esssenziale da risolvere -
fu considerato dalla maggior parte de' Siciliani come cosa piena di malaugurio;
e annullò i buoni effetti che avrebbero potuto produrre le altre concessioni.
Tale era la diffidenza prevalente contro il Governo napolitano, e il timore del
suo tradimento, che l'unica probabilità di far tranquille le menti irritate
stava nella rimozione di un esercito da cui la Sicilia era stata per trentatrè
anni tenuta schiava, e contro cui Messina ancor combatteva. L'opinione popolare
dichiarossi tanto fortemente avversa alle condizioni del 7 marzo, che decise il
Comitato Generale, essere «inaccettabili come contrarie alla Costituzione del
1812.» E lord Minto allora insistette, che il Comitato facesse altre
proposizioni. Furon fatte; ma addusse il Governo di Napoli l'impossibilità di
discuterle senza il concorso del Parlamento napolitano, non ancora riunito. E
il giorno precedente l'apertura del Parlamento siciliano, fu pubblicata una
protesta del Re, nella quale erano accusati i Siciliani «di mettere in pericolo
il risorgimento d'Italia, e a rischio l'indipendenza e i destini gloriosi della
patria comune.» La quale protesta dichiarava inoltre nullo e vano,
anticipatamente, ogni Atto che potesse esser fatto in Sicilia. Così ai due
paesi non rimaneva altro mezzo che la fortuna delle armi.
Empieva
la tremenda previsione di una guerra fratricida di orrore e di costernazione
molti nobili cuori di qua e di là del Faro. - «Come! gridava il Dottore nostro
amico; mentre l'antico grido di guerra: Fuori il barbaro! risuona per
tutta la penisola; - mentre la guerra coll'Austria è divenuta inevitabile per
l'eroica insurrezione di Milano, è egli possibile che ci siano due nobili Stati
italiani, occupati non ad adoperare le loro forze contro il comune nemico, ma
sì l'uno contro l'altro?» E Antonio si cacciava le mani nei capelli. Forse che
non c'era modo di allontanare questa orribile calamità? Forse c'era; nè
conveniva accasciarsi e disperare. Se il Governo napolitano si fosse potuto
trarre ad accedere alla sola condizione che nessuno esercito, fuor del
siciliano, tenesse guarnigione nell'isola, è certo che i patti del 7 di marzo
sarebbero stati accolti, e la pace ristabilita fra i due paesi. Almeno tale era
la ferma opinione di Antonio e di molti suoi amici del partito moderato, coi
quali dibatteva questo punto. Risolvettero pertanto di fare un grande sforzo
per ottenere questo desiderabile effetto. Antonio stese un Memoriale, nel quale
con gran forza di logica esponeva le ragioni che avevano a persuadere il
Governo napolitano di cedere nella quistione dell'esercito; e nel quale
estendevasi largamente enumerando i benefizii certi, che dalla concordia fra
Napoli e Sicilia sarebbero per derivare alla causa comune invocata dallo stesso
Re nella sua protesta. Questa Memoria lesse a' suoi amici; e colla piena loro
approvazione la spedì a Napoli; e fu rimessa poi in mano di uno de' Ministri;
fra il quale e Antonio esisteva stima e benevolenza scambievole - frutto di una
lunga e importante corrispondenza antica. Dopo pochi giorni venne in risposta
una breve Nota, di cui il contenuto era:
«Se
potesse l'autore della Memoria venire in Napoli, e far valere di viva voce gli
argomenti esposti in carta, stavano dieci probabilità contro una, che gli
sarebbe riuscito. Sua Maestà non era mai stata, come ora, disposta a far
concessioni. Non un giorno da perdere.»
E
Antonio, non perdette un giorno, e recossi in Napoli. Sapeva pur bene a che lo
esponesse un tal passo. Sapeva che le sue intenzioni sarebbero state male
interpretate per ispirito di parte; e che sarebbe stato lacerato il suo nome;
che sarebbe stato chiamato un fuggitivo, un rinnegato, un traditore, ma non se
ne curava. Finchè sperasse di far del bene alla sua patria, non era uomo da
lasciarsi spaventare da personali riguardi. Recossi in Napoli. Vide i Ministri,
vide Sua Maestà, e caldamente perorò la causa che aveva presa a difendere. - Se
ciò facesse con esito, o inutilmente, lo vedremo dappoi.
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