XVIII
Un giorno, giunsero due o tre dispacci
telegrafici, da Napoli, al Della-Morte. E bisogna dire, ch'e' li aspettasse,
giacché rimase in casa, tutto il giorno, preoccupato, uscendo, solo, quando ne
riceveva uno, per andarne, sino al palazzo Riccardi, al telegrafo, e
rispondervi.
La signora si perturbò di questa corrispondenza;
ma egli aveva il viso tanto burbero, mamma mia! che nessuno avrebbe osato
fargli domanda alcuna. Finalmente, verso sera, dopo un ultimo telegramma, (che
lesse, con dispetto, e gettò lacerato, in un cantuccio) Maurizio, a lagnarsi,
che il pranzo non fosse, anco, pronto; e dicendo, che desinerebbe al Doney,
uscì, tutto impensierito ed annuvolato. La Radegonda corse, a raccattare il
telegramma malconcio. Ravvicinati, con molto studio, i brandelli, così da poter
leggere il testo, vide, con somma sua gioja, che non era spedito
dall'Almerinda, che non vi si trattava di lei. E questo le fu gioja, e pace.
Giacché (bisogna, pur, dirlo) era gelosa, sempre, di quella memoria; paurosa,
che non risorgesse vittrice, nella mente dell'amico suo. Pure, il telegramma
non conteneva liete notizie: e, sebbene mezzo in gergo, la Salmojraghi-Orsenigo
capì benissimo, l'agente di Maurizio rispondergli di non potere, in alcun modo,
mandare la somma, urgentemente, richiesta: impossibile, impossibile. La
Radegonda entrò nello spogliatojo di Maurizio: si dié a rovistar dappertutto, a
rimuginar ogni cosa: e, parte, nelle tasche del soprabito, parte, nello
scrittojo, trovò gli altri telegrammi dell'agente e le minute di quelli, co'
quali il Della-Morte richiedeva l'invio sollecito, immediato, di lire
diecimila. Sicuro: le gli occorrevano, urgentemente, per pagare una perdita,
fatta al giuoco. Ma come raccapezzar diecimila lire, in ventiquattro ore,
quando, non si ha, neppure, credito?
La Radegonda, però, aveva il mezzo. Senza nemmanco
pranzare, mise, in fretta, un abito, prese un fiàcchere e si fece condurre, dal
suo banchiere: ch'era un David Mondolfo, ricco ebreo triestino, fatto conte in
Italia, a patto di dar cinquantamila lire, per opere di beneficenza. La donna
nol cercò al banco, perché chiuso, a quell'ora; anzi, direttamente, in casa, in
via, già, del Cocomero, che, ora, da un sinonimo, si chiama Ricasoli. Gli
chiese le diecimila lire, su' titoli di rendita, che gli presentava, dicendo
d'averne bisogno urgente. Ma, le diecimila lire, il banchiere non le aveva, lì,
in casa; prese i titoli e promise di farle ricapitare il denaro, nella giornata
seguente, anzi di buon'ora.
Lasciato il banchiere, la Radegonda s'incamminò, a
piedi, verso Via Nazionale, dove tornava, con la veletta calata sul volto; quando,
tutt'a un tratto, in Via Cerretani, un suono di voci, troppo a lei note, la
fece trasalir tutta. Innanzi a lei, camminava un signore, dando di braccio ad
una signora; e non le bisognò piú d'un'occhiata, per ravvisare la signora
Almerinda Ruglia-Scielzo ed il proprio marito, signor Gabrio Salmojraghi.
Fermò, subito, il passo, per frapporre maggior distanza, fra la coppia
importuna e sé; e, poi, mutando strada, tornò, rapidamente, a casa, trafelata,
indispettita, gelosa. Come, mai, que' due, lì? insieme? Cosa volevano? Che
avessero concluso una lega offensiva e difensiva, per toglierle il suo
Maurizio? A lei, pareva di averlo comperato, caro, abbastanza, perché, ormai,
glielo lasciassero, in santa pace e senza contrasto di sorta. Ella era pronta,
a sottostare, a qualunque condizione, purché le si lasciasse quel possesso
indisputato. Sottostava a' maltrattamenti; si rassegnava, a non vederlo, se non
poco e fosco, come il giuoco gliel concedeva. Volete di piú? Ebbene, sì,
avrebbe permesso, tollerato, anche, qualunque scappuccio, con una femmina da
conio; ma quel, che non poteva, in guisa alcuna, ammettere, si era, ch'egli
riappiccasse, con l'antica fiamma. Questo, poi, no! Ed, ora, la preoccupazione
dell'amico le sembrava aver dovuto esser, almeno in parte, cagionata, anche,
dal sapere l'Almerinda in Firenze, dall'averla, probabilmente, vista e, chi sa?
forse, anche, intrattenuta. La fantasia creava mille tormenti, a lei poveretta.
Non toccò cibo; e, perplessa, turbata, aspettò, con ansia insolita, il tardo ritorno
dell'uffiziale, che l'immaginazione le rappresentava allato all'Almerinda.
Egli non fu in casa, se non lunga pezza dopo la
mezzanotte; forse, piú stizzoso dell'usato. Ed ella, dimenticando la prudenza
solita, scelse, appunto, quella sera e quel momento, per chiedergli con
insistenza, con ressa, con improntitudine, onde, onde venisse? e come e dove
avesse spesa la serata?
«Dove sei stato?»
«In qualche parte».
«Ma dove, dove?»
«Che t'importa?»
«Voglio saperlo!»
«Voglio, voglio! E s'io non volessi dirtelo?»
«Oh, stavolta, dovrai parlare!...»
Maurizio aggrotta le ciglia; e zufola l'inno
reale: larà, larà, larà, lallarà, lallallalà!
La Radegonda, accecata, dalla gelosia, e
scorgendo, in quel silenzio, la conferma del sospetto suo, insiste. Ed arrischia
qualche lamento, sull'abbandono, in cui vien lasciata, per correre, chi sa
dove! chi sa da chi! Si lagna della freddezza, della noncuranza, che le
vien dimostra: in modo mite sì, cansando ogni parola acerba, ma i rimproveri
sogliono essere tanto piú crudeli, quanto piú sono, moderatamente, espressi;
fanno piú colpo. La sciabola taglia, accarezzando, non percotendo. Ahimé! con
le disposizioni d'animo, che il signorino nutriva per lei, e col malumore
speciale, in cui l'immergevano gl'imbarazzi momentanei suoi, que' rimproveri
potevano soltanto inasprirlo.
«Oh, oh! son chiamato, a render conto della mia
condotta, pare! Sarò ridiventato bimbo, che tu stimi facile di governarmi, a
tua posta? Già, io, certe inquisizioni non le tolleravo, neppur, da bimbo!
neppure, da mia madre, che è mia madre ed una santa donna! Assolutamente, mi
vorresti per tuo servo umilissimo, neh? Sbagli, sbagli, sbagli, carina! Chi la
tira, la spezza. Libertà reciproca. Io so, che tu sei uscita, oggi; ebbene,
chieggo, forse, dove sei andata, eh?»
«Ma io...»
«Ma tu m'impastocchieresti una frottola. Io non
son femmina, per saper fingere e mentire. Io fo quel, che m'accomoda; vo, dove
m'aggrada. Se avessi inteso darmi una padrona, vincolarmi, avrei tolto moglie.
Maledetta l'ora!...»
Queste parolacce eran piú borbottate, che dette;
borbottate, smozzicatamente, fra' denti. La pusillanime Radegonda ne
indovinava, così, in confuso, in grosso, l'intenzione minacciosa e maligna, piú
che non ne comprendesse il senso preciso. Afflitta e sbigottita d'averlo
irritato, scusandolo, già, (e, veramente l'attenuante saltava agli occhi ed...
al naso: gli era ebbro!) cercò rabbonacciarlo, con soavi parole. Fu peggio.
«Già; già; sei piú furba tu!... sublola e volpina, come dice il
Garibaldi de' preti. Credi racconciar tutto, con due parolette lusinghiere.
Quando le minacce non approdano, allora, t'appigli alle seccature, alle
lusinghe... Ma devi credermi, dunque, ben dappoco? Ed io ti ripeto, che la
sbagli, la sbagli; ch'io cavezze non ne accetto, da nessuna. So di avere, pur
troppo, obblighi, verso di te; li soddisfo, mi pare. Ma t'inganni a partito, se
stimi, che io possa ammettere, d'esserti venduto; t'inganni, t'inganni,
t'inganni».
La Radegonda, avvilita, taceva, lo lasciava
sfogare. Peggio che mai. «Perché non rispondi? perché t'ingegni di occultarmi
il tuo pensiero? Fai la mummia greca, la gatta morta eh? Falsa, che non sei
altro! Oh sai dissimulare, a meraviglia, gli unghioni! Chi non ti conoscesse,
come fo io!... Con me, persuaditi, le astuzie riescon poco. Hai potuto farmi
fare l'insigne corbelleria di rapirti; ma non puoi vantarti, ch'io mi sia
illuso un istante....»
La misera donna, offesa, in tal forma, diè in
lacrime dirotte, le quali rinfocolarono l'ira dell'ubbriaco: «Già vojaltre
femmine, sempre, lacrime, pronte al vostro comando! Lacrime, quante se ne
vogliono! Le vi costan poco. Sempre, che vi accomoda, lì, mano alla tromba, ed
un fiume di pianto. Animali senza ragione, ma con piú malizia e cattiveria
della serpe. Che il diavolo si porti quel Dio, che v'ha create! E questa
fontana di Trevi cosa significa, mo? Che t'ho fatto qualche gran male? che
t'avessi percossa? Uaff! ebbene, quando la finisci?»
Ella rispose: «Mi hai fatto del male, Maurizio;
senza volere, senza sapere e piú, che tu non possa immaginare, Maurizio mio.
Una tua parola acerba mi uccide; massime, quando so di non meritarla, davvero».
Con la mansuetudine, non si mansuefanno le belve;
o, se pure qualche animale bruto, non la belva uomo.
«Vale a dire, ch'io sono un matto capriccioso? Chi
sa, pretenderesti, forse, anche, di spacciarmi per ubriaco? Mia signora,
signora mia, un damerino di Milano io non sono: io sono un soldato, un rozzo
soldato. La lo sa. Da me, non pretenda né riguardi premurosi, né ch'io spenda,
quanto un banchiere. È inutile il rinfacciarmelo. Stava meglio, prima? Lei sa
bene, ch'io non sono stato, io, quegli, che la ha esortata a lasciare il
rispettabilissimo signor Gabrio...»
«Maurizio!»
«Che altro c'è, adesso? Non si può mentovare il
nome di quel tuo marito, senza che ti rannuvoli, tutta? Che altra commedia è
questa?»
«Te ne ho ripregato le mille volte... L'ho
lasciato, per te... Il farei, di nuovo... Ma perché insultarlo? È un
onest'uomo... Mi amava... Abbiamo convissuto anni... Non c'è ragione d'odio...
Tutti i torti son miei... È il padre di mia figlia...»
«Proprio? proprio lui? proprio?»
Ma non ho coraggio di riprodurre, piú oltre,
questa brutta scena. Sono istorico: ma v'ha luoghi, nella istoria, in cui
l'istoriografo abbrevia, mosso da schifo e ribrezzo. Non voglio dire ned
investigare, come la finisse; se Maurizio percotesse la Radegonda, oppur no,
quella sera: che aggiunge un atto manuale, a cotà' parole? «Oh parlava il
vino!» Sòmmelo. Ma siamo stati ubbriachi, anch'io, qualche volta, e Lei, forse,
spesso, m'immagino, caro lettore; e non abbiamo, mai, mancato di rispetto, a
una donna. Non avremmo offeso l'ultima delle cortigiane, non ché tale, cui
dovessimo gratitudine.
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