XXV
Per non so quanti giorni, il giovane stette
sospeso, tra vita e morte. I consulti si rinnovarono, piú e piú volte: ma non
osavan dare la guarigione se non come una lontana possibilità, nemmanco per una
probabilità. Le due donne, la madre e l'adultera, sempre, accanto a quel letto,
notte e giorno, giorno e notte, senza prendere piú ristoro che un po' di brodo;
senza allontanarsi, piú che il tempo necessario, per rinfrescarsi la faccia,
lavarsi le mani, passare un pettine ne' capelli; senza spogliarsi, per cercare
un istante di riposo.
E, se una delle due si lasciò cadere, talvolta,
assopita, nelle braccia della poltrona, fu la madre e non l'adultera.
Una volta, svegliandosi, in sussulto, da un breve
sopore ed angoscioso, la signora Della-Morte-Parascandolo vide la
Salmojraghi-Orsenigo, che pregava, genuflessa, ferventemente, innanzi ad una
seggiola. Le si andò a buttar ginocchioni, daccanto. La giovane riscossa, fece,
quasi, per iscostarsi; ma la povera vecchia le disse, sottovoce: «Preghiamo,
insieme, figliuola mia». Quel figliuola fece tremar, dal vertice alle
piante, dalla punta de' capelli alle unghie de' piedi, colei, cui
s'indirizzava.
Pregarono. Dopo un poco, la madre circondò le
spalle dell'adultera, col suo braccio destro; e le mormorò, nell'orecchio: «Dio
ci esaudirà!»
«Dio esaudirà voi, che siete madre, che siete una
santa. Ma le mie preghiere non trovano ascolto, in cielo. Io lo sento. Me lo
dice, al cuore, una voce, che non mente». Così rispose, tremando, la meschina,
con quella voce, con cui si confidano, all'orecchio del confessore, le proprie
sfiducie, i rimorsi, che ci travagliano.
Dopo un poco, la Chiarastella abbandonò il capo,
sull'omero della compagna; e si sfogò, in lagrime, lunghe, calde, strazianti,
frammiste di singulti compressi. La Radegonda la sostenne, senza muoversi: gli
occhi di lei erano impietriti. Si adattò, meglio, per sorreggere quel peso
carissimo; ed, in quegli spasimi convulsi del pianto, rasciugò le lacrime,
terse la schiuma, che s'affacciava sulle labbra. Quando la crisi fu superata e
la povera vecchia si alzò, la infelice Salmojraghi-Orsenigo appoggiò le labbra,
alla mano di lei, ma lievemente, timidamente, come chi si stima indegna. La
Della-Morte-Parascandolo si curvò, sulla fronte della giovane; e, scartandone i
capelli arruffati, v'impresse un lungo bacio materno. Trasalì, tutta, la
Radegonda; e rimase prostrata. Minuti poi, la madre del suo Maurizio tornò, a
lei, come se, solo in quell'istante, avesse percepite le parole, pronunziate un
quarto d'ora prima; e, ricurvandosi verso la giacente, le prese le mani e la
trasse su e le disse: «Credi tu, che vi sia qualcuno incolpabile, al mondo?»
L'affettuoso tu scese blando, mite, carezzevole, al cuore della
sventurata. «Credi tu, che vi sia chi possa credersi buono, al cospetto di Dio?
e giudicar gli altri? e non temere d'esser giudicato? Siamo tutti peccatori,
tutti indegni della divina misericordia, tranne in quanto Lui ce ne degna.
Credimi, figliuola mia, la tua preghiera non trova un orecchio sordo; tu non
sei men cara, al Signore, d'ogni altra sua creatura. Guardati, dal disperare
della sua bontà! Povera figliuola, ricordati: che chi piange sarà consolato.
Ricordati; che molto si perdona a chi molto ama. E queste tue veglie e
queste tue lagrime, queste son carità ed amore!»
Al decimo giorno, fu tenuto un (non so se nono o
decimo) consulto. Ed i chirurghi, cessato il delirio, ben riuscita la
disarticolazione, bene avviata la ferita al petto, pronosticarono meglio; e
dichiararono non improbabile, che il paziente si riavesse. La madre di Maurizio
venne a gittarsi, ebbra di gioja, al collo della partecipe d'ogni cura, d'ogni
patema. Solo, allora, le donne cominciarono, ad aver occhio e pensiero, per altro
che il loro diletto; ed avvertirono la stanchezza accumulata. La
Della-Morte-Parascandolo tanto disse e tanto accarezzò la Salmojraghi-Orsenigo,
che, finalmente, l'indusse ad andarsi a buttare sul letto, dove, pure, la penò,
molto, a chiuder gli occhi, per poco, tanto l'aveva sovreccitata quella veglia
prolungata, eccessiva.
Quando si alzò dal sonno, rinfrancata; e si fu
finalmente, cambiata e pettinata, in fretta, e lavata, dopo tanti giorni, che
aveva negletta ogni cura di decenza e, quasi di pulizia; entrò nella stanza di
Maurizio. L'infermiera le fece cenno, ch'egli dormicchiava. Ed essa, dopo
averlo, amorosamente, contemplato, alquanto, si accostò alla vetrata; e guardò
in istrada. Era l'ora, in cui la gente si avviava al passeggio. Rimpetto alla finestra,
pompeggiava una gran fiera di giocattoli, a guardar le cui vetrine si
soffermavano bimbi e bimbe, accompagnati da mamme e da bàlie e da bambinaje. Ed
ecco, in quella folla, mettersi una donna, che la Salmojraghi-Orsenigo ravvisò,
immediatamente, per la Ruglia-Scielzo; e dava la mano, ad una fanciulletta
graziosa. La Radegonda si sentì fremer le viscere. Guardava, intenta: ma non
poteva veder bene, giacché la bimba le volgeva le spalle, adocchiando, nella
bacheca, ed accennando alcuni balocchi. L'Almerinda si chinò, piú volte, per
parlare alla ragazzetta; e, finalmente, entrarono, insieme, nella fiera. La
Radegonda non si muoveva. Era sospesa, in dubbio: le pareva e non le pareva.
Dopo un poco, la Ruglia-Scielzo riuscì dal negozio con la tosa, che aveva
sotto-braccio una grossa bambola, e che la Salmojraghi-Orsenigo vide, stavolta
di faccia e riconobbe. Era la figiuola sua, la Clotilduccia sua, quella cara
creatura, che aveva rifiutato di mai piú vedere, verso la quale si sottraeva,
agli obblighi materni. Che non avrebbe dato, in quel punto, per essere, con
lei, in istrada! per udirne la voce! per godere della sua letizia del balocco
comperato! Quanto invidiava l'Almerinda, che poteva saziarsi di baciarla! A
lei, madre, questo era tolto ed in eterno! E diede in pianto; e seguì, a lungo,
con l'occhio bramoso, quella visione adorata. Ma piangeva, sommessamente.
Maurizio, che s'era ridesto, la chiamò. Ed essa,
(riscuotendosi da' pensieri dolorosi, che le facevano assalto, rimproverandosi
la momentanea distrazione,) corse ad accudirlo.
«Perché piangi?» le chiese il giovane.
«Nulla. Ho il paradiso in cuore: ora, sei fuori
pericolo».
«Povera Radegonda! con quanto amore, mi assiste! E
sì, che, ormai, sono un misero infermo, buono a nulla. Un moncherino! Addio carriera!
E me ne andrò in tisico, con questo petto sfracassato! L'accudirmi,
t'infelicita; vivi miserrima, per me. Hai rinunziato, a tutto, per una
compagnia, che non può contribuire, alla tua felicità».
Ed ella, chinandosi, verso di lui, con gli occhi
sfavillanti, sebbene, ancor, lagrimosi: «Oh Maurizio» rispose «cosa dici? cosa
dici, mai? La felicità mia è, nello starti accanto; è, nell'esser tollerata, da
te. Io sono la piú lieta donna del mondo, se tu m'ami; e non cambierei... con
la piú ossequiata madre. Infelice, io? quando so, che non debbo, piú, temere
per la tua vita? quando tu hai arrischiata questa vita, per un insulto, a me
fatto? Infelice, io? Non potrei dirmi tale, se non il giorno, in cui mi
scacciassi».
Ed il giovane, che aveva mentito benevolenza, per
non sembrare ingrato, pensava: «Ma se lo dicevo io, che non c'è verso, di
liberarsi da una donna, che si sacrifica, per noi? Chi m'insegna il modo di
disgustarla di me? Chi m'insegna, come far cedobonis di tanta felicità?»
Della sorella dell'Almerinda, Berenice, e di quel,
che le avvenne, osservandissimi lettori e lettrici, narrerò un'altra volta, con
comodo, quandochessia.
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