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Canto primo. —
O agresti solitudini, o pinete,
O monti della Sila cosentina,
Che l'estrema reliquia possedete
Del Monastero della Sambucina,
Col rumor della caccia altri le quete
Ombre vostre profani, e l'eco alpina;
Giovine io sono di piú mite ingegno,
Amo le Muse, e a meditar quì vegno.
A meditar sui rovi, e sull'ortica,
Sull'edera tortuosa, onde ammantate
Sono le mura della casa antica
Un tempo dalle Vergini abitate,
Che vi lasciâr partendo un'aura amica
Un raggio delle lor forme beate
Di lor sen, di lor vesti una fragranza
Un suono qual di voci in lontananza.
Eran fanciulle, che all'età di amore
Tolser l'ali ad amor, e a vol poggiaro
Come colombe, che nel chiuso orrore
S'involan delle selve al nibbio avaro
Lungi da questo mondo ingannatore,
Locando in dio l'affetto lor più caro;
Ora fama ne serba un debil grido,
Partiron le colombe, e vuoto è il nido
É vuoto il nido, e 'l venticel, che spira
Pei corridoi e le moscose celle,
Sembra che imiti il suon di un piè, che gira
Leggero, leggerissimo per quelle,
Ma dove i canti della sacra lira?
Dove i sospiri delle verginelle?
Solo rumor, che si ode, è quel dei venti,
Dell'imposte, e dei tegoli cadenti.
Partirono siccome pellegrino
Stuolo d'augei, che un'infallibil arte,
Un istinto profetico e divino
Guida a clima migliore, a miglior parte;
Arresta in luoghi inospiti il cammino
Finchè dura la notte, e poi riparte,
Ripiglia il volo con più lieto metro,
Varca le nubi, né si guarda indietro.
Quante memorie! Quì crescente nota
Vedi di nomi, cui talor scolpìa
Sopra i pioppi la vergine devota,
Mentre ai dì scorsi col pensier reddìa;
Lì appeso al trave d'una stanza, or vota,
Il nido, onde la rondine fuggìa
Quando non più vi ritrovó colei
Che accordava il suo canto a quel di lei.
Memore nondimeno, il caldo aprile
Come un altar queste rovine infiora
E in ogni fior che piega il capo umìle
Par che vergine viva e preghi ancora
La cui polve chi sa, se in quel gentile
Fiore, che ne spuntò, non si colora,
Finchè ognuna fia data all'altra vita
Di questi stessi fiori il crin vestita.
Ma prima deh! che alla seconda vita
La tromba dell'Arcangelo vi appelli,
Concedetemi, o vergini, che ardita
Domandi la mia voce i vostri avelli.
Mi assideró sovra essi, ed avran vita
Dentro i miei carmi i vostri nomi belli;
Io canto, e parmi già dal paradiso
Vedervi su di me chinare il viso.
Cantar mi giova dell'Eugenia vostra,
Quì nata, e quì appassita al par di fiore,
Che non scoppiato ancor dalla sua chiostra
Cade, e reca con sé tutto il suo odore;
Scomparsa qual ruscel, che come mostra
Le limpide onde, in sua sorgente muore,
Ignoto all'erbe azzurre, e perse, e gialle,
Ond'è dipinta la soggetta valle.
Quì crebbe pargoletta e se vagìa,
Una cerva, che umano indole avea
I turgidi e villosi otri le offrìa,
E lambivale il volto e ne godea,
Mentr'ella con tal grazia la ghermìa,
Che figlia d'una fata esser parea,
La quale sotto vil forma ferina
Nascosa avesse sua beltá divina
E già, bianca farfalla, avea le penne
Spinto oltr'i fiori del secondo lustro,
Nè vestivale ancor voto solenne
D'aspre lane del collo il bel ligustro:
Cresceale intonso il crine, e con perenne
Gara le suore gliel rendean più lustro,
Nutrendolo di odori, e in vario rito
Attorcendone il crespo oro forbito.
L'esser suo l'era ignoto, ed una muta
Notte l'alba coprìa della sua vita:
Come nacque e da chi? come venuta
Era là quella piccola romita?
Ignora se una madre avesse avuta,
Qual fosse stata, e come là riuscita,
E sempre invano ad indagar si prova,
La natura del luogo, in cui si trova.
Era così d'un augellin sull'ali
Goccia sospesa di tremante brina,
Che in sua limpida sfera agl'immortali
Raggi del sol fa specchio e alla collina;
Ignora nondimeno i suoi natali,
Nè sa da qual si alzò sorgente alpina,
Come indi al ciel salì, come fu spinta
Sulla mobil di augello ala dipinta.
Ben ne chiedeva, ma le chieste suore
O si stringean negli omeri, o con blande
Risposte incerte, e di nessun valore
Si difendeano dalle sue dimande:
Con tale alfin ridussesi, che amore
Più che l'altre compagne aveale grande,
Ambe le mani al collo le congiunse,
I suoi dubbi le aperse e poi soggiunse:
—Dimmi tutto, o Teresa, se tu brami,
Che ci riceva ognor lo stesso letto,
Che a te sola dia baci e ti richiami
Un pò di vita su quel morto aspetto,
Se vuoi che ratta allor che tu mi chiami
Ti corra incontro e ti balzi sul petto,
Che teco io canti, e facciami, siccome
Meglio ti piace, ornar da te le chiome—
L'arguto mento le stringea Teresa
E rispondea commossa:— Eugenia mia,
Di quel che chiedi, se io ne fossi intesa,
Ad appagarti non sarei restia;
Ma a che non apri la tua voglia accesa
Alla madre che regge la badia?
Ella ha senno maturo, ed ella sola
Può dar risposta ad ogni tua parola—
L'intende la fanciulla, e, dall'amica
Staccandosi repente, un corridore
Lunghissimo traversa, e dell'antica
Madre giunge alle tacite dimore,
La cui porta ha nel sommo una pudica
Immagin di Maria, che tutt'amore
All'ombra del mantel, che ampio discioglie
Una schiera di vergini raccoglie.
Resta per poco a contemplare il viso
Delle ruvide suore, e le di neve
Mani congiunte sotto il mento, e 'l fiso
Occhio che di Maria la luce beve,
E i veli così veri, che l'é avviso
Che palpiti in quei veli un'aura leve,
Di poi le conta, e da stupore é vinta
Che tra lor non si trovi anche essa pinta
Della badessa alfine entra la stanza,
Dove di vita angelica e di pace
É sola soavissima fragranza,
E l'aria è pigra, e mesto il dì si tace;
E lentamente e timida si avanza
Ver lei, che a terra sopra il volto giace
Appo i taciti letti, il seno oppressa
Dal pensier della morte, e di se stessa:
Che innanzi le pendeva infitto al muro
Su legno polveroso un Dio morente
E a piè di quello, un teschio arido e scuro,
Che un tempo ebbe speranze, amori e mente;
Or vi ordisce gli stami il ragno impuro
Entro le cave delle luci spente;
Cosí tra le memorie ella é romita
Del nulla umano, e dell'eterna vita.
Tacitamente ancor sulle ginocchia
Si pone la fanciulla a lei vicina;
Poi leva il capo, e lungamente adocchia
Chiuso dentro la gabbia un canarino,
Che or becca di panìco una pannocchia
Or qua e là saltella, e al sol, che chino
Verso il tramonto la prigion gl'indora,
Canta un saluto e la prigion deplora.
Ma, compiute le preci, in piè levosse
L'antica donna, sulla cui severa
Fronte parea che impresso un raggio fosse
Vibratole dal Dio, che innanzi l'era.
Avea di pianto le palpèbre rosse,
E la maestà di vergine guerriera,
Che dei mortali affetti, e della terra
Sotto il vessil di Dio vinto ha la guerra.
Vide a sè presso Eugenia, e 'l vecchio
aspetto
Parve per poco che ringiovanisse;
Di lei sul capo con materno affetto
Congiungendo le man, la benedisse;
Poi pigliandola seco, e all'aer schietto
All'aer aperto uscendo:—Andiam, le disse;
Andiam nell'orto ed ivi i fior più cari
Corrêmo, o figlia, per ornar gli altari—
Disteso in ampio giro appo le mura
Era il culto giardin della badìa
Dove di beltà mille la natura,
Vergine capricciosa, un misto offría;
Che il suol or sorge in colle, ora in pianura
Giace, e per tutto valli ed antri aprìa,
Antri muscosi sul cui fondo cieco,
Memore di sol'inni, abita l'eco.
Là vedi un pergolato, ove nell'ore
Che ha il sol varcato di suo corso il mezzo,
Qual schiera di farfalle hanno le suore
Il bel costume di carpirne il rezzo,
Vi ronzan l'api, vi sussurran l'ôre,
Mandan pampini e grappi un caro olezzo
E 'l sol, che sulle brune uve scintilla,
Arde men bello della lor pupilla.
Levasi altrove accanto all'infecondo,
Tristo onor della morte, atro cipresso
Il salice, che versa gemebondo
Le sciolte chiome, e par da duolo oppresso
Mentre ad entrambi in suo pallor giocondo,
Simbolo di alma pia, fiorisce appresso
Dalle candide bacche il pingue ulivo,
Che all'inverno contrasta e sempre è vivo
L'orto divide con le garrule onde
In molte vasche prigioniero un rio,
Che, gremite di fiori ambo le sponde,
Cerca fra valli sinuöse obblio:
Ivi le suore fan nitide e monde
Lor vesti e i lini dell'altar di Dio,
E spesso inispecchiarsi in fondo a quelle
Acque arrossiscon di vedersi belle.
Colá ciascuna pianticella serba
Il nome di sua vergine cultrice,
Cresce con lei di tanto onor superba
E, crescendo con lei, l'età ne dice,
E le somiglia, e ne ha la grazia acerba
Quando in Aprile ogni suo fior felice
Par di avere a colei tutto rubato
Dal volto il minio, e dalla bocca il fiato.
Qual ape montanina, il ciel se imbianca,
Susurrando lievissima trascorre
La valle, cui la brina ha fatto bianca
L'odorato suo pascolo a raccorre;
Tale la bella Eugenia a destra e a manca
Come librata sopra l'aura corre
E l'erbette calcate ergon la testa
Desiose di baciarne almen la vesta
Dall'alto delle siepi il fior le fea,
Il calice abbassando, un dolce invito
Di esser colto da lei, che era la Dea,
Che era la Ninfa, che l'avea nutrito;
Ed essa, questo e quel mentre cogliea,
Fermavasi talor, dove imbrunito
Dall'ombra d'alte canne, ampio vivaio
Stuol di pesci nutria minuto e gaio
E or spicinando poco pan sull'onde
Ne richiama la muta famigliuola,
Che alza l'arcato dorso e le risponde,
Come se ne intendesse la parola:
Oscilla con le code tremebonde,
Afferra l'esca avidamente e vola
E l'auree pinne vibrando scintille
Fan che il solcato umore arda e sfaville
Sotto d'un melo intanto l'abbadessa
Pensava a Dio, la cui bontà suggella
Di sè tutte le cose, ed ha concessa
Un'anima a ciascuna e una favella:
Ogni atomo creato l'interessa,
E tanto agli occhi suoi grande è la stella
E tanto l'uomo quanto il musco e il fiore,
Quanto l'insetto, che il dì vede e muore.
E pensava così, mentre volare
Mirava una dolente cardellina
Sempre attorno a quel melo e non osare
Per temenza di lei farsi vicina,
E or trepida partire, ora tornare
Or a terra posarsi, or su una spina,
E guatare affannando imprigionati
In quel melo i suoi figli or ora nati.
Scoverti quegli uccelli avea Teresa
E, a che non fosse il suo desio deluso
Di possederli adulti, in gabbia appesa
Al medesimo melo il nido chiuso,
Dov'ora che la madre han vista e intesa
Mettean sì acute strida oltre il lor uso,
Che tal pietade il core le percosse,
La venerabil madre in piè levosse.
E di sé col condursi ad altro lato,
Alla cardella tolta ogni paura,
Questa, preso l'istante, al nido amato
Voló qual strale rapida e sicura:
Apron la bocca i figli in flebil piato,
Le nude ali agitando, alla pastura,
Mentre che per le gratole ella caccia
Il capo, e fa che or l'uno or l'altro taccia.
— Oh provvidenza! dal commosso petto
La badessa esclamava, ah! tu pur sei
Che della madre il nome all'augelletto
Insegni e accendi tanto amore in lei;
E tu sei pur che al peccator ristretto
Nella cieca prigion dei vizi rei,
Che di ogni spirital cibo si priva
Mandi un raggio che il nutre, e lo ravviva—
Quì viene Eugenia, e tosto a lei, che china
Versale in grembo i giá raccolti odori,
Chiede amorosa:—Alla Maestá divina
É forse d'uopo di cotesti fiori?
Ah! non son questi i fior, che egli destina
Per la sua mensa! sono i nostri cuori!
Ei li crea, ei gli educa, egli li cole,
Di sua grazia gli avviva, e suoi li vuole
L'edra, che a questo mazzolino è freno,
Ad un'anima povera è simìle,
Che strisciando sull'umido terreno,
Luce non vide mai di biondo Aprile,
E questo bosso, che dal crespo seno
Alcuno non ci manda odor gentile,
O Figlia, è l'alma mia, che a Dio non diede
Altro che inutil voto, e steril fede.
Ma vedi poi questo botton di rosa,
Che dagli spacchi di sua verde chiostra,
Tutta vergognosetta e timorosa
Il minio verginal mostra e non mostra?
Tale, Eugenia, sei tu, la cui formosa
Faccia dei rai di Dio tutta si innostra,
Di Dio, che scende dentro l'alma tua,
E vi dimora come in casa sua —
— Ed oh! rispose Eugenia, ed oh! se mai
Son le fanciulle a Dio tanto dilette,
— Perchè fanciulla ancor tu non ti fai? —
— Perchè un tempo tal fui, nè Dio permette
Or che torni all'età, che già lasciai —
— Ah! dunque un giorno fia, che giovinette
Più non sarem Teresa ed io? che avremo
Rugoso il volto, e il crin canuto, e scemo?—
—Figliuola, sì; non vedi ogni arboscello
Ingiallire le frondi, e lentamente
Dispogliarsene, e perdere ogni bello
Quando torna la neve, e 'l vento algente?—
— Sì; ma nuova beltà ripiglia quello
Al nuovo sole, ed all'april vegnente;
E siccome di lui, perchè fiorita
Di noi non si rinnova anche la vita?
— Rinnoverassi, ma non già quì in terra,
Non sotto questo sole, e questo cielo,
Ma colà, in alto, dove non fan guerra
Dell'ostili stagioni il caldo e 'l gelo.
— E sia così; ma quì ogni pianta serra
Nel frutto il seme, ond'esce un nuovo stelo;
E produrre perchè non posso anch'io
Un nuovo viso che somigli al mio?
Ben mi ho fatto una bambola, e Teresa
Me la volle adornar di nastri e fiocchi;
Ma ella sta muta, ma ella sta distesa,
Ma verso non vi è mai ch'ella mi adocchi,
Vado a dormire e dico: una sorpresa
Certo doman farammi aprendo gli occhi;
Ma viene la dimane e 'l suo sembiante
Trovo come il lasciai la sera innante.
— Sorrise la Badessa, e:— o Figlia, il seme,
Rispose, che tu invidii all'arboscello,
É dentro te, dove la Fè e la speme
Partoriscono un frutto ognor novello.
— O madre, no, non dissi io questo: insieme
Possono mai prodursi il seme, e quello?
Dell'arboscello non è il seme pria?
Ed io che fui pria dell'infanzia mia?
Come nacqui e da chi? — Da me nascesti:
Non mi chiami tu madre? E tale io sono
— Ah! è ver; ma dimmi: come mi facesti?
Di questo appunto meco ognor ragiono.
— Ecco: come una bambola tu festi
E udir bramavi di sua voce il suono,
Una bambola anch'io feci una volta
E volea che si fosse a me rivolta:
Onde pregai: Deh! manda un'alma, o Dio,
A questa di mia mano opera muta;
Ed ecco Dio dà ascolto al prego mio,
E quella bamboletta in te si muta.
— Madre, ma come se nel cielo era io,
Dio volle che quaggiù fossi caduta?
— Per amarlo, o figliuola. — E assai piú
amato
Non l'avrei forse se io gli stavo allato?
Dunque noi sole quì? — Sole, o mia figlia.
— E per noi sole tanto ciel si serra?
Di fìor, di erbe, d'augei tanta famiglia?
Ed oltre di quei monti, a cui si afferra
Il ciel, curvo siccome ampia conchiglia,
Non é forse altro cielo ed altra terra?
— E il vuoto nulla. — E ratto la fanciulla
Impaziente chiedeva: E dopo il nulla?
Quì poi senza un compagno? Hanno un compagno
Anco gli augelli! Quella cardellina
La vedi, o madre? Io di pietà ne piagno,
Nè ho cuore di mirar la poverina.
Or che l'è chiuso il nido, odi che lagno
Fa con l'amico suo su quella spina?
Vé come mesti a sogguardar ci stanno.
E di accostarsi ai figli ardir non hanno!
Entro il melo io li vidi un giorno lieti
Dei nidi affaticarsi intorno all'opra,
Dirsi con sguardi alterni i lor secreti,
Ed abbicarsi l'uno all'altro sopra,
Poi cinguettare e saltellar mansueti,
Porsi a vicenda le piume sossopra,
Lisciarsi l'ali, e l'uno all'altro appresso
Partire e ritornar sul ramo istesso.
Io al loro bisbigliar, frenando in petto
Il respiro, origliava, e mi piovea
Nell'alma un malinconico diletto;
Or perchè nulla, o madre io n'intendea?
Eppur ben io tutto il salter mi ho letto,
Ma di essi niun come il salter dicea.
Che raccontano mai? La lor favella
Apprenderò, se io fia piú grandicella?
— Conoscer tanto, o Figlia, non ci è dato;
Han pur la voce lor tutti gli augelli;
L'arida foglia errante di aura al fiato
Ha pur la voce sua, l'han gli arboscelli
E l'han le mobili onde, e i fior del prato;
Ma chi comprende come ognun favelli?
Solo Chi degli augei contò le piume
Dei boschi i rami, e le goccie del fiume.
Al par di quegli uccelli anco un consorte
La donna avea, che si nomava l'uomo.
Dio l'una fece bella, e l'altro forte,
Lieti finchè non si accostaro al pomo.
Ma lo toccâro, e tosto entrò la morte,
Dalla cui falce l'uom fu vinto e domo...
— Ma, o madre, queste cose ho tutte a mente,
Chè tu dette me l'hai così sovente.
Perchè noi pure Dio non spense? —Oh! noi
Sotto il mantello proteggea Maria;
Ché somiglianza di natura i suoi
Pensier pietosi verso noi nutria.
Qui prive, o Figlia, di compagni poi
Non siam, qual pensi; chè ove che tu stia
E di giorno, e di notte, appo il tuo lato
Veglia sempre un compagno innamorato.
— Davvero, o madre? e chi é costui? — Deh! il
mira,
Da noi non molto lungi egli soggiorna;
Sulla lieve del vento ala e' sospira;
E pinge i fiori e le stagioni adorna;
E di astri il cielo ingemma, e lo inzaffira,
Ei vi accende la Luna, egli l'aggiorna,
Egli ti muove il piccol cor nel petto;
Ah? non tu vedi o figlia? È l'angioletto.
Copre ognuna di noi con l'auree piume
Un Angel, che c'insegna il primo riso,
Delle lacrime nostre asciuga il fiume,
E per amor di noi scorda l'eliso;
Egli l'alma consiglia, ei le fa lume,
La segue sempre, e non n'è mai diviso;
Egli per noi favella al suo Signore;
Amore è il nome suo, la voce è amore.
— Madre, e chi vide mai questi angeletti?
— Chi mai li vide? mille verginelle
Che a te pari in età, gli onesti affetti
A Dio serbâro di lor alme belle.
Ma vedi che tramonta? Ora i miei detti
Ti accendin sì, che tu somigli a quelle.
Al nuovo giorno molte e varie cose
Ti mostreró di quelle avventurose.
Tacea quí la Badessa, e già la sera
Un soave color di margherita
Spargea sull'occidente, e della schiera
Delle stelle una sola era apparita;
E su pel cielo il sol che ascoso si era,
Spargea tre raggi, che parean tre dita
D'una man, che si ergea da dietro i monti
Delle due donne a benedir le fronti.
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