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Canto 2. —
Tacite tutte, e di umiltà ripiene
Giá si erano di Dio le caste ancelle,
Togliendosi alle parche e fredde cene,
Ritratte e chiuse nelle proprie celle.
Dormiva il Monastero, e lene lene
Carche di viole e d'immagini belle
L'ali il sonno scuotea sopra ogni suora;
Tu sola, Eugenia, non dormivi ancora.
Dall'aperta finestra ella si stava
Appresso il fianco della sua Teresa
E con l'occhio la luna accompagnava
Ad ogni passo della nube offesa,
Che come fuori d'una si mostrava,
Era da un'altra immantinente attesa,
E poi da un'altra, e poi dal bigio velo
Di mille, che nuotavano pel cielo.
Ed ora serenissima si affaccia,
E dal vecchio convento ogni ombra fuga,
Or tra le nubi ricade, e la faccia
Qual per subito duol le si corruga;
Ora, spirando il vento ella si caccia
Da nube a nube in frettolosa fuga,
Libera alfin si ferma, e tutta bianca
Sta in mezzo al cielo, come vergin stanca;
Libera alfine; ché per ogni parte
Con l'ali quelle nubi agita il vento,
E le mesce, o le spazza, e le comparte
Per l'estremo confin del firmamento;
Come di neve bioccoli, altre sparte
Cadono sovra i colli, altre d'argento
Orlano i bruni lembi, e qual si sfiocca,
Come morbida lana a ciocca a ciocca.
Conta le nubi, e nel suo cor poi dice
L'inesperta fanciulla: Ove mai vanno?
É in quelle nubi alcuna abitatrice?
E
giovinette, come noi vi stanno?
E perchè quella Luna è sì infelice?
Perchè all'urto non cade, che le danno
L'avverse nubi? E com'ella, non dove
Nasce, tramonta; ma tramonta altrove? —
Ed alla semplicetta sembra vero
Tutto, che la Badessa aveale detto:
Come la Luna vergine, un pensiero
Le sorride sul volto candidetto
Crede un angiol veder che l'emisfero
Per lei renda sì vago, e che l'aspetto
Trasformandone ognor, per lei serena
Apra di nubi inaspettata scena.
Ma fredda e bianca più di quella luna
Leva Teresa la penosa fronte;
Guarda anch'ella quell'astro, e ad una ad una
Tutte le pene sue par che gli conti;
Umidi ha gli occhi, e nudo della bruna
Lana il bel collo al vento offre del monte;
Ma tu, montano venticello, in lei
Non più trovi il tesor dei suoi capei.
Lo stanco capo verso Eugenia volta,
E lungamente di costei rimira
Una lucida treccia, che disciolta
Le serpeggia pel collo, e ne sospira,
Sí che Eugenia di lei, la man raccolta
In entrambe le sue:— Che ti martira,
Dice, o sorella mia? Forse qual suole,
Il capo acutamente ora ti duole?
Entriam, chè questa fredda aura ti gela,
E par ti scuota sì come fiammella
Di pallida candela, e qual candela
Pallida hai tu già questa gota e quella:
Pur teco ognor la madre si querela,
Ch’ami il sole che avvampa: o pazzarella,
Tu il consiglio di lei spregi, né sai
Il male che a te stessa, ed a me fai!—
E Teresa diceale: — Ecco serene
Sono fatte le stelle; una canzone
Di cantar teco in mente ora mi viene.
— Io canto, e che mi dai per guiderdone?
Se l'antica promessa or ti sovviene;
E tempo ben che l'orecchin mi done.
E l'altra rispondea:—Cantiamo, e appresso,
Eugenia, ti atterró quanto ho promesso
Or odi i versi, e fa che li rammenti,
Ma voglio sottovoce accompagnata:
« Così mi lasci, e tanti voti ardenti
« Di amor deludi, e tue bellezze, ingrata.
« Ovunque andrai ti porteranno i venti
« I sospiri di quest'alma piagata,
E seguìa; ma con moto subitano
Sul labbro Eugenia le ponea la mano.
La mano le ponea sopra la bocca,
Esclamando:— Deh! taci, o mia Teresa;
Là nella valle, dove il rivo sbocca,
In quella siepe hai tu una voce intesa?
È l'usignuol, che canta. Oh! come é tocca,
Come dal verso suo l'anima è presa!
Udiamo: all'onda stessa, all'aura piace
Di dargli ascolto, e l'una e l'altra tace.
E 'l mento su le braccia, che appoggiate
Avea sul davanzale e insiem conserte,
Teresa inchina, e bee le ricercate
Del dolce augello con le labbra aperte.
Con le luci da estasi velate,
Pel collo un braccio Eugenia le converte,
E lieta batte il tempo ad ogni nota,
Scoccandole le dita in sulla gota.
Ma i lievi colpi delle molte dita
E 'l braccio, che le tiene il collo stretto
Non avverte Teresa, ed è rapita
Dalla memoria d'un antico affetto:
Respira, e par che voglia l'infinita
Notturna calma attrar dentro il suo petto,
Nè parla no, ma geme, e quel, che 'l core
Le manda al labbro, sol tu ascolti, o amore:
— O musico selvaggio, a che tu solo
Nel riposo comun piangi, e sei desto?
Sai tu che veglio anch'io? che il dolce duolo
Io de' tuoi canti ascolto, e 'l cor ne è
mesto?
Forse il nido perdesti, o rosignuolo,
Che ora svolazzi da quel ramo a questo?
Io pur son sola, io pure il nido persi,
E mille affanni, o rosignuol, soffersi.
Oh! quel tempo dove è, che tu venivi
Del mio giardino dai sambuchi accolto,
Mentre io sul ferro del balcon gli estivi
Ardor temprava del posato volto?
Allora i tuoi concenti eran giulivi,
E 'l mio spirto era in lor tutto raccolto,
Allora, o rosignuol, di tua armonia
Era più dolce assai la vita mia.
Ed ora il cielo è pur, come era allora,
Come allora è la luna, e ogni astro bello
Mi aleggia in viso la medesima ôra;
Tu solo, o rosignuol, non sei più quello!
Perchè mesto così? nè m'innamora
Come una volta il tuo cantar novello?
Ah! dimmi: ti lamenti, o rosignolo,
Forse per me? Ti duoli ora al mio duolo?
Querula la sua voce era altrettanto
In quell'orribil notte, e mi cadea
Solennemente mesto il suo bel canto
Sull'anima infelice, e pur non rea.
Chi sa se or viva o no? chi sa se il pianto,
Che sotto i miei balconi allor spargea
Or estinto rinnovi in altro aspetto,
Nell'aspetto di te, caro augelletto?
E su tali pensieri istupefatta
L'anima di Teresa si arrestava,
Quando Eugenia levandosi ad un tratto:
—Entriam, cara sorella, entriam, sclamava;
Hai ghiaccio il viso, ed ogni vena rotta
Batter ti sento nella tempia cava —
E la trae dentro, e in grembo a lei si asside,
E tutta vi si dondola e sorride.
E così stando, leva la manina,
Gliela liscia alla gola, e lentamente
Indi all'estremo orecchio l'avvicina
Per richiamarle la promessa a mente
Dicendole:— Recasti fanciullina
Quì, nell'etade mia, verun pendente?
Ancor vi scorgo, o cara, un picciol foro
Forse hai perduto quei pendenti d'oro?—
Dell'innocente astuzia a fior di labro
Ride Teresa un mestissimo riso;
Poi la bacia, e le lascia di cinabro
Un'impronta gentil sovresso il viso;
Poscia una chiave, in cui da dotto fabro
Fu un serpentello intorno intorno inciso,
Toglie ed apre con essa un bel forziere,
Che presso il letto ella solea tenere,
E ne cava un anello rilucente
Che arcano nome in cifre avea scolpito,
E pria lo guata pensierosamente
E poi se 'l caccia nel suo piccol dito;
Ma quel dito vi scorre largamente,
Chè sue rotonde grazie ha già smarrito:
Ella se 'l vede, ne sospira, e appresso
Trae fuori l'orecchin che l'ha promesso.
Se 'l prende Eugenia, e per gli avuti doni
Lieta, spiumaccia con le snelle dita
Il verginale letto, ed i coltroni,
E a prender sonno la compagna invita;
Ma pria smorzano i lumi testimoni,
Ché a mostrarsi a se stessa ognuna evita
E quando ebber deposto il loro schietto
Pudico vestimento, entrâr nel letto.
— Deh! abbracciami, diceva, Eugenia mia,
La dolente Teresa, orsù m'abbraccia;
Su la mia bocca la tua bocca stia,
S'intreccino le tue con le mie braccia—
E l'altra rispondea:—Deh! quando fia
Che simile il mio petto al tuo si faccia,
E si gonfi e si parta anch'esso in due
Acerbe pome, come son le tue?—
Ed un soave brivido Teresa
Della fanciulla al carezzar si sente,
La qual dal sonno a poco a poco presa
Sul sen le resta con la man pendente,
Mentre l'altra, che aveale al collo stesa,
Se ne distacca ancor languidamente,
E già dorme, e già suona il suo respiro
Come d'aura odorata alterno spiro.
— O rosea aurora della vita umana
Sclama in suo cor Teresa, o Fanciullezza!
Che rechi, e in te racchiudi intatta e sana
Di gioie inconsapevoli ricchezza;
Immagine di ciel, che alla mondana
Valle sei nunzia d'immortal bellezza;
Farfalla, a cui la risplendente piuma
Del natio paradiso aura profuma!
Come al prezzo darei tutta la vita,
Al prezzo di tornare un giorno solo
La fanciulla Teresa redimita
La fronte d'innocenza e ignota al duolo!
E tu perché, o Signor, bella e fiorita
Ci dài l'infanzia, se la fugge a volo,
E da quell'alba così chiara e pura
Succeder deve una giornata oscura?
Perchè morta non son, quando il mio core
Tutto casto era ancor? quando il cor mio
Non invaso dal mondo, e dall'amore
Serbava in se l'immagine di Dio?
Perchè non cogli sul mattino il fiore,
Pria che smarrisca il suo decor natio?
Ti dorrai tu col fior? Ti dirà quello:
Perchè colto non mi hai, quando ero bello?
Ah! se richiesto tu mi avessi allora
Che mi creavi, o Dio, ti avrei gridato,
Non farmi donna, no, bensì dell'ôra
Dammi le placide ali, e 'l molle fiato;
Fammi un fiorel, che al pianto dell'aurora
Occulto nasce ad una siepe allato;
Una fronda, che ignota e spunti e cada,
Un fil d'erba, una goccia di rugiada
Ed amar non mi lice? E questo in petto,
Questo cor chi lo pose? E se tessuto
D'auree corde l'hai tu, come all'affetto,
Che fa vibrarlo, può restarsi muto?
A ferro, a sasso privo d'intelletto
Somigliante perchè non l'hai renduto!
Gli occhi mi doni, nè poi vuoi che miri
L'alma luce del sole, e la sospiri?
Come dorme tranquilla! come lento,
Secondando il respiro, il cor le batte,
D'ogni vile desio, d'ogni fermento
Sgombro, del sen sotto le nevi intatte:
Così lampada sacra arde, ed 'l vento
La sua dritta fiammella invan combatte,
E al cristal, che la chiude, attorno spesso
Va la farfalla, e non vi trova ingresso.
S'ella morisse, a lei parria l'eliso
Forse di quel che sogna assai men bello;
Dorme, e dormendo coglie il fiordaliso;
Dorme, e dormendo ode cantar l'augello,
Ora sorride, or salta, ora l'è avviso
Di sedermisi in grembo, o del ruscello,
Vagheggiarsi, e agitar, stando allo specchio
L'oro, di cui testé le ornai l'orecchio.
Cara fanciulla, e a che ti ange il desio
Di rompere il mister, che ti circonda?
Sublime è come la scienza di Dio
Questa, in cui vivi ignoranza profonda.
Dormi: nel lago del tuo cor non io
Gitterò il sasso, che ne turbi l'onda;
Sian del male l'immagini deformi
Lungi da te, cara fanciulla: dormi!
Così dormissi anch'io! Ma ahimè! dolenti,
Come per febbre, son le mie pupille,
Batton le vene sui lor globi ardenti,
E mi fanno veder cento scintille;
Ed odo entro l'orecchio due torrenti,
Un suon continuo di funeree squille;
E invan te, o sonno, ad invocar mi stanco
Ora sul destro, or sul sinistro fianco.
Dure veglie! ma veglie dilettose
Ebbi un tempo;… ma via, lungi, o pensiero!
Orsù dormiamo — E quì Teresa pose
Il capo in abbandon sull'origliero;
Ma ingannevol quiete le compose
Per poco i rai; che un tempo menzognero
L'alma amorosa le mettea in tumulto
E tutto il suo bel corpo era in sussulto.
E svegliosse da un fremito compresa
Schiusa la bocca ed umida di baci,
Però che si sentia l'aria contesa
Da due che la stringean braccia tenaci,
Tenaci e care braccia, ond'Ella presa
Gioie un tempo gustò troppo fugaci;
Mosse attorno le mani, a sè d'accanto
Quando alcun non trovó, spezzossi in pianto:
— O crudele! esclamó poi la dolente
Abbi di me pietà, cessa, va via:
Che cerchi in questo luogo penitente,
Ove ogni gioia, ove ogni amor si oblia?
Nè il dì ti basta, che ancor ti presenti
Di notte a conturbar la mente mia?
Fammi dormire, o crudo; ecco io mi sto
Qui sola, e i sonni tuoi non turbo io no! —
Così dice la misera, e si prova,
A richiudere il ciglio lacrimoso;
Ma un cantico la fere, e fa che muova
Da lei lontano il reduce riposo.
Riapre i grevi occhi, e già la luce nuova
Pingea la stanza di un chiaror dubbioso,
Onde le braccia componendo a croce
Immota ad ascoltar sta quella voce:
Voce argentina di due monacelle,
Che correndo pei lunghi corridori
Su per le fughe dell'opposte celle
Solevano cantare ai primi albori;
Ai preghi mattutini le sorelle
Risvegliando, e chiamando ai sacri cori
E del passo, e del canto al suono eguale
Parean colombe, che agitasser l'ale.
Care suore, or via sorgete
Al Signor, che ci fa liete,
Al signor, del nuovo giorno
Col ritorno — un inno orsù.
Non in questo mondo infido
L'alma nostra fa il suo nido
Ma sospendelo alle belle
Chiare stelle — di lassú.
È di gioia, é di diletto
Il cantar dell'augelletto;
Questa terra è il suo paese,
Nè egli attese — un altro dì.
Ma a noi é luogo di passaggio,
Una notte senza raggio,
Un albergo: il nostro giorno,
Il soggiorno — non è qui.
Non di gioia in questo chiostro
Suoni dunque il canto nostro;
L'accompagni il pentimento,
E l'accento — del dolor.
Nell'esilio si sospiri
Il terreno dei desiri,
Dove aspettasi lo sposo
E il riposo — nel suo amor.
Qui tacque il canto, e rauca ancor si udia
Gemer l'eco del lungo corridore,
Onde l'aria divisa ognor più gìa
Disperdendosi in mille onde sonore;
L'aria tremava, e al par di lei sentia
Dolcemente tremar Teresa il core,
Che le spalle appoggiando agli origlieri
Ragionava così coi suoi pensieri:
— Almen, se notte é questo mondo, almeno
Fosse un perpetuo sonno anche la vita;
Nè ce destasse amore, o il suo veleno
Non facesse insanabile ferita.
Sì lo sposo ci aspetta, ed ivi al seno
Potrò stringer quell'uomo, a cui rapita
Fui qui dall'empia sorte, e dir: ti amai,
Ed ora non sarem disgiunti mai.
E sorride all'Eugenia, che, levata
Bianca dal sonno, e madida la faccia,
Aperta intanto aveva l'impannata,
E le mostrava con le nude braccia
La luna, che tra gli alberi fermata
Rimpetto al sol, che spunta e la minaccia
Par che ne penda qual pomo di argento,
E con gli alberi insieme ondeggi al vento.
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