Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vincenzo Padula
Il Monastero di Sambucina

IntraText CT - Lettura del testo

  • — Canto 3. —
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Canto 3. —

 

  Chi a quel concerto vario ed infinito,

  Che fanno uccelli, e rivi, aure e foreste,

  Quando nascendo il , par che vestito

  Di beltá nuova il mondo si ridesta,

  Il canto mescolarsi avesse udito

  Delle suore e le preci alterne e meste,

  Le cure di quaggiù poste in oblio,

  Creduto avria, se non credeva, in Dio;

 

  E provato la gioia, onde l'immondo

  Secolo i figli suoi viver fa ignari,

  La gioia, che rampolla dal profondo

  Di pensier tristi in cuori solitari;

  Sparir d'innanzi si avria visto il mondo

  Qual granello di sabbia in seno ai mari

  Dell'infinito, e stargli a faccia a faccia

  L'Eternitade con aperte braccia,

 

  Tutto l'orror mettendogli d'avanti

  Dell'oscuro sepolcro, ed i misteri,

  Ed i terrori dell'estremo istante,

  E del feretro i gelidi origlieri....

  Ahi l'uom passa quaggiú, di suo pianto

  Orma vi resta, tanto ei va leggieri,

  Leggeri più che uccel, che il vasto regno

  Solca dell'aria, vi lasci un segno.

 

  Forse tali i pensieri eran secreti

  Che di una tinta pallida l'aspetto

  Velavano di tal, che irrequieti

  Spirti mostrava, ed era un giovinetto,

  Che nel Convento un venia tra i queti

  Silenzi della chiesa, e in gran dispetto

  Guatava con le braccia incrociate

  Del coro delle monache alle grate.

 

  Alle grate fissava immoto il viso,

  (e quell'atto, e quel guardo era profano)

  Da dove trasparia qual fiordaliso

  Da bigio panno candida una mano.

  Ma amaro poscia gli spuntò un sorriso

  Sulla vetta del labro allorchè il piano

  Canto del coro udì, che a poco a poco

  Crescea ingombrando di mestizia il loco.

 

  Ira, sprezzo, dolor parve dappria

  Che il pietoso concento in lui destasse,

  Di poi piú attento a quella salmodia

  Fecesi, e tenne le pupille basse.

  Poi l'ira e ‘l duol sparì: sparì la ria

  Aria sua di disprezzo, e un sospir trasse,

  E, a farlo freddo e bianco e più che gelo,

  Un sublime pensier cadde dal cielo.

 

  Sicché subitamente genuflesso

  Poggiò sui marmi dell'altare il volto,

  E immoto restò nel loco stesso,

  Che parea delle preci il Genio scolto.

  Tacque il canto, ed ei surse; ed il perplesso

  Occhio per poco a riguardar rivolto

  Oltre le grate quella man, che vi era

  Congiunta all'altra in atto di preghiera

 

 

  A lento passo uscì, né più si vide,

  Così serpe novello, a cui superba

  La squama maculata in auro ride,

  E sibila di April tra i fiori e l'erba,

  Se villanella con l'occhio il conquide

  E con magico carme il disacerba,

  Pon giú l'orgoglio della rosea cresta,

  E umilemente a lei bacia la vesta.

 

  Maraviglia destò l'inaspettato

  Apparir dell'ignoto giovinetto

  Che partendo lasciò forse celato

  Un memore pensiero in qualche petto;

  Ma la Badessa, che l'avea notato

  Lungamente nel tempio, e dall'aspetto

  Di lui cosí turbato ed abattuto

  Di animo gran tempesta intraveduto,

 

  Facea precetto alle romite suore

  D'invocar sempre la celeste aïta,

  Che del mondo lo faccia vincitore,

  E riduca la pecora smarrita;

  E peró da quel quando al signore

  Insieme a supplicar l'ora le invita,

  Per quel giovine pur ciascuna prega

  Di quelle caste a cui Dio nulla nega.

 

  Di lui la sola Eugenia non sapea,

  Chè oltre ch'era a quel tempo assai bambina,

  La Badessa studiò torle ogni idea

  Di quanto è colpa, o a colpa si avvicina;

  Qual buon cultore che a salvar da rea

  Sorte una pianta rara e pellegrina

  Ne circonda di pruni il tenue stelo,

  E le fa schermo contro i venti, e 'l gelo.

 

  Ond'or che il canto tacque, e lentamente

  Furo dal coro l'altre suore uscite,

  La Badessa la mena immantinente

  Giù nella chiesa perchè a lei scolpite

  Restino meglio nella docil mente

  Le cose, che le avea ieri ammonite,

  E le mostri le vergini beate

  Che degli angeli furo innamorate.

 

  Maestosamente grande è quella chiesa,

  Ma la cupola altissima ed oscura

  Sopra sì deboli archi n'è sospesa,

  Che mista a religion mette paura

  Che non rovini dal suo pondo offesa

  Quella gotica, immane architettura,

  Che, nemica del bello, orror sublime,

  E terrori, e misteri ai templi imprime.

 

  Ordine lungo per gli opposti lati

  Discorre di cappelle ad archi acuti,

  Dei quali or vari nani inginocchiati,

  Ora satiri curvi e tutti irsuti,

  Sostengono tra loro avviticchiati,

  Come dal peso fossero abbattuti,

  I sottili pilastri, che vestiti

  Son di pampini, e torti a par di viti.

 

  Ornano le cornici e i capitelli

  Meandri, arabeschi, e serie mostruosa

  Di fere alate e di scolpiti augelli

  Su festoni diversi in selva ombrosa;

  Qui di un pesce le squame, ed ivi i velli

  D'un agno imita la pietra ingegnosa;

  l'aquila vi manca, incoronata

  Il doppio capo, che apre il rostro e guata.

 

  Uccelli e fere sopra i cornicioni

  Sembrano vivi e muoversi quai spetri,

  Quando sopra di lor dei finestroni

  Piove la luce per i pinti vetri,

  Luce, che quivi franta in più ragioni,

  Forma mille color, ma tutti tetri,

  Che rigando quell'aria chiusa e scura,

  Fan diletto e stupor misto a paura.

 

  All'entrar delle donne, rampicando

  Per la muscosa cupola s'invola

  Dalle bassi cornici singhiozzando

  L'upupa immonda, e poi nell'alto vola:

  Al frullo Eugenia leva il capo, e quando

  Sparir la vede dietro l'ampia stola

  D'un simulacro appeso contro il tetto,

  Sente per tema palpitare il petto;

 

  Che pauroso alla vista e minacciante

  Distaccarsi e piombar per l'aer vano,

  Mostra quel simulacro soprastante

  Un fiero veglio con un globo in mano:

  — Ecco il padre del mondo, ecco il sembiante,

  Con cui se 'l finge il corto ingegno umano,

  Ecco il Signore, la Badessa esclama,

  Che di lassù ci guarda, e a sé ci chiama.

 

  Alla sua voce oh quante verginelle

  Porgendo ascolto corser pronte e liete

  A sacrarsi di lui fedeli ancelle

  Di questo monaster nella quïete!

  Ve' come ne serbò l'immagin belle

  Dotto pennello quì sulla parete!

  Vien, vieni, e mira questa avventurosa,

  Che nel ricco splendor ride di sposa.

 

  Immota a piè dell'ara, e genuflessa

  D'ambe le braccia si fa croce al petto

  Che pei varii pensieri ond'ella è oppressa,

  Trema qual picciol rivo in picciol letto.

  Le sta ritta alle spalle la Badessa,

  E 'l volume del crin le tiene stretto,

  Del crine che a traverso delle dita

  Scappa in pioggia di ciocche, e l'aura invita,

 

  Vedi come la madre arde di zelo,

  (Fortunata! imitarla ah potessi io)

  E alla grand'opra invoca auspice il cielo

  Con occhio, ove si specchia il cielo e Dio.

  Miracolo gentil! tosto che il velo

  Delle chiome reciso al suol ne gìo,

  S'apre il ciel, n'esce un lume, ed improvviso

  Quella fanciulla va a ferir nel viso.

 

  E dietro al lume basso si devolve

  Gruppo di nubi, e lentamente l'are,

  In color mille aprendosi, ravvolve,

  Che non si vider mai cose più care:

  Un angel quì le tenere ali svolve,

  E la testina ricciutella appare;

  un secondo, un terzo a que' vicino

  Dietro le nubi, che fan capolino.

 

  Altri stanno più giuso, e questi effonde

  Dai turiboli d'oro olenti fiocchi

  D'incenso, il cui vapore lo nasconde,

  Mentre la verginella china gli occhi;

  Quegli per côr le tronche trecce bionde

  Di lei, si piega sì che il sen le tocchi

  Con quella zona di colore bianco,

  Onde intorno guernito ha l'agil fianco

 

  —Oh belli! Oh cari! Oh che gentil fierezza,

  Eugenia le risponde, hanno nel viso!

  Tagliami, o madre, il crine; ho anche io vaghezza

  Di goder tanta festa e tanto riso;

  Ad un patto però, che lor bellezza

  Non sia mentita, né dipinto e inciso

  Questo e quel volto, che tu mi descrivi;

  Gli angioli io voglio, ma li voglio vivi.—

 

  E a lei la madre: — Pria che Dio ci elegga

  Ad indossar di monacella il manto,

  È d'uopo che nel duol l'alma si segga,

  E si sollevi a lui molle di pianto;

  È d'uopo, o figlia, che di lui sol chiegga,

  Qual sitibonda cerva in ogni canto

  Per monti e valli cerca la fontana,

  Che le ferite sue rasciuga e sana.

 

  Ne vuoi un esempio? Questa Vergin mira,

  Che, vêr le membra sue dolce nemica,

  Presso la croce nuda si martira

  Tra pruno irsuto, e disdegnosa ortica;

  Mandan sangue le membra, e non sospira,

  Ma par che lieta ed umilmente dica:

  «O mio buon Dio, deh! cresci il mio tormento;

  Esso è poco, o mio Dio, quel che ora sento

 

  O fortunata! come si spalanca

  A ció l'eliso, e per corrente zona

  Di bianca luce, la colomba bianca,

  Ch'è della Trinità terza persona,

  Nuota fermando la rosata zanca

  Sulla croce, recando aurea corona

  A lei, che umìle in tanto inopinata

  Gloria agli occhi non crede, e guata e guata

 

  — Ma questo io non farei, madre, ned io,

  Ripiglia Eugenia a dir, chiaro discerno,

  Come possa piacere al sommo Dio

  Che io faccia del mio corpo aspro governo.

  Il fior che io posi e che per me si aprio,

  Se me lo strugge, ed appassisce il verno,

  Ne gemo, ed Ei potrà goder che io sia

  Contro me stesso dispiatata e ria?

 

  E la Badessa a lei: Dio benedetto

  Volle soffrir, ricuseremo nui?

  Ah! non sempre un benefico Angioletto

  Ispira i miei pensieri, ispira i tui;

  Ma l'angel nero, l'angel maledetto

  Si studia di tirarne ai regni bui,

  Mostro, cui di domare han soli il vanto

  Il cilizio, il digiun, la prece, e 'l pianto.

 

  Vedilo! come notte oscura ei sorge

  A tergo della vergine, e sogghigna;

  Ma dei suoi scorni tostochè si accorge

  I lerci denti per doler digrigna.

  Un secondo demonio ecco che sporge

  Con pupilla di vipera maligna

  Dalle spalle del primo e lento lento

  Su tra le corna gli sospinge il mento.

 

  Poi vedi colassú quella gran gente?

  Uomini e donne son con facce meste,

  Dipinte attorno di quel sedente,

  Che fuoco ha in viso, e fuoco nella veste.

  Esso è l'Eterno in tribunal: presente

  Gli sta, ministro del furor celeste,

  Michel, che regge in vista ancora altera

  Per le prische vittorie una stadera.

 

  Ivi l'anime libra, e quinci mette

  Di nostra vita l'opere passate,

  Quindi di Dio le tacite vendette

  La matura giustizia e la pietate;

  Il Demonio sta sotto e 'l punto aspette;

  D'ingannar le bilance equilibrate,

  Ma cauto, chè del ferro ancora tinto,

  Nel suo sangue quell'angelo sta cinto.

 

  A quella vista impallidîr le rose

  In viso alla fanciulla, e gli occhi chiuse;

  Poi dopo un tratto aperseli e rispose:

  —Qual terror quell'aspetto in me diffuse!

  Pur le mie voglie a te non tengo ascose,

  E se di udirmi avvien che non ricuse,

  Dirò....ma temo — E che? parla, suvvia,

  L'altra le rispondea, figliuola mia!—

 

  — Ti diró dunque, Eugenia soggiungea,

  Di vedere il Demonio ho un gran desio,

  Perchè, madre, perchè tengo l'idea

  Di farlo buono, e convertirlo a Dio,

  E dirgli: Donde avvien che hai così rea

  Volontà contro noi, Demonio mio?

  Perché a nuocerci intento ognor ti mostri

  E giú a tirarne nei tuoi neri chiostri?—

 

  — Un impossibil pensi; i propri affanni

  Lo rendono crudel, l'altra risponde

  E quella: — Ei dunque soffre? e da quanti anni?

  — Quante stelle hanno i cieli, e i boschi fronde

  — Madre, Eugenia esclamò, se non m'inganni,

  Se questo è vero, egli pietà m'infonde:

  Dunque sì a lungo nel suo miser stato

  Durò, ancora Dio gli ha perdonato?

 

  Io gli avrei perdonato, io gli avrei detto:

  Ti voglio render buono; ecco sii buono. —

  —Folle! l'altra ripiglia, il maledetto

  Perché non volle, non ottien perdono;

  E non lo vuol, perchè nel fiero petto

  Pentimento non gli entra, e contro il trono

  D'Iddio bestemmia. Ma non più di questo;

  A subbietto passiam meno funesto.

 

  Vedi quella fanciulla? a te somiglia,

  La benedetta, al piccolino mento,

  Alla bocca, alla gota, ove vermiglia

  Lussureggia la rosa, al portamento.

  Ella è colei, che or or con maraviglia

  Vedesti a sostener duro tormento

  Tra le spine, e l'ortiche, e che or beata

  È nei divini talami chiamata.

 

  Su quel monte di nuvole nevose,

  Onde la luna pallida traspare,

  Ecco Maria tra i gigli e tra le rose

  Delle sue mamme il pargolo allattare;

  Mira la Vergin poi con timorose

  Sembianze leggerissima montare

  Da nube a nube, e di Maria sul seno

  Il viso riposar dolce e sereno.

 

  Fortunata! Non vedi il bambinello,

  Che, volta a lei la tenera manina

  Tuttora impressa dal furor ribello

  Del dissipato Ebreo, ver lei si china,

  E mentre della sua le fa suggello

  Sulla bocca, che al bacio si arrubina,

  Ella al piacer, che sente si trasforma,

  Chiude gli occhi soavi, e par che dorma.

 

  Or mira quel drappello verginale

  Dell'iride ravvolto nel zaffiro,

  Che, mentre al ciel per rotte nubi sale,

  Si volge e manda un memore sospiro

  Al mare, ai monti, ed al terren natale,

  Di cui sempre si fa più breve il giro:

  Volano, e all'ombra loro in giù cadente

  Latra il cane fedel dogliosamente.

 

  Dalla punta di nuvola rosata

  Sfolgorante in sua possa il sol si affaccia,

  E mentre le volanti, e la vietata

  Ad umano ardimento eterna traccia

  Mira stupito, che l'allungata

  Manina una fanciulla al crin gli caccia,

  E sorridente, amabile, e sicura

  Di rai tremanti un fasciolin gli fura.

 

  Così voi pure, (e stando appo una croce

  Fitta sopra una grande sepoltura,

  La Badessa seguìa con flebil voce,

  E profetica aveva la figura),

  Così voi pure con ala veloce

  Da questa, che vi serra, umida, oscura

  Tomba uscirete, salendo alle stelle,

  O mie amiche, o mie figlie, o mie sorelle

 

  E, voltasi ad Eugenia: In questa fossa,

  Fanciulla cara, soggiungeva, anch'io

  Verrò a lasciare le mie pover'ossa,

  Ned allora di me ti prenda oblio;

  Ma a quando a quando da pietà commossa

  Imitare potrai l'esempio mio —

  E dicendo così l'augusta donna

  Avvicinossi ad un'alta colonna.

 

  Era quella di marmo, e in marmo espresso

  Cerbio ne uscia, che un'urna ove, intagliata

  La mortella intrecciavasi al cipresso,

  Reggea sopra la testa inarborata:

  Colei la mano, quando le fu presso,

  V'intinge e la lustrale acqua versata

  Sulla funebre pietra, entrambe piega

  Giù le ginocchia, asconde il volto e prega.

 

  Poi dopo un tratto alzossi e, carezzando

  La fanciulla, le chiede:— Hai tutto visto?

  Adunque da virtú a virtù montando

  Pensa che esser dovrai sposa di Cristo:

  Ora ritorna alla tua cella. E quando

  Colei si fu partita, in viso un misto

  Le apparve di letizia, e di dolore,

  E gli occhi ergendo al ciel, gridò: Signore,

 

  Signore, un giuro io per costei già feci,

  Che piú fassi ogni giorno arduo adempire,

  Io la consegno a te, fa tu mie veci,

  O falla cosí tenera morire;

  Pria che di la colpa e il cor le impeci,

  Pria che un pensier la macchi, muoia o spire

  E quì tacendo, ed abbassando il guardo,

  Nell'orto s'introdusse a passo tardo.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License