—
Canto 3. —
Chi a quel concerto vario ed infinito,
Che fanno uccelli, e rivi, aure e foreste,
Quando nascendo il dì, par che vestito
Di beltá nuova il mondo si ridesta,
Il canto mescolarsi avesse udito
Delle suore e le preci alterne e meste,
Le cure di quaggiù poste in oblio,
Creduto avria, se non credeva, in Dio;
E provato la gioia, onde l'immondo
Secolo i figli suoi viver fa ignari,
La gioia, che rampolla dal profondo
Di pensier tristi in cuori solitari;
Sparir d'innanzi si avria visto il mondo
Qual granello di sabbia in seno ai mari
Dell'infinito, e stargli a faccia a faccia
L'Eternitade con aperte braccia,
Tutto l'orror mettendogli d'avanti
Dell'oscuro sepolcro, ed i misteri,
Ed i terrori dell'estremo istante,
E del feretro i gelidi origlieri....
Ahi l'uom passa quaggiú, nè di suo pianto
Orma vi resta, tanto ei va leggieri,
Leggeri più che uccel, che il vasto regno
Solca dell'aria, nè vi lasci un segno.
Forse tali i pensieri eran secreti
Che di una tinta pallida l'aspetto
Velavano di tal, che irrequieti
Spirti mostrava, ed era un giovinetto,
Che nel Convento un dì venia tra i queti
Silenzi della chiesa, e in gran dispetto
Guatava con le braccia incrociate
Del coro delle monache alle grate.
Alle grate fissava immoto il viso,
(e quell'atto, e quel guardo era profano)
Da dove trasparia qual fiordaliso
Da bigio panno candida una mano.
Ma amaro poscia gli spuntò un sorriso
Sulla vetta del labro allorchè il piano
Canto del coro udì, che a poco a poco
Crescea ingombrando di mestizia il loco.
Ira, sprezzo, dolor parve dappria
Che il pietoso concento in lui destasse,
Di poi piú attento a quella salmodia
Fecesi, e tenne le pupille basse.
Poi l'ira e ‘l duol sparì: sparì la ria
Aria sua di disprezzo, e un sospir trasse,
E, a farlo freddo e bianco e più che gelo,
Un sublime pensier cadde dal cielo.
Sicché subitamente genuflesso
Poggiò sui marmi dell'altare il volto,
E sí immoto restò nel loco stesso,
Che parea delle preci il Genio scolto.
Tacque il canto, ed ei surse; ed il perplesso
Occhio per poco a riguardar rivolto
Oltre le grate quella man, che vi era
Congiunta all'altra in atto di preghiera
A lento passo uscì, né più si vide,
Così serpe novello, a cui superba
La squama maculata in auro ride,
E sibila di April tra i fiori e l'erba,
Se villanella con l'occhio il conquide
E con magico carme il disacerba,
Pon giú l'orgoglio della rosea cresta,
E umilemente a lei bacia la vesta.
Maraviglia destò l'inaspettato
Apparir dell'ignoto giovinetto
Che partendo lasciò forse celato
Un memore pensiero in qualche petto;
Ma la Badessa, che l'avea notato
Lungamente nel tempio, e dall'aspetto
Di lui cosí turbato ed abattuto
Di animo gran tempesta intraveduto,
Facea precetto alle romite suore
D'invocar sempre la celeste aïta,
Che del mondo lo faccia vincitore,
E riduca la pecora smarrita;
E peró da quel dì quando al signore
Insieme a supplicar l'ora le invita,
Per quel giovine pur ciascuna prega
Di quelle caste a cui Dio nulla nega.
Di lui la sola Eugenia non sapea,
Chè oltre ch'era a quel tempo assai bambina,
La Badessa studiò torle ogni idea
Di quanto è colpa, o a colpa si avvicina;
Qual buon cultore che a salvar da rea
Sorte una pianta rara e pellegrina
Ne circonda di pruni il tenue stelo,
E le fa schermo contro i venti, e 'l gelo.
Ond'or che il canto tacque, e lentamente
Furo dal coro l'altre suore uscite,
La Badessa la mena immantinente
Giù nella chiesa perchè a lei scolpite
Restino meglio nella docil mente
Le cose, che le avea ieri ammonite,
E le mostri le vergini beate
Che degli angeli furo innamorate.
Maestosamente grande è quella chiesa,
Ma la cupola altissima ed oscura
Sopra sì deboli archi n'è sospesa,
Che mista a religion mette paura
Che non rovini dal suo pondo offesa
Quella gotica, immane architettura,
Che, nemica del bello, orror sublime,
E terrori, e misteri ai templi imprime.
Ordine lungo per gli opposti lati
Discorre di cappelle ad archi acuti,
Dei quali or vari nani inginocchiati,
Ora satiri curvi e tutti irsuti,
Sostengono tra loro avviticchiati,
Come dal peso fossero abbattuti,
I sottili pilastri, che vestiti
Son di pampini, e torti a par di viti.
Ornano le cornici e i capitelli
Meandri, arabeschi, e serie mostruosa
Di fere alate e di scolpiti augelli
Su festoni diversi in selva ombrosa;
Qui di un pesce le squame, ed ivi i velli
D'un agno imita la pietra ingegnosa;
Nè l'aquila vi manca, incoronata
Il doppio capo, che apre il rostro e guata.
Uccelli e fere sopra i cornicioni
Sembrano vivi e muoversi quai spetri,
Quando sopra di lor dei finestroni
Piove la luce per i pinti vetri,
Luce, che quivi franta in più ragioni,
Forma mille color, ma tutti tetri,
Che rigando quell'aria chiusa e scura,
Fan diletto e stupor misto a paura.
All'entrar delle donne, rampicando
Per la muscosa cupola s'invola
Dalle bassi cornici singhiozzando
L'upupa immonda, e poi nell'alto vola:
Al frullo Eugenia leva il capo, e quando
Sparir la vede dietro l'ampia stola
D'un
simulacro appeso contro il tetto,
Sente per tema palpitare il petto;
Che pauroso alla vista e minacciante
Distaccarsi e piombar per l'aer vano,
Mostra quel simulacro soprastante
Un fiero veglio con un globo in mano:
— Ecco il padre del mondo, ecco il sembiante,
Con cui se 'l finge il corto ingegno umano,
Ecco il Signore, la Badessa esclama,
Che di lassù ci guarda, e a sé ci chiama.
Alla sua voce oh quante verginelle
Porgendo ascolto corser pronte e liete
A sacrarsi di lui fedeli ancelle
Di questo monaster nella quïete!
Ve' come ne serbò l'immagin belle
Dotto pennello quì sulla parete!
Vien, vieni, e mira questa avventurosa,
Che nel ricco splendor ride di sposa.
Immota a piè dell'ara, e genuflessa
D'ambe le braccia si fa croce al petto
Che pei varii pensieri ond'ella è oppressa,
Trema qual picciol rivo in picciol letto.
Le sta ritta alle spalle la Badessa,
E 'l volume del crin le tiene stretto,
Del crine che a traverso delle dita
Scappa in pioggia di ciocche, e l'aura
invita,
Vedi come la madre arde di zelo,
(Fortunata! imitarla ah potessi io)
E alla grand'opra invoca auspice il cielo
Con occhio, ove si specchia il cielo e Dio.
Miracolo gentil! tosto che il velo
Delle chiome reciso al suol ne gìo,
S'apre il ciel, n'esce un lume, ed improvviso
Quella fanciulla va a ferir nel viso.
E dietro al lume basso si devolve
Gruppo di nubi, e lentamente l'are,
In color mille aprendosi, ravvolve,
Che non si vider mai cose più care:
Un angel quì le tenere ali svolve,
E la testina ricciutella appare;
Là un secondo, là un terzo a que' vicino
Dietro le nubi, che fan capolino.
Altri stanno più giuso, e questi effonde
Dai turiboli d'oro olenti fiocchi
D'incenso, il cui vapore lo nasconde,
Mentre la verginella china gli occhi;
Quegli per côr le tronche trecce bionde
Di lei, si piega sì che il sen le tocchi
Con quella zona di colore bianco,
Onde intorno guernito ha l'agil fianco
—Oh belli! Oh cari! Oh che gentil fierezza,
Eugenia le risponde, hanno nel viso!
Tagliami, o madre, il crine; ho anche io
vaghezza
Di goder tanta festa e tanto riso;
Ad un patto però, che lor bellezza
Non sia mentita, né dipinto e inciso
Questo e quel volto, che tu mi descrivi;
Gli angioli io voglio, ma li voglio vivi.—
E a lei la madre: — Pria che Dio ci elegga
Ad indossar di monacella il manto,
È d'uopo che nel duol l'alma si segga,
E si sollevi a lui molle di pianto;
È d'uopo, o figlia, che di lui sol chiegga,
Qual sitibonda cerva in ogni canto
Per monti e valli cerca la fontana,
Che le ferite sue rasciuga e sana.
Ne vuoi un esempio? Questa Vergin mira,
Che, vêr le membra sue dolce nemica,
Presso la croce nuda si martira
Tra pruno irsuto, e disdegnosa ortica;
Mandan sangue le membra, e non sospira,
Ma par che lieta ed umilmente dica:
«O mio buon Dio, deh! cresci il mio tormento;
Esso è poco, o mio Dio, quel che ora sento.»
O fortunata! come si spalanca
A ció l'eliso, e per corrente zona
Di bianca luce, la colomba bianca,
Ch'è della Trinità terza persona,
Nuota fermando la rosata zanca
Sulla croce, recando aurea corona
A lei, che umìle in tanto inopinata
Gloria agli occhi non crede, e guata e guata
—
— Ma questo io non farei, madre, ned io,
Ripiglia Eugenia a dir, chiaro discerno,
Come possa piacere al sommo Dio
Che io faccia del mio corpo aspro governo.
Il fior che io posi e che per me si aprio,
Se me lo strugge, ed appassisce il verno,
Ne gemo, ed Ei potrà goder che io sia
Contro me stesso dispiatata e ria?
E la Badessa a lei: Dio benedetto
Volle soffrir, ricuseremo nui?
Ah! non sempre un benefico Angioletto
Ispira i miei pensieri, ispira i tui;
Ma l'angel nero, l'angel maledetto
Si studia di tirarne ai regni bui,
Mostro, cui di domare han soli il vanto
Il cilizio, il digiun, la prece, e 'l pianto.
Vedilo! come notte oscura ei sorge
A tergo della vergine, e sogghigna;
Ma dei suoi scorni tostochè si accorge
I lerci denti per doler digrigna.
Un secondo demonio ecco che sporge
Con pupilla di vipera maligna
Dalle spalle del primo e lento lento
Su tra le corna gli sospinge il mento.
Poi vedi colassú quella gran gente?
Uomini e donne son con facce meste,
Dipinte attorno lá di quel sedente,
Che fuoco ha in viso, e fuoco nella veste.
Esso è l'Eterno in tribunal: presente
Gli sta, ministro del furor celeste,
Michel, che regge in vista ancora altera
Per le prische vittorie una stadera.
Ivi l'anime libra, e quinci mette
Di nostra vita l'opere passate,
Quindi di Dio le tacite vendette
La matura giustizia e la pietate;
Il Demonio sta sotto e 'l punto aspette;
D'ingannar le bilance equilibrate,
Ma cauto, chè del ferro ancora tinto,
Nel suo sangue quell'angelo sta cinto.
A quella vista impallidîr le rose
In viso alla fanciulla, e gli occhi chiuse;
Poi dopo un tratto aperseli e rispose:
—Qual terror quell'aspetto in me diffuse!
Pur le mie voglie a te non tengo ascose,
E se di udirmi avvien che non ricuse,
Dirò....ma temo — E che? parla, suvvia,
L'altra le rispondea, figliuola mia!—
— Ti diró dunque, Eugenia soggiungea,
Di vedere il Demonio ho un gran desio,
Perchè, madre, perchè tengo l'idea
Di farlo buono, e convertirlo a Dio,
E dirgli: Donde avvien che hai così rea
Volontà contro noi, Demonio mio?
Perché a nuocerci intento ognor ti mostri
E giú a tirarne nei tuoi neri chiostri?—
— Un impossibil pensi; i propri affanni
Lo rendono crudel, l'altra risponde —
E quella: — Ei dunque soffre? e da quanti
anni?
— Quante stelle hanno i cieli, e i boschi
fronde —
— Madre, Eugenia esclamò, se non m'inganni,
Se questo è vero, egli pietà m'infonde:
Dunque sì a lungo nel suo miser stato
Durò, nè ancora Dio gli ha perdonato?
Io gli avrei perdonato, io gli avrei detto:
Ti voglio render buono; ecco sii buono. —
—Folle! l'altra ripiglia, il maledetto
Perché non volle, non ottien perdono;
E non lo vuol, perchè nel fiero petto
Pentimento non gli entra, e contro il trono
D'Iddio bestemmia. Ma non più di questo;
A subbietto passiam meno funesto.
Vedi quella fanciulla? a te somiglia,
La benedetta, al piccolino mento,
Alla bocca, alla gota, ove vermiglia
Lussureggia la rosa, al portamento.
Ella è colei, che or or con maraviglia
Vedesti a sostener duro tormento
Tra le spine, e l'ortiche, e che or beata
È nei divini talami chiamata.
Su quel monte di nuvole nevose,
Onde la luna pallida traspare,
Ecco Maria tra i gigli e tra le rose
Delle sue mamme il pargolo allattare;
Mira la Vergin poi con timorose
Sembianze leggerissima montare
Da nube a nube, e di Maria sul seno
Il viso riposar dolce e sereno.
Fortunata! Non vedi il bambinello,
Che, volta a lei la tenera manina
Tuttora impressa dal furor ribello
Del dissipato Ebreo, ver lei si china,
E mentre della sua le fa suggello
Sulla bocca, che al bacio si arrubina,
Ella al piacer, che sente si trasforma,
Chiude gli occhi soavi, e par che dorma.
Or mira quel drappello verginale
Dell'iride ravvolto nel zaffiro,
Che, mentre al ciel per rotte nubi sale,
Si volge e manda un memore sospiro
Al mare, ai monti, ed al terren natale,
Di cui sempre si fa più breve il giro:
Volano, e all'ombra loro in giù cadente
Latra il cane fedel dogliosamente.
Dalla punta di nuvola rosata
Sfolgorante in sua possa il sol si affaccia,
E mentre le volanti, e la vietata
Ad umano ardimento eterna traccia
Mira stupito, vé che l'allungata
Manina una fanciulla al crin gli caccia,
E sorridente, amabile, e sicura
Di rai tremanti un fasciolin gli fura.
Così voi pure, (e stando appo una croce
Fitta sopra una grande sepoltura,
La Badessa seguìa con flebil voce,
E profetica aveva la figura),
Così voi pure con ala veloce
Da questa, che vi serra, umida, oscura
Tomba uscirete, salendo alle stelle,
O mie amiche, o mie figlie, o mie sorelle —
E, voltasi ad Eugenia: In questa fossa,
Fanciulla cara, soggiungeva, anch'io
Verrò a lasciare le mie pover'ossa,
Ned allora di me ti prenda oblio;
Ma a quando a quando da pietà commossa
Imitare potrai l'esempio mio —
E dicendo così l'augusta donna
Avvicinossi ad un'alta colonna.
Era quella di marmo, e in marmo espresso
Cerbio ne uscia, che un'urna ove, intagliata
La mortella intrecciavasi al cipresso,
Reggea sopra la testa inarborata:
Colei la mano, quando le fu presso,
V'intinge e la lustrale acqua versata
Sulla funebre pietra, entrambe piega
Giù le ginocchia, asconde il volto e prega.
Poi dopo un tratto alzossi e, carezzando
La fanciulla, le chiede:— Hai tutto visto?
Adunque da virtú a virtù montando
Pensa che esser dovrai sposa di Cristo:
Ora ritorna alla tua cella. E quando
Colei si fu partita, in viso un misto
Le apparve di letizia, e di dolore,
E gli occhi ergendo al ciel, gridò: Signore,
Signore, un giuro io per costei già feci,
Che piú fassi ogni giorno arduo adempire,
Io la consegno a te, fa tu mie veci,
O falla cosí tenera morire;
Pria che di sè la colpa e il cor le impeci,
Pria che un pensier la macchi, muoia o spire—
E quì tacendo, ed abbassando il guardo,
Nell'orto s'introdusse a passo tardo.
|