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Vincenzo Padula
Il Monastero di Sambucina

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  • — Canto 4. —
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Canto 4. —

 

  Intanto all'ombra di castagno antico,

  Piantato del ruscello in sulla sponda,

  Stava Teresa, ed un fringuello amico

  Contemplava di tra fronda e fronda.

  Non l'alletta il mattin, non l'orto aprico,

  Né il canto dell'uccello, o il suon dell'onda;

  Chiusa in un bianco velo, ella é seduta,

  Inoperosa no, ma mesta e muta:

 

  E mentre con le dita agili intesse

  Gentil opra, onde calzi il breve piede,

  Solleva a quando a quando le dimesse

  Ciglia al castagno sotto cui si siede,

  Vede le cime di aurei ricci oppresse;

  Vede qual riccio mai fendesi e cede,

  Rotto dal frutto che di uscir si sforza

  Dalla gelosa sua materna scorza.

 

  Ed i frutti caduti abbica e coglie,

  Quando con più vigor l'aura spirante,

  Soffiando dentro le frementi foglie,

  Giù li rovescia in pioggia risonante.

  Quì vista la Badessa, Ella si toglie

  Da seder rispettosa in un istante;

  Inchinarsi vorria, ma l'altra nega

  E a risedersi accanto a sé la prega.

 

  E le mani pigliandole esordio

  A dir con voce di pietà e d'amore:

  — Odi, o Teresa, losco è il guardo mio,

  Losco per gli anni, e non ha più vigore;

  Pur nel cor ti penètra! Ah! tutto pio

  Non é il pensier, che ti abita nel core.

  Sei troppo solitaria e mesta assai,

  Pallida, e spesso in pianto ti trovai. —

 

  E Teresa risponde: — O madre, è vero;

  Ma solitaria io sono per natura.

  Albero poi, che dal tronco primiero

  Presso ad un altro perde la verdura;

  E poi dei propri falli a chi il pensiero

  Le lacrime non spreme, e il riso fura? —

  Ma l'altra, il capo crollando, le prese

  Dentro le sue la mano, e a dir riprese:

 

  —Vedi questo castagno? All'ombra ei stava

  Di castagni più grandi ora caduti;

  Tenero si, che ogni aura ne crollava

  I tenui rami, e i pochi cardi irsuti,

  Quando io di gioventù tutta brillava,

  E mi chiudeva in questi luoghi muti.

  Ora entrambi siam vecchi, e siam gravati,

  Egli di ricci e fronde, io di peccati.

 

  Quante volte, o Teresa, mi vedesti,

  Sedendo io qui, mentre scotealo il vento

  Trasalire e chinar giù gli occhi mesti

  Delle sue fronde al minimo lamento,

  E tu nulla, o figliuola, ne intendesti:

  Ma egli vide, egli sa tutto il tormento

  Della mia giovinezza, onde io temea

  Che ogni sua voce mi gridasse rea.

 

  Vano timore; ma verrà pur die,

  Che, impetrata favella, in altro suono

  Tutte rivelerà le mie follie

  Al tempo estremo innanzi al divin trono;

  E voglia Dio, che per le sole mie

  Colpe io gli debba allor chieder perdono;

  Ma ahi! che conto mi sia, se dimandato

  Del tesor di tua alma a me fidato.

 

  Ben io so, figlia, quanto pesi in petto

  Cuor, che palpiti sol col suo pensiero;

  Aprilo dunque a me, parla, e sia schietto

  L'animo e il labbro! Onde è l'umor tuo nero?

  Pietosa eco risponde al ruscelletto,

  Che geme tra alti massi prigioniero;

  Masso è pure il cor, se ben lo miri,

  Ma vi trovano un'eco i tuoi sospiri

 

  Tacque; e Teresa, che le porge ascolto

  Tutta quanta tremante ed arrossita,

  Le mani a ritrasse, che raccolto

  Le avea dentro le sue quella romita;

  E tra di esse nascondendo il volto:

   — O madre, esclama, a che narrar mia vita?

  Forse il consiglio tuo, forse una stilla

  Di tua pietade mi faran tranquilla?

 

  Stetti sovente per aprirti il core

  Quando tutto scoppiare io mel sentia,

  Sebbene in conversar col mio dolore

  Fosse riposta ogni delizia mia;

  Ma quì dove aura di celeste amore

  Queste piante consacra e questa via,

  Amor di pure verginelle, io rea

  I miei deliri raccontar potea?

 

  É la decima chioma, onde si veste

  Questo castagno da quel fatale,

  Che io recisi le mie dando alle feste

  E ai piaceri del mondo un tristo vale.

  Eppur la pace, che io speravo in queste

  Sedi, ancor non ritrovo, e 'l duro strale

  Di amor, che qui portai nel fianco afflitto

  Vi dura ancora, e ancor vi sta confitto.

 

  Vedi questo ruscel? Deh! come l'onde

  Ne sono terse e come in vario errore

  L'ombra degli arboscei vi si confonde

  All'immago di questo e quel fiore!

  Ebbene, o madre mia, così gioconde

  A ventun anno mi correvan l'ore,

  E il dolce mormorar di quieto rio

  Io lo sentia qui in petto entro il cor mio.

 

  Io camminava leggera, leggera

  In un'onda di luce, e di concento;

  Quando, o me lassa! un giovin vidi che era

  Simile nell'ardito portamento

  Al mandorlo, che chiama Primavera

  Con gli splendidi sui fiori d'argento,

  Qual'uva acerba e bianca che s'imbruna,

  Gentilmente gli ardea la gota bruna.

 

  Esciva da collegio e bello il fea

  Fama d'ingegno, e un pronto in lui diffuso

  Verginale rossor, con cui parea

  Di sua novella libertà confuso.

  E poi che nostre case congiungea

  Di atti cortesi e di amistà lung'uso

  Ei fu da noi, né scorderó quel die,

  Prima sorgente delle pene mie!

 

  Giaceva inferma la mia madre a letto,

  Ed appo il letto in questa parte e in quella

  Sedevamo piú donne, a vario oggetto

  Dispensando il lavoro e la favella,

  Quando egli apparve, ma non già soletto

  Ch'una menó con minor sorella,

  Che essendo arguta, semplice e pudica

  Una suora in me avea più che un'amica.

 

  Misero questa a fianco ed io con lei

  Mintrattenevo assai piacevolmente

  Senza che al riso altrui, senza che ai bei

  Lieti motti di lui ponessi mente.

  Pure, benché bassassi gli occhi miei,

  Venir sentiami i suoi su dolcemente.

  Sollevandoli alfine, i suoi scontrai,

  Ambi arrossimmo, piú li chinai.

 

  «Giovin! (la madre mia diceva ad esso,)

  Sempre amistà le nostre case ha unito;

  Quanto amor con tua madre! Al tempo stesso

  Giurato ci avevam di tor marito;

  Ma a toglierlo io fui prima ed ella appresso:

  Giá da poco il terz'anno avea fornito

  Teresa, quando il tuo natale avvenne;

  E se in fallo non do, sei diciottenne».

 

  Egli affermava. Ed ella: «Io mi rammento,

  Quando la madre tua tenero infante

  Qui ti portava, che eri assai violento,

  E incapace a star fermo un solo istante.

  Di mia figliuola balbettavi a stento

  Il nome, e non di meno eri incessante

  A molestarla, e per tenerti in freno

  Concederti dovea tre baci almeno ».

 

  Tremo in mezzo a quel crocchio; il viso abbasso,

  E il varco per uscir cerco piú corto;

  Ne riser tutti, ed ahi! confuso il passo

  Per quel riso e parlar timido io porto;

  Ma accosto a lui, senza volerlo, io passo;

  Con le vesti lo tocco, onde egli accorto

  Ver me piegossi piano piano a dire:

  «Oh! fanciullo un sol giorno e poi morire! »

 

  Da questi accenti a sdegno io fui commossa:

  Disprezzarlo, odïarlo io mi credea,

  E giunta a stanza, a mio dispetto rossa

  Nello specchio la faccia io mi vedea;

  Ma dolce l'ira, dolce l'odio, e scossa,

  Ricompariami ognor di lui l'idea,

  E mal mio grado mi trovai roventi

  Sul labro inconscio quegli stessi accenti.

 

  Il giorno dopo, mentre in chiesa io mi era

  A udir la messa, alzando a caso il viso,

  Che io della sedia dietro alla spalliera

  Celavo, tra la folla ecco il ravviso.

  Oh! quale della sua pupilla nera

  Lampo su me cadeva all'improvviso!

  Ad ogni sguardo, con cui mi feria,

  Parea dicesse: Tu devi esser mia.

 

  Non mi perdonerà, no madre, mai

  Dio quella messa! alle devote carte

  Ben io figgea, per non vederlo, i rai,

  Ben tentava il pensier porne da parte;

  Ma ritto tra me e Dio sempre il mirai.

  Sul libro, sugli altari, in ogni parte,

  Posavo il labbro tuttavia; ma il core,

  Il core era con lui, non col Signore!

 

  Di più il restarmi a chiesa impaziente

  N'esco giurando di non più mirarlo.

  Inutil giuro! vidi incontanente,

  Sola che fui, di non poter serbarlo.

  Come chi accieca in sul principio sente

  La luce a poco a poco abbandonarlo

  E sé restare alfin solo e smarrito

  In deserto di tenebre infinito,

 

  Tal io m'intesi, come ratto priva

  D'un oggetto, d'un ben che anco ignorava:

  Torno alle prime cure, onde gioiva,

  Cercando in esse ciò che mi mancava...

  Non altrimenti, o madre io mi sentiva

  Stanco il corpo cosi, la mente ignava,

  Finchè intesi il bisogno, e a che negarlo?

  Di vederlo per sempre e sempre amarlo.

 

  Fatto un tale pensiero, un soletta

  Alla sua casa mi condussi al fine:

  A fare di ricamo opra perfetta

  Stavan le sue sorelle intente e chine.

  Erano quattro, e tutte attorno in fretta

  Mi fur con baci e amplessi senza fine,

  Con liete grida e tenere parole

  Come tra le fanciulle usar si suole.

 

  E già perché io fossi, obbliavo affatto

  Tra quell'allegro verginal drappello,

  Allorchè la mia amica uscendo a un tratto

  Tornò seco menando il suo fratello.

  O ingenua! tu stimavi il mio cor fatto

  Come il casto tuo cor che tiene quello

  Che Dio ripone tra germani e suore!

  Possibil non credevi un altro amore

 

  Entrò ridendo: aveva il crin negletto

  Che per gli omeri a lui si ribocava;

  Serico velo di color violetto

  La nuda e tonda gola gli annodava;

  Ad ora ad or per poco il largo petto

  Sotto camicia bianca si mostrava:

  Libero nel domestico vestire

  Mel vidi più che pria bello apparire.

 

  O madre, a quell'incontro ambi stupire,

  Ambi alzare, e chinar gli occhi improvviso,

  Ambi voler parlare, e non ardire.

  Ed in molle color cangiare il viso:

  Ci vider le sorelle in quel martire,

  E ignorando di amor sciolsero il riso,

  Finché a frenarlo alzossi una di loro:

  —Facciam, dicendo, a guancialino di oro

 

  E appressandosi a me piacevolmente,

  Soggiungeva, pigliandomi le braccia:

  «Che ti avvenne, o Teresa? or di repente

  Sei fatta mesta? or via leva la faccia.

  Tu certo ignori come lietamente

  Scherzar sappia il fratello, ove gli piaccia.

  Ei ti ama quanto me, Teresa mia

  Ieri ei stesso il diceva, ed io l'udia ».

 

  Poi ripiglió dopo un sorrider schietto;

  «Or mi ascolta, fratel, ché tu dovrai

  Tener, quivi seduto, il guancialetto;

  Esser mastro nel giuoco, e tu lo sai;

  Ma, venendo o Teresa, abbi intelletto,

  Coprile bene, che non veggia, i rai

  Se dopo il gioco non sarete voi

  Amici, affè! l'avrete a far con noi.

 

  Tu l'immagina, o Madre, allor qual core

  Battesse in me! pensai che ogni rifiuto

  Svelar poteva il mio segreto umore,

  E insospettir le suore avria potuto;

  Pensai che in quel trastullo il nostro ardore

  Saria forse amistade addivenuto,

  E che sovente chi il periglio sprezza,

  Suole in esso trovar la sua salvezza.

 

  Accetto dunque il gioco, ed or men resta

  Una indistinta dolce rimembranza;

  Ma quando odo chiamarmi, a lui la testa

  Posar dovetti in sen, come é l'usanza,

  Un'aura ardente ivi spirai, che presta

  Scorrea con indicibil dilettanza;

  Io genuflessa in grembo gli posai

  In atto di chi adora, e l'adorai.

 

  Lassa! io sentia delle sue man che agli occhi

  Intrecciate mi fean soave freno,

  Arder le vene e con frequenti scocchi

  Riversar nelle mie fuoco e veleno,

  E il tremito egli udia dei miei ginocchi

  E il faticoso anelito del seno,

  Mentre io rapita in estasi una fronda

  Era, che corre alla balia di un'onda.

 

  E fu che quell'ingenua a un tratto uscendo,

  Tornó recando un mazzolin di viole,

  E questo alzando in alto, ed offerendo

  Di tutte agli occhi: Orsú, dicea, chi vuole?

  Stende ognuna la destra — Io, rispondendo:

  Quella finge donarlo e poi disvuole.

  «Dite ad un tempo (e a un tempo noi): Voglio io;

  Ma ella si ride del comun desio

 

  Di poi soggiunse: orsú, facciam il conto

  E a cui fa tocco accordasi potere

  Senza che se la rechi altri ad affronto,

  Dare un bacio e il mazzetto a suo piacere.

  Ahimè! le dita rizzan tutte, e conto

  Quando fu ciascun dito, ecco accadere,

  Dolce fortuna per me insieme e rìa,

  Venne su lui la sorte, o madre mia.

 

  Venne, o Madre, su lui la fatal sorte,

  Che immantinente il veggio impallidire

  Pingersi il viso di color di morte,

  Poi le sue labbra alle mie labbra unire,

  Ed abracciarmi, e baciarmiforte

  Che di dolcezza m'intesi morire.

  Parve la terra sotto i piè fuggirmi

  Ed io in un altro mondo rinvenirmi.

 

  Come allorché di autunno il ciel sereno

  Si apre improvviso, dietro lasciando

  Succedente fragor, rompe il baleno,

  Viene il respiro all'arator mancando;

  L'alito a me così fuggì dal seno,

  Così feci io, caddi per terra quando

  Il suo bacio toccai, che a me, rapita

  Per poco, ridonò miglior la vita.

 

  Al tornar della mente attorno giro

  L'occhio languente ancora, e ancor smarrito

  in quella stanza, e presso me più miro

  Lui, che datomi il bacio, erane uscito

  Mi stavan solo le sorelle in giro,

  Che al mio tenendo il loro volto unito,

  (Anime belle, ancora io non vi oblio!)

  Ridean non comprendendo il caso mio.

 

  Ma quando mi accomiato, e già mi avvio

  Incontro ei mi cercò, col teso braccio

  Traversandomi l'uscio, e mentre che io

  Palpito e sotto quello oltre mi caccio

  Ei lieve lieve sopra il collo mio

  Lasciò caderlo, e men fe' dolce laccio,

  E questo il caro fu termin del gioco

  Che l'esca accrebbe all'esca, e il foco al foco.

 

  Tornata a sera di quel fatale,

  Voler poteva io cibo, o compagnia?

  Ah no! che io mi sentia fatta immortale

  E chiusa mi era nella stanza mia.

  E già taceano le paterne sale

  E tutta la famiglia giá dormia,

  Che io sol scarsa di sonno ardente e stanca

  Su vigil letto rimutava il fianco.

 

  Mi sentiva ricolma l'esistenza,

  Il core in petto mi sentia cresciuto

  Qual cresce questo rio quando veemenza

  Di pioggia gli conduce ampio tributo.

  Parea ogni oggetto avere intelligenza

  A me d'intorno, e mandarmi un saluto;

  Pareva che addormitami giá infante

  Io giovin mi destassi in quell'istante.

 

  Salto dal letto in vesta trasparente;

  Passeggio alquanto per la stanza oscura;

  Ma tosto di quel buio impaziente,

  Apro i balconi, e giusta sua figura

  La Luna vi riversa immantinente

  Un lungo fascio di sua luce pura.

  In mezzo a quella luce allor mi assido;

  E riguardo la Luna, e a lei sorrido.

 

  Poi di quel giorno, giù chinando il mento,

  Ripenso ai casi, ed a me stessa chieggio:

  Che sarà del mio amore? e mentre in cento

  Teme e speranze, e nuovi dubbi ondeggio:

  Odo di una canzona il dolce accento;

  Mi affaccio, o Madre, dal balcone, e veggio

  Lui, che laggiù della chitarra al suono

  Suo amor svelava, e mi chiedea perdono.

 

  Volea ritrarmi, ma colá confitta

  Da forza irresistibile d'incanto;

  Che benchè poi si tacque, immota dritta,

  Le braccia al sen conserte, odo quel canto.

  Da ogni pensier di terra derelitta

  L'anima in lui mi si obbliava intanto,

  E allora fu, che nol credea presente,

  Che ei si apprese al balcone audacemente.

 

  Ché quel balcone sul giardin mettea,

  La cui siepe nutria sambuco annoso,

  Ritto così che fino a me giungea

  Coi lunghi rami e il tronco vigoroso.

  Or ei per questo, e creder chi il potea?

  Montar fino al balcone era stato oso;

  E senza averlo visto io già rientrava,

  Quando una voce udii, che mi chiamava.

 

  Era la voce sua — voce diletta! —

  Sommessamente a me venia, siccome

  Il sospirar della notturna auretta,

  Che notturna alitava entro mie chiome;

  Volsimi tutta trepidante in fretta,

  Che si dolce mi udia chiamar per nome,

  E le mani gli porsi, onde ei sorpreso

  Restò nell'aria al collo mio sospeso.

 

  O Madre, o Madre mia, vuoi tu che il dica?

  Notte il nostro crescea col suo mistero;

  Soli, improvvisi con la luce amica,

  Abitar credevamo altro emisfero.

  Or tanto il sovvenir me ne affatica,

  Che io stessa mi domando: É forse vero?

  É un piacer che mi uccide, e spesso agogno

  Che fosse stato non realtà, ma sogno.

 

  Parlammo noi? dir non lo so; tementi

  Di esser sorpresi, muovevamo appena

  Le labbra, e rari e rotti eran gli accenti,

  La bocca vuota e l'anima ripiena;

  Ma parlavano invece i guardi ardenti,

  Le man congiunte con forte catena,

  E le sovresse involontarie stille,

  Che ad entrambi cadean dalle pupille.

 

  E Dio parea che ci benedicesse,

  E la luna cortese scomparia

  Dentro una nube come se volesse

  Celare la pudica gioia mia;

  Mentre io farmi di amor mille promesse,

  E mille giuri ad esclamar l'udia:

  «Deh! vedi quella Luna e quelle stelle

  Il nostro amore durerá quanto elle! »

 

  Giuri fallaci! Quattro volte il viso

  Avea la Luna sopra i nostri amori

  Mutato e sparso il suo benevol riso

  Su di me, che giacevo in grembo ai fiori,

  Quando ecco, i fior seccaro, e dall'Eliso,

  Dove io dormivo, mi trovai di fuori,

  Chè i notturni colloqui, e i nostri voti,

  A lungo andare non restar più ignoti.

 

  Dolorose memorie! in mia famiglia

  Tutta ad un tratto io diventai straniera,

  Mutamente su me loquaci ciglia

  Rivolgon tutti, han tutti ombrosa cera.

  Sento che alle mie spalle si bisbiglia;

  Veggio dei servi avversa anche la schiera;

  E che tace ogni dir, cessa ogni riso,

  Come mostrare mi si vede il viso.

 

  Mia madre sopratutto arde d'intenso

  Odio, chè a dar la dote ella é ritrosa,

  Di un suo unico figlio il ricco censo

  Temendo che scemasse, andando io sposa,

  Tanto (e ne fremo ancor quando vi penso)

  Che tra i panni veggendomi una rosa,

  Me la spicca con mano furibonda,

  Così gridando mentre me la sfronda:

 

  «Siccome questo fior la tua pazzia

  Sarà distrutta, come questo fiore

  Si sfronderá tua stolta fantasia,

  E della rosa avrai solo il rossore.

  Tu sposa? Or si, vedrem, se avrò balia,

  Di strapparti dal sen cotesto amore;

  E non sai tu dover esser di quella,

  Che a tuo fratel fia donna, umile ancella?».

 

  O amore! o amore! invan su la mia bocca

  Il tuo foco ponevi, e la tua voce;

  Ella diventa piú, quando é più tocca

  Da mie giuste ragioni, empia e feroce,

  Che saltandomi sopra, a ciocca a ciocca

  Mi lacera i capei, mentre che a croce,

  Legando umilemente ambo le braccia,

  Senza schermo al suo sdegno, offro la faccia.

 

  Non piansi no; raddoppio nel lavoro...

  Stolta! credea così farne vendetta,

  E respinsi ogni cibo, ogni ristoro;

  Né misi il piede oltre la mia stanzetta.

  Ma come dir qual fosse il mio martoro,

  Quando, scorsi tre , tuttor negletta,

  Mi vidi abbandonata, e che nessuno

  Al mio lavor pon mente; e al mio digiuno.

 

  Come dir che sentissi quando chiusa

  Tutta la sera senza il lume usato!

  Stando nel letto da languor diffusa,

  Con la mente e col corpo abbandonato!

  Udiva in altre stanze la confusa

  Famigliar gioia, come se il mio stato

  Nessun toccasse... Ahi quell'ingiusto obblio

  Col suo peso avvilì l'animo mio!

 

  E del materno amore il disinganno

  Discredente mi fece a ogni altro amore.

  Ogni amor di quaggiú mi parve inganno,

  Ogni allegrezza di quaggiù, dolore.

  Le cagioni obliai di ogni mio affanno;

  Piccolo e freddo mi si fece il core.

  Come demente sopra i pié mi adersi

  Ed il balcone, ahi! non più caro, apersi

 

  All'alma mia simìle il firmamento

  Era coverto allor da nubi nere,

  Né le frangea, né su per esse il vento

  Spingea la luna per l'aperte sfere.

  Lontan, ma assai lontan, l'orbe di argento

  Solo di quelle si potea vedere,

  Onde il debole raggio, che s'implica

  Tra le nubi, togliean gli occhi a fatica.

 

  E al pari di quell'astro scolorita

  L'immagine di lui mi stava avante;

  Io la vedevo or farsi alla mia vita,

  Io la vedevo ora da me distante;

  Col pensiero afferrarla, ed a me unita

  Tenerla invan cercava ad ogni istante,

  E riaccendere in me l'estinte faci,

  Rammentando di lui gli accenti e i baci,

 

  E dell'inutil prova io mi sdegnava,

  Io, che giurato avea strapparmi il core,

  E che allora per lui non palpitava;

  Che mi batteva e privo era di amore.

  Il corpo per inedia, e l'alma ignava

  Era per disperanza e per dolore;

  Mille arditi disegni ordisce, e stracca

  Inconsapevolmente si distacca.

 

  E così senza amor, senza coraggio

  Immobile io tenea la mia persona,

  Quando dal campanil, come un messaggio

  Dell'altra vita, l'oriuolo suona:

  Che cosa, io dissi, è questa vita? un viaggio,

  Cui la morte e il peccato incalza e sprona;

  Or cinque ore fuggirmi oltre le spalle!

  Più breve è fatto di mia vita il calle.

 

  Un'aura in questo seguita repente;

  Del mio pover sambuco urta la vetta,

  Urta le nubi, e in stille rare e lente,

  Sull'arido terren l'acqua ne getta.

  Pure non rientro, che sul corpo ardente

  Di ricever la pioggia a me diletta,

  E di quel caldo ed umido vapore,

  Che si eleva dal sen, fiutar l'odore

 

  Chiusi alfine il balcone, e invan posando,

  Sopra il balcone, insonne, io l'acqua udia,

  La qual piú forte sul tetto crosciando

  Tutta m'empiva di malinconia.

  I miei belli e primi anni rimembrando,

  Una brama di morte io mi sentia,

  Un forte tedio di me stessa, ed una

  Ira pel mondo, e per la mia fortuna.

 

  Or quale mi venisse allora in mente

  Subitano pensiero, o Madre, ascolta,

  Io avea una chioma d'ebano lucente,

  che al ginocchio mi gìa quando era sciolta

  E allor la sciolsi, e quando fortemente

  Tutta dentro la man l'ebbi raccolta:

  Chioma, sclamai, non dono no, non pegno

  Dell'amore di Dio; ma del suo sdegno;

 

  Simbol di servitù, non già corona

  Di cui alla donna sia la fronte cinta,

  Bensì catena, onde nostra persona,

  Come di schiava, é fortemente avvinta;

  Pure mio orgoglio nella sorte buona,

  O della madre mia gioia non fìnta.

  O chioma, invidia delle mie compagne,

  Io ti depongo ed il mio cor sen lagne.

 

  Così dicendo, la recido, e torno

  Al mio povero letto, e mi addormento.

  Dormii tutta la notte, e, fatto giorno,

  Che da me entrava la mia madre io sento.

  Mi vede il capo nudo, e mentre intorno

  Rivolge gli occhi, agli occhi le presento

  Un crocefisso, a cui le vilipese

  Recise chiome avea la sera appese.

 

  Stupor da prima le si pinse in viso;

  Ma d'un istante: l'erompente sdegno

  Ella mal frena col violento riso,

  Onde abbellir solea l'acerbo ingegno:

  «Madre, le dico, ebben! tu mi hai diviso

  Da un uom, ma da quell'uom di quel legno

  L'ardisci? No: tu non frangerai

  Quel giuro, che di sposa a lui donai!».

 

  Assalti di carezze simulate

  Preghi e minacce saldo il cor sostenne.

  Resa forte mi aveano amor, pietate,

  Speme tradita, e il giuro mio solenne.

  Egli lo seppe e in tutte le serate

  Pietosamente a lamentar sen venne

  Con la chitarra sotto i miei balconi

  Stancando il ciel di lugubri canzoni.

 

  Fu subito improvviso il mio partire,

  Ed i lari paterni, e tante care

  Memorie ivi cresciute in sul fiorire

  Della mia giovinezza ebbi a lasciare!

  Una parte di cor sentia fuggire,

  Come da me via via si allontanare

  Vedea tra i boschi il mio nido natale

  Dove vestii, ma non mutai già l'ale.

 

  Ei mi ricorderà, dirà sovente:

  — Era pur buona quella giovinetta!

  A lei congiunto, dentro una corrente

  D'una nuotato avrei gioia perfetta,

  E a non tradirmi, ore noiose, e lente

  Or trae, di un chiostro dentro, vita stretta

  E sì dicendo, righeragli intanto

  Il freddo volto inconsolabil pianto.

 

  Egli era, o madre, un tal pensier pietoso,

  Che di vigor mi armava oltre l'umano,

  Quando al mondo volgendo un disdegnoso

  Sguardo, nemica al crine ergea la mano,

  E, madre, in tal pensier finor riposo

  Cerca l'animo stanco, e non invano,

  Che se io soffro, ei pur soffre, e il destin rio

  Di lui innocente fa scordare il mio —

 

  Qui si tacea la misera Teresa;

  E poichè l'altra dal canuto ciglio

  Si ebbe tersa una lagrima sospesa,

  Sclama: — Adoriam di Dio l'alto consiglio!

  O Figlioletta mia, nel cor mi è scesa

  Grata la storia di ogni tuo periglio;

  Ma di periglio amabil sì ch'ha vanto

  Trarmi dagli occhi di letizia pianto

 

  Felice! che a tempo ti svegliasti,

  Dalla rete sciogliendoti di amore;

  Felice! che entro il fuoco ti scagliasti,

  Né poter di bruciarti ebbe il suo ardore;

  Felice! che qual rondine volasti

  Sul fango, macchiasti il tuo candore,

  Chè allor ti piovve Dio la grazia sua,

  Quando sete ne avea l'anima tua.

 

  Oh! vago è il fiore, che disfatto e molle

  Per pïova notturna in lui cascata,

  Si drizza al nuovo sole, e lento estolle

  La chioma ricomposta ed imperlata;

  Ma più vaga è quell'alma allor che bolle

  Tutta di Dio, membrando ogni passata

  Amorosa fortuna! Al cielo e a Lei

  I patimenti sui sembran piú bei

 

  — Ohimé! Madre, che parli? [sospirando,

  Le risponde Teresa] un anno scorso

  Mi era in questo convento, e io dato il bando

  Credea all'amore, e ad ogni suo trascorso;

  Ma con forza maggiore fulminando

  Tosto tornò il crudele a tutta corsa.

  L'ignoto giovinetto, onde dicevi:

  «Pregane Dio, Teresa » ah! nol sapevi,

 

  Era il garzone amato!... Oh! a che dir: «era

  Se egli sta meco indivisibilmente,

  Se egli m'insegue da mattina a sera,

  Se non posso levarmelo di mente?

  Cacciala pure in fondo al rio: leggiera

  Torna la fronda a galla immantinente;

  Così l'immagin sua sempre respinta

  Torna, e la veggo in ogni oggetto pinta

 

  Si commosse di Dio la vecchia ancella,

  E afferrata da un impeto di affetto

  Con entrambe le man la testa bella

  Di lei, se la serrò forte sul petto,

  Come volesse trapassare in quella

  Il gelo, onde il suo seno era ricetto;

  Poi ritrasse le mani, e lungo affisse

  Gli occhi alla terra, e sospirando disse:

 

  — Ahi! l'uom troppo è potente e 'l gran nemico

  Di lui si vale quando a noi fa guerra.

  Tu sola il core serberai pudico,

  Tu, che sola ti credi, Eugenia, in terra.

  «Son gli uomini distrutti (ognor le dico)

  «Angelo é il Prete, che uman corpo serra»

  Così morrà fanciulla; e non ha detto

  Forse il Signor: beato al pargoletto? —

 

  E Teresa soggiunse: Io sempre ho chiesto

  Di Eugenia ad ogni suora più canuta,

  Chi fu la madre sua, e come in questo

  Loco pervenne, e come fu cresciuta.

  Pur come il chieder mio non fosse onesto,

  Ciascuna o mi sorrise o stette muta.

  Potrai tu dirlo? ne hai pur tocca or ora;

  Ma perchè la fanciulla anco l'ignora? —

 

  — Sempre l'ignorerá, l'altra rispose,

  Sempre: non vedi su quel sozzo fime

  Come vennero vaghe quelle rose,

  A cui l'auretta fa tremar le cime?

  Così pur nacque Eugenia: Iddio la pose

  Delle vaghe creature entro le prime;

  Ma insanguinata e di peccata ordita

  La culla fu dove spirò la vita.

 

  Questo è un secreto del convento e un giorno

  Ti sarà noto, o mia Teresa: intanto

  Presso è l'ora, che innanzi mezzogiorno

  Ci chiama al Coro, alla preghiera e al canto

  Così dicendo in piè levossi; attorno

  Alla persona si succinse il manto;

  E posto fine al lor ragionamento

  Tornarono ambedue dentro il convento.

 




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