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Canto 4. —
Intanto all'ombra di castagno antico,
Piantato del ruscello in sulla sponda,
Stava Teresa, ed un fringuello amico
Contemplava di là tra fronda e fronda.
Non l'alletta il mattin, non l'orto aprico,
Né il canto dell'uccello, o il suon
dell'onda;
Chiusa in un bianco velo, ella é seduta,
Inoperosa no, ma mesta e muta:
E mentre con le dita agili intesse
Gentil opra, onde calzi il breve piede,
Solleva a quando a quando le dimesse
Ciglia al castagno sotto cui si siede,
Vede le cime di aurei ricci oppresse;
Vede qual riccio mai fendesi e cede,
Rotto dal frutto che di uscir si sforza
Dalla gelosa sua materna scorza.
Ed i frutti caduti abbica e coglie,
Quando con più vigor l'aura spirante,
Soffiando dentro le frementi foglie,
Giù li rovescia in pioggia risonante.
Quì vista la Badessa, Ella si toglie
Da
seder rispettosa in un istante;
Inchinarsi vorria, ma l'altra nega
E a risedersi accanto a sé la prega.
E le mani pigliandole esordio
A dir con voce di pietà e d'amore:
— Odi, o Teresa, losco è il guardo mio,
Losco per gli anni, e non ha più vigore;
Pur nel cor ti penètra! Ah! tutto pio
Non é il pensier, che ti abita nel core.
Sei troppo solitaria e mesta assai,
Pallida, e spesso in pianto ti trovai. —
E Teresa risponde: — O madre, è vero;
Ma solitaria io sono per natura.
Albero poi, che dal tronco primiero
Presso ad un altro perde la verdura;
E poi dei propri falli a chi il pensiero
Le lacrime non spreme, e il riso fura? —
Ma l'altra, il capo crollando, le prese
Dentro le sue la mano, e a dir riprese:
—Vedi questo castagno? All'ombra ei stava
Di castagni più grandi ora caduti;
Tenero si, che ogni aura ne crollava
I tenui rami, e i pochi cardi irsuti,
Quando io di gioventù tutta brillava,
E mi chiudeva in questi luoghi muti.
Ora entrambi siam vecchi, e siam gravati,
Egli di ricci e fronde, io di peccati.
Quante volte, o Teresa, mi vedesti,
Sedendo io qui, mentre scotealo il vento
Trasalire e chinar giù gli occhi mesti
Delle sue fronde al minimo lamento,
E tu nulla, o figliuola, ne intendesti:
Ma egli vide, egli sa tutto il tormento
Della mia giovinezza, onde io temea
Che ogni sua voce mi gridasse rea.
Vano timore; ma verrà pur die,
Che, impetrata favella, in altro suono
Tutte rivelerà le mie follie
Al tempo estremo innanzi al divin trono;
E voglia Dio, che per le sole mie
Colpe io gli debba allor chieder perdono;
Ma ahi! che conto mi sia, se dimandato
Del tesor di tua alma a me fidato.
Ben io so, figlia, quanto pesi in petto
Cuor, che palpiti sol col suo pensiero;
Aprilo dunque a me, parla, e sia schietto
L'animo e il labbro! Onde è l'umor tuo nero?
Pietosa eco risponde al ruscelletto,
Che geme tra alti massi prigioniero;
Masso è pure il cor, se ben lo miri,
Ma vi trovano un'eco i tuoi sospiri —
Tacque; e Teresa, che le porge ascolto
Tutta quanta tremante ed arrossita,
Le mani a sè ritrasse, che raccolto
Le avea dentro le sue quella romita;
E tra di esse nascondendo il volto:
— O madre, esclama, a che narrar mia vita?
Forse il consiglio tuo, forse una stilla
Di tua pietade mi faran tranquilla?
Stetti sovente per aprirti il core
Quando tutto scoppiare io mel sentia,
Sebbene in conversar col mio dolore
Fosse riposta ogni delizia mia;
Ma quì dove aura di celeste amore
Queste piante consacra e questa via,
Amor di pure verginelle, io rea
I miei deliri raccontar potea?
É la decima chioma, onde si veste
Questo castagno da quel dì fatale,
Che io recisi le mie dando alle feste
E ai piaceri del mondo un tristo vale.
Eppur la pace, che io speravo in queste
Sedi, ancor non ritrovo, e 'l duro strale
Di amor, che qui portai nel fianco afflitto
Vi dura ancora, e ancor vi sta confitto.
Vedi questo ruscel? Deh! come l'onde
Ne sono terse e come in vario errore
L'ombra degli arboscei vi si confonde
All'immago di questo e quel fiore!
Ebbene, o madre mia, così gioconde
A ventun anno mi correvan l'ore,
E il dolce mormorar di quieto rio
Io lo sentia qui in petto entro il cor mio.
Io camminava leggera, leggera
In un'onda di luce, e di concento;
Quando, o me lassa! un giovin vidi che era
Simile nell'ardito portamento
Al mandorlo, che chiama Primavera
Con gli splendidi sui fiori d'argento,
Qual'uva acerba e bianca che s'imbruna,
Gentilmente gli ardea la gota bruna.
Esciva da collegio e bello il fea
Fama
d'ingegno, e un pronto in lui diffuso
Verginale rossor, con cui parea
Di sua novella libertà confuso.
E poi che nostre case congiungea
Di atti cortesi e di amistà lung'uso
Ei fu da noi, né scorderó quel die,
Prima sorgente delle pene mie!
Giaceva inferma la mia madre a letto,
Ed appo il letto in questa parte e in quella
Sedevamo piú donne, a vario oggetto
Dispensando il lavoro e la favella,
Quando egli apparve, ma non già soletto
Ch'una menó con sè minor sorella,
Che essendo arguta, semplice e pudica
Una suora in me avea più che un'amica.
Misero questa a fianco ed io con lei
Mintrattenevo assai piacevolmente
Senza che al riso altrui, senza che ai bei
Lieti motti di lui ponessi mente.
Pure, benché bassassi gli occhi miei,
Venir sentiami i suoi su dolcemente.
Sollevandoli alfine, i suoi scontrai,
Ambi arrossimmo, nè piú li chinai.
«Giovin! (la madre mia diceva ad esso,)
Sempre amistà le nostre case ha unito;
Quanto amor con tua madre! Al tempo stesso
Giurato ci avevam di tor marito;
Ma a toglierlo io fui prima ed ella appresso:
Giá da poco il terz'anno avea fornito
Teresa, quando il tuo natale avvenne;
E se in fallo non do, sei diciottenne».
Egli affermava. Ed ella: «Io mi rammento,
Quando la madre tua tenero infante
Qui ti portava, che eri assai violento,
E incapace a star fermo un solo istante.
Di mia figliuola balbettavi a stento
Il nome, e non di meno eri incessante
A molestarla, e per tenerti in freno
Concederti dovea tre baci almeno ».
Tremo in mezzo a quel crocchio; il viso
abbasso,
E il varco per uscir cerco piú corto;
Ne riser tutti, ed ahi! confuso il passo
Per quel riso e parlar timido io porto;
Ma accosto a lui, senza volerlo, io passo;
Con le vesti lo tocco, onde egli accorto
Ver me piegossi piano piano a dire:
«Oh! fanciullo un sol giorno e poi morire! »
Da questi accenti a sdegno io fui commossa:
Disprezzarlo, odïarlo io mi credea,
E giunta a stanza, a mio dispetto rossa
Nello specchio la faccia io mi vedea;
Ma dolce l'ira, dolce l'odio, e scossa,
Ricompariami ognor di lui l'idea,
E mal mio grado mi trovai roventi
Sul labro inconscio quegli stessi accenti.
Il giorno dopo, mentre in chiesa io mi era
A udir la messa, alzando a caso il viso,
Che io della sedia dietro alla spalliera
Celavo, tra la folla ecco il ravviso.
Oh! quale della sua pupilla nera
Lampo su me cadeva all'improvviso!
Ad ogni sguardo, con cui mi feria,
Parea dicesse: Tu devi esser mia.
Non mi perdonerà, no madre, mai
Dio quella messa! alle devote carte
Ben io figgea, per non vederlo, i rai,
Ben tentava il pensier porne da parte;
Ma ritto tra me e Dio sempre il mirai.
Sul libro, sugli altari, in ogni parte,
Posavo il labbro tuttavia; ma il core,
Il core era con lui, non col Signore!
Di più il restarmi a chiesa impaziente
N'esco giurando di non più mirarlo.
Inutil giuro! vidi incontanente,
Sola che fui, di non poter serbarlo.
Come chi accieca in sul principio sente
La luce a poco a poco abbandonarlo
E sé restare alfin solo e smarrito
In deserto di tenebre infinito,
Tal io m'intesi, come ratto priva
D'un oggetto, d'un ben che anco ignorava:
Torno alle prime cure, onde gioiva,
Cercando in esse ciò che mi mancava...
Non altrimenti, o madre io mi sentiva
Stanco il corpo cosi, la mente ignava,
Finchè intesi il bisogno, e a che negarlo?
Di vederlo per sempre e sempre amarlo.
Fatto un tale pensiero, un dì soletta
Alla sua casa mi condussi al fine:
A fare di ricamo opra perfetta
Stavan le sue sorelle intente e chine.
Erano quattro, e tutte attorno in fretta
Mi fur con baci e amplessi senza fine,
Con liete grida e tenere parole
Come tra le fanciulle usar si suole.
E già perché io lì fossi, obbliavo affatto
Tra quell'allegro verginal drappello,
Allorchè la mia amica uscendo a un tratto
Tornò seco menando il suo fratello.
O ingenua! tu stimavi il mio cor fatto
Come il casto tuo cor che tiene quello
Che Dio ripone tra germani e suore!
Possibil non credevi un altro amore
Entrò ridendo: aveva il crin negletto
Che per gli omeri a lui si ribocava;
Serico velo di color violetto
La nuda e tonda gola gli annodava;
Ad ora ad or per poco il largo petto
Sotto camicia bianca si mostrava:
Libero nel domestico vestire
Mel vidi più che pria bello apparire.
O madre, a quell'incontro ambi stupire,
Ambi alzare, e chinar gli occhi improvviso,
Ambi voler parlare, e non ardire.
Ed in molle color cangiare il viso:
Ci vider le sorelle in quel martire,
E
ignorando di amor sciolsero il riso,
Finché a frenarlo alzossi una di loro:
—Facciam, dicendo, a guancialino di oro —
E appressandosi a me piacevolmente,
Soggiungeva, pigliandomi le braccia:
«Che ti avvenne, o Teresa? or di repente
Sei fatta mesta? or via leva la faccia.
Tu certo ignori come lietamente
Scherzar sappia il fratello, ove gli piaccia.
Ei ti ama quanto me, Teresa mia
Ieri ei stesso il diceva, ed io l'udia ».
Poi ripiglió dopo un sorrider schietto;
«Or mi ascolta, fratel, ché tu dovrai
Tener, quivi seduto, il guancialetto;
Esser mastro nel giuoco, e tu lo sai;
Ma, venendo o Teresa, abbi intelletto,
Coprile bene, che non veggia, i rai
Se dopo il gioco non sarete voi
Amici, affè! l'avrete a far con noi.
Tu l'immagina, o Madre, allor qual core
Battesse in me! pensai che ogni rifiuto
Svelar poteva il mio segreto umore,
E insospettir le suore avria potuto;
Pensai che in quel trastullo il nostro ardore
Saria forse amistade addivenuto,
E che sovente chi il periglio sprezza,
Suole in esso trovar la sua salvezza.
Accetto dunque il gioco, ed or men resta
Una indistinta dolce rimembranza;
Ma quando odo chiamarmi, a lui la testa
Posar
dovetti in sen, come é l'usanza,
Un'aura ardente ivi spirai, che presta
Scorrea con indicibil dilettanza;
Io genuflessa in grembo gli posai
In atto di chi adora, e l'adorai.
Lassa! io sentia delle sue man che agli occhi
Intrecciate mi fean soave freno,
Arder le vene e con frequenti scocchi
Riversar nelle mie fuoco e veleno,
E il tremito egli udia dei miei ginocchi
E il faticoso anelito del seno,
Mentre io rapita in estasi una fronda
Era, che corre alla balia di un'onda.
E fu che quell'ingenua a un tratto uscendo,
Tornó recando un mazzolin di viole,
E questo alzando in alto, ed offerendo
Di tutte agli occhi: Orsú, dicea, chi vuole?
Stende ognuna la destra — Io, rispondendo:
Quella finge donarlo e poi disvuole.
«Dite ad un tempo (e a un tempo noi): Voglio
io;
Ma ella si ride del comun desio
Di poi soggiunse: orsú, facciam il conto
E a cui fa tocco accordasi potere
Senza che se la rechi altri ad affronto,
Dare un
bacio e il mazzetto a suo piacere.
Ahimè! le dita rizzan tutte, e conto
Quando fu ciascun dito, ecco accadere,
Dolce fortuna per me insieme e rìa,
Venne su lui la sorte, o madre mia.
Venne, o Madre, su lui la fatal sorte,
Che immantinente il veggio impallidire
Pingersi il viso di color di morte,
Poi le sue labbra alle mie labbra unire,
Ed abracciarmi, e baciarmi sì forte
Che di dolcezza m'intesi morire.
Parve la terra sotto i piè fuggirmi
Ed io in un altro mondo rinvenirmi.
Come allorché di autunno il ciel sereno
Si apre improvviso, dietro sè lasciando
Succedente fragor, rompe il baleno,
Viene il respiro all'arator mancando;
L'alito a me così fuggì dal seno,
Così feci io, caddi per terra quando
Il suo bacio toccai, che a me, rapita
Per poco, ridonò miglior la vita.
Al tornar della mente attorno giro
L'occhio languente ancora, e ancor smarrito
Nè in quella stanza, e presso me più miro
Lui, che datomi il bacio, erane uscito
Mi stavan solo le sorelle in giro,
Che al mio tenendo il loro volto unito,
(Anime belle, ancora io non vi oblio!)
Ridean non comprendendo il caso mio.
Ma quando mi accomiato, e già mi avvio
Incontro ei mi cercò, col teso braccio
Traversandomi l'uscio, e mentre che io
Palpito e sotto quello oltre mi caccio
Ei lieve lieve sopra il collo mio
Lasciò caderlo, e men fe' dolce laccio,
E questo il caro fu termin del gioco
Che l'esca accrebbe all'esca, e il foco al
foco.
Tornata a sera di quel dì fatale,
Voler poteva io cibo, o compagnia?
Ah no! che io mi sentia fatta immortale
E chiusa mi era nella stanza mia.
E già taceano le paterne sale
E tutta la famiglia giá dormia,
Che io
sol scarsa di sonno ardente e stanca
Su vigil letto rimutava il fianco.
Mi sentiva ricolma l'esistenza,
Il core in petto mi sentia cresciuto
Qual cresce questo rio quando veemenza
Di pioggia gli conduce ampio tributo.
Parea ogni oggetto avere intelligenza
A me d'intorno, e mandarmi un saluto;
Pareva che addormitami giá infante
Io giovin mi destassi in quell'istante.
Salto dal letto in vesta trasparente;
Passeggio alquanto per la stanza oscura;
Ma tosto di quel buio impaziente,
Apro i balconi, e giusta sua figura
La Luna vi riversa immantinente
Un lungo fascio di sua luce pura.
In mezzo a quella luce allor mi assido;
E riguardo la Luna, e a lei sorrido.
Poi di quel giorno, giù chinando il mento,
Ripenso ai casi, ed a me stessa chieggio:
Che sarà del mio amore? e mentre in cento
Teme e speranze, e nuovi dubbi ondeggio:
Odo di una canzona il dolce accento;
Mi affaccio, o Madre, dal balcone, e veggio
Lui, che laggiù della chitarra al suono
Suo amor svelava, e mi chiedea perdono.
Volea ritrarmi, ma colá confitta
Da forza irresistibile d'incanto;
Che benchè poi si tacque, immota dritta,
Le braccia al sen conserte, odo quel canto.
Da ogni pensier di terra derelitta
L'anima in lui mi si obbliava intanto,
E allora fu, che nol credea presente,
Che ei si apprese al balcone audacemente.
Ché quel balcone sul giardin mettea,
La cui siepe nutria sambuco annoso,
Ritto così che fino a me giungea
Coi lunghi rami e il tronco vigoroso.
Or ei per questo, e creder chi il potea?
Montar fino al balcone era stato oso;
E senza averlo visto io già rientrava,
Quando una voce udii, che mi chiamava.
Era la voce sua — voce diletta! —
Sommessamente a me venia, siccome
Il sospirar della notturna auretta,
Che notturna alitava entro mie chiome;
Volsimi tutta trepidante in fretta,
Che si dolce mi udia chiamar per nome,
E le mani gli porsi, onde ei sorpreso
Restò nell'aria al collo mio sospeso.
O Madre, o Madre mia, vuoi tu che il dica?
Notte il nostro crescea col suo mistero;
Soli, improvvisi con la luce amica,
Abitar credevamo altro emisfero.
Or tanto il sovvenir me ne affatica,
Che io stessa mi domando: É forse vero?
É un piacer che mi uccide, e spesso agogno
Che fosse stato non realtà, ma sogno.
Parlammo noi? dir non lo so; tementi
Di esser sorpresi, muovevamo appena
Le labbra, e rari e rotti eran gli accenti,
La bocca vuota e l'anima ripiena;
Ma parlavano invece i guardi ardenti,
Le man congiunte con forte catena,
E le sovresse involontarie stille,
Che ad entrambi cadean dalle pupille.
E Dio parea che ci benedicesse,
E la luna cortese scomparia
Dentro una nube come se volesse
Celare la pudica gioia mia;
Mentre io farmi di amor mille promesse,
E mille giuri ad esclamar l'udia:
«Deh! vedi quella Luna e quelle stelle
Il nostro amore durerá quanto elle! »
Giuri fallaci! Quattro volte il viso
Avea la Luna sopra i nostri amori
Mutato e sparso il suo benevol riso
Su di me, che giacevo in grembo ai fiori,
Quando ecco, i fior seccaro, e dall'Eliso,
Dove io dormivo, mi trovai di fuori,
Chè i notturni colloqui, e i nostri voti,
A lungo andare non restar più ignoti.
Dolorose memorie! in mia famiglia
Tutta ad un tratto io diventai straniera,
Mutamente su me loquaci ciglia
Rivolgon tutti, han tutti ombrosa cera.
Sento che alle mie spalle si bisbiglia;
Veggio dei servi avversa anche la schiera;
E che tace ogni dir, cessa ogni riso,
Come mostrare mi si vede il viso.
Mia madre sopratutto arde d'intenso
Odio, chè a dar la dote ella é ritrosa,
Di un suo unico figlio il ricco censo
Temendo che scemasse, andando io sposa,
Tanto (e ne fremo ancor quando vi penso)
Che tra i panni veggendomi una rosa,
Me la spicca con mano furibonda,
Così gridando mentre me la sfronda:
«Siccome questo fior la tua pazzia
Sarà distrutta, come questo fiore
Si sfronderá tua stolta fantasia,
E della rosa avrai solo il rossore.
Tu sposa? Or si, vedrem, se avrò balia,
Di strapparti dal sen cotesto amore;
E non sai tu dover esser di quella,
Che a tuo fratel fia donna, umile ancella?».
O amore! o amore! invan su la mia bocca
Il tuo foco ponevi, e la tua voce;
Ella diventa piú, quando é più tocca
Da mie giuste ragioni, empia e feroce,
Che saltandomi sopra, a ciocca a ciocca
Mi lacera i capei, mentre che a croce,
Legando umilemente ambo le braccia,
Senza schermo al suo sdegno, offro la faccia.
Non piansi no; raddoppio nel lavoro...
Stolta! credea così farne vendetta,
E respinsi ogni cibo, ogni ristoro;
Né misi il piede oltre la mia stanzetta.
Ma come dir qual fosse il mio martoro,
Quando, scorsi tre dì, tuttor negletta,
Mi vidi abbandonata, e che nessuno
Al mio lavor pon mente; e al mio digiuno.
Come dir che sentissi quando chiusa
Tutta la sera senza il lume usato!
Stando nel letto da languor diffusa,
Con la mente e col corpo abbandonato!
Udiva in altre stanze la confusa
Famigliar gioia, come se il mio stato
Nessun toccasse... Ahi quell'ingiusto obblio
Col suo peso avvilì l'animo mio!
E del materno amore il disinganno
Discredente mi fece a ogni altro amore.
Ogni amor di quaggiú mi parve inganno,
Ogni allegrezza di quaggiù, dolore.
Le cagioni obliai di ogni mio affanno;
Piccolo e freddo mi si fece il core.
Come demente sopra i pié mi adersi
Ed il balcone, ahi! non più caro, apersi
All'alma mia simìle il firmamento
Era coverto allor da nubi nere,
Né le frangea, né su per esse il vento
Spingea la luna per l'aperte sfere.
Lontan, ma assai lontan, l'orbe di argento
Solo di quelle si potea vedere,
Onde il debole raggio, che s'implica
Tra le nubi, togliean gli occhi a fatica.
E al pari di quell'astro scolorita
L'immagine di lui mi stava avante;
Io la vedevo or farsi alla mia vita,
Io la vedevo ora da me distante;
Col pensiero afferrarla, ed a me unita
Tenerla invan cercava ad ogni istante,
E riaccendere in me l'estinte faci,
Rammentando di lui gli accenti e i baci,
E dell'inutil prova io mi sdegnava,
Io, che giurato avea strapparmi il core,
E che allora per lui non palpitava;
Che mi batteva e privo era di amore.
Il corpo per inedia, e l'alma ignava
Era per disperanza e per dolore;
Mille arditi disegni ordisce, e stracca
Inconsapevolmente si distacca.
E così senza amor, senza coraggio
Immobile io tenea la mia persona,
Quando dal campanil, come un messaggio
Dell'altra vita, l'oriuolo suona:
Che cosa, io dissi, è questa vita? un
viaggio,
Cui la morte e il peccato incalza e sprona;
Or cinque ore fuggirmi oltre le spalle!
Più breve è fatto di mia vita il calle.
Un'aura in questo seguita repente;
Del mio
pover sambuco urta la vetta,
Urta le nubi, e in stille rare e lente,
Sull'arido terren l'acqua ne getta.
Pure non rientro, che sul corpo ardente
Di ricever la pioggia a me diletta,
E di quel caldo ed umido vapore,
Che si eleva dal sen, fiutar l'odore
Chiusi alfine il balcone, e invan posando,
Sopra il balcone, insonne, io l'acqua udia,
La qual piú forte sul tetto crosciando
Tutta m'empiva di malinconia.
I miei belli e primi anni rimembrando,
Una brama di morte io mi sentia,
Un forte tedio di me stessa, ed una
Ira pel mondo, e per la mia fortuna.
Or quale mi venisse allora in mente
Subitano pensiero, o Madre, ascolta,
Io avea una chioma d'ebano lucente,
che al ginocchio mi gìa quando era sciolta
E allor la sciolsi, e quando fortemente
Tutta dentro la man l'ebbi raccolta:
Chioma, sclamai, non dono no, non pegno
Dell'amore di Dio; ma del suo sdegno;
Simbol di servitù, non già corona
Di cui alla donna sia la fronte cinta,
Bensì catena, onde nostra persona,
Come di schiava, é fortemente avvinta;
Pure mio orgoglio nella sorte buona,
O della madre mia gioia non fìnta.
O chioma, invidia delle mie compagne,
Io ti depongo ed il mio cor sen lagne.
Così dicendo, la recido, e torno
Al mio povero letto, e mi addormento.
Dormii tutta la notte, e, fatto giorno,
Che da me entrava la mia madre io sento.
Mi vede il capo nudo, e mentre intorno
Rivolge gli occhi, agli occhi le presento
Un crocefisso, a cui le vilipese
Recise chiome avea la sera appese.
Stupor da prima le si pinse in viso;
Ma d'un istante: l'erompente sdegno
Ella mal frena col violento riso,
Onde abbellir solea l'acerbo ingegno:
«Madre, le dico, ebben! tu mi hai diviso
Da un uom, ma da quell'uom là di quel legno
L'ardisci? No: tu non frangerai
Quel giuro, che di sposa a lui donai!».
Assalti di carezze simulate
Preghi e minacce saldo il cor sostenne.
Resa forte mi aveano amor, pietate,
Speme tradita, e il giuro mio solenne.
Egli lo seppe e in tutte le serate
Pietosamente a lamentar sen venne
Con la chitarra sotto i miei balconi
Stancando il ciel di lugubri canzoni.
Fu subito improvviso il mio partire,
Ed i lari paterni, e tante care
Memorie ivi cresciute in sul fiorire
Della mia giovinezza ebbi a lasciare!
Una parte di cor sentia fuggire,
Come da me via via si allontanare
Vedea tra i boschi il mio nido natale
Dove vestii, ma non mutai già l'ale.
Ei mi ricorderà, dirà sovente:
— Era pur buona quella giovinetta!
A lei congiunto, dentro una corrente
D'una nuotato avrei gioia perfetta,
E a non tradirmi, ore noiose, e lente
Or trae, di un chiostro dentro, vita stretta
—
E sì dicendo, righeragli intanto
Il freddo volto inconsolabil pianto.
Egli era, o madre, un tal pensier pietoso,
Che di vigor mi armava oltre l'umano,
Quando al mondo volgendo un disdegnoso
Sguardo, nemica al crine ergea la mano,
E, madre, in tal pensier finor riposo
Cerca l'animo stanco, e non invano,
Che se io soffro, ei pur soffre, e il destin
rio
Di lui innocente fa scordare il mio —
Qui si tacea la misera Teresa;
E poichè l'altra dal canuto ciglio
Si ebbe tersa una lagrima sospesa,
Sclama: — Adoriam di Dio l'alto consiglio!
O Figlioletta mia, nel cor mi è scesa
Grata la storia di ogni tuo periglio;
Ma di periglio amabil sì ch'ha vanto
Trarmi dagli occhi di letizia pianto
Felice! che sí a tempo ti svegliasti,
Dalla rete sciogliendoti di amore;
Felice! che entro il fuoco ti scagliasti,
Né poter di bruciarti ebbe il suo ardore;
Felice! che qual rondine volasti
Sul fango, nè macchiasti il tuo candore,
Chè allor ti piovve Dio la grazia sua,
Quando sete ne avea l'anima tua.
Oh! vago è il fiore, che disfatto e molle
Per pïova notturna in lui cascata,
Si drizza al nuovo sole, e lento estolle
La chioma ricomposta ed imperlata;
Ma più vaga è quell'alma allor che bolle
Tutta di Dio, membrando ogni passata
Amorosa fortuna! Al cielo e a Lei
I patimenti sui sembran piú bei—
— Ohimé! Madre, che parli? [sospirando,
Le risponde Teresa] un anno scorso
Mi era in questo convento, e io dato il bando
Credea all'amore, e ad ogni suo trascorso;
Ma con forza maggiore fulminando
Tosto tornò il crudele a tutta corsa.
L'ignoto giovinetto, onde dicevi:
«Pregane Dio, Teresa » ah! nol sapevi,
Era il garzone amato!... Oh! a che dir:
«era?»
Se egli sta meco indivisibilmente,
Se egli m'insegue da mattina a sera,
Se non posso levarmelo di mente?
Cacciala pure in fondo al rio: leggiera
Torna la fronda a galla immantinente;
Così l'immagin sua sempre respinta
Torna, e la veggo in ogni oggetto pinta —
Si commosse di Dio la vecchia ancella,
E afferrata da un impeto di affetto
Con entrambe le man la testa bella
Di lei, se la serrò forte sul petto,
Come volesse trapassare in quella
Il gelo, onde il suo seno era ricetto;
Poi ritrasse le mani, e lungo affisse
Gli occhi alla terra, e sospirando disse:
— Ahi! l'uom troppo è potente e 'l gran
nemico
Di lui si vale quando a noi fa guerra.
Tu sola il core serberai pudico,
Tu, che sola ti credi, Eugenia, in terra.
«Son gli uomini distrutti (ognor le dico)
«Angelo é il Prete, che uman corpo serra»
Così morrà fanciulla; e non ha detto
Forse il Signor: beato al pargoletto? —
E Teresa soggiunse: Io sempre ho chiesto
Di Eugenia ad ogni suora più canuta,
Chi fu la madre sua, e come in questo
Loco pervenne, e come fu cresciuta.
Pur come il chieder mio non fosse onesto,
Ciascuna o mi sorrise o stette muta.
Potrai tu dirlo? ne hai pur tocca or ora;
Ma perchè la fanciulla anco l'ignora? —
— Sempre l'ignorerá, l'altra rispose,
Sempre: non vedi su quel sozzo fime
Come vennero vaghe quelle rose,
A cui l'auretta fa tremar le cime?
Così pur nacque Eugenia: Iddio la pose
Delle vaghe creature entro le prime;
Ma insanguinata e di peccata ordita
La culla fu dove spirò la vita.
Questo è un secreto del convento e un giorno
Ti sarà noto, o mia Teresa: intanto
Presso è l'ora, che innanzi mezzogiorno
Ci chiama al Coro, alla preghiera e al canto
—
Così dicendo in piè levossi; attorno
Alla persona si succinse il manto;
E posto fine al lor ragionamento
Tornarono ambedue dentro il convento.
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