Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vincenzo Padula
Il Monastero di Sambucina

IntraText CT - Lettura del testo

  • — Canto primo. —
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

— Canto primo. —

 

  O agresti solitudini, o pinete,

  O monti della Sila cosentina,

  Che l'estrema reliquia possedete

  Del Monastero della Sambucina,

  Col rumor della caccia altri le quete

  Ombre vostre profani, e l'eco alpina;

  Giovine io sono di piú mite ingegno,

  Amo le Muse, e a meditar quì vegno.

 

  A meditar sui rovi, e sull'ortica,

  Sull'edera tortuosa, onde ammantate

  Sono le mura della casa antica

  Un tempo dalle Vergini abitate,

  Che vi lasciâr partendo un'aura amica

  Un raggio delle lor forme beate

  Di lor sen, di lor vesti una fragranza

  Un suono qual di voci in lontananza.

 

  Eran fanciulle, che all'età di amore

  Tolser l'ali ad amor, e a vol poggiaro

  Come colombe, che nel chiuso orrore

  S'involan delle selve al nibbio avaro

  Lungi da questo mondo ingannatore,

  Locando in dio l'affetto lor più caro;

  Ora fama ne serba un debil grido,

  Partiron le colombe, e vuoto è il nido

 

  É vuoto il nido, e 'l venticel, che spira

  Pei corridoi e le moscose celle,

  Sembra che imiti il suon di un piè, che gira

  Leggero, leggerissimo per quelle,

  Ma dove i canti della sacra lira?

  Dove i sospiri delle verginelle?

  Solo rumor, che si ode, è quel dei venti,

  Dell'imposte, e dei tegoli cadenti.

 

  Partirono siccome pellegrino

  Stuolo d'augei, che un'infallibil arte,

  Un istinto profetico e divino

  Guida a clima migliore, a miglior parte;

  Arresta in luoghi inospiti il cammino

  Finchè dura la notte, e poi riparte,

  Ripiglia il volo con più lieto metro,

  Varca le nubi, né si guarda indietro.

 

  Quante memorie! Quì crescente nota

  Vedi di nomi, cui talor scolpìa

  Sopra i pioppi la vergine devota,

  Mentre ai dì scorsi col pensier reddìa;

  Lì appeso al trave d'una stanza, or vota,

  Il nido, onde la rondine fuggìa

  Quando non più vi ritrovó colei

  Che accordava il suo canto a quel di lei.

 

  Memore nondimeno, il caldo aprile

  Come un altar queste rovine infiora

  E in ogni fior che piega il capo umìle

  Par che vergine viva e preghi ancora

  La cui polve chi sa, se in quel gentile

  Fiore, che ne spuntò, non si colora,

  Finchè ognuna fia data all'altra vita

  Di questi stessi fiori il crin vestita.

 

  Ma prima deh! che alla seconda vita

  La tromba dell'Arcangelo vi appelli,

  Concedetemi, o vergini, che ardita

  Domandi la mia voce i vostri avelli.

  Mi assideró sovra essi, ed avran vita

  Dentro i miei carmi i vostri nomi belli;

  Io canto, e parmi già dal paradiso

  Vedervi su di me chinare il viso.

 

  Cantar mi giova dell'Eugenia vostra,

  Quì nata, e quì appassita al par di fiore,

  Che non scoppiato ancor dalla sua chiostra

  Cade, e reca con sé tutto il suo odore;

  Scomparsa qual ruscel, che come mostra

  Le limpide onde, in sua sorgente muore,

  Ignoto all'erbe azzurre, e perse, e gialle,

  Ond'è dipinta la soggetta valle.

 

  Quì crebbe pargoletta e se vagìa,

  Una cerva, che umano indole avea

  I turgidi e villosi otri le offrìa,

  E lambivale il volto e ne godea,

  Mentr'ella con tal grazia la ghermìa,

  Che figlia d'una fata esser parea,

  La quale sotto vil forma ferina

  Nascosa avesse sua beltá divina

 

  E già, bianca farfalla, avea le penne

  Spinto oltr'i fiori del secondo lustro,

  Nè vestivale ancor voto solenne

  D'aspre lane del collo il bel ligustro:

  Cresceale intonso il crine, e con perenne

  Gara le suore gliel rendean più lustro,

  Nutrendolo di odori, e in vario rito

  Attorcendone il crespo oro forbito.

 

  L'esser suo l'era ignoto, ed una muta

  Notte l'alba coprìa della sua vita:

  Come nacque e da chi? come venuta

  Era là quella piccola romita?

  Ignora se una madre avesse avuta,

  Qual fosse stata, e come là riuscita,

  E sempre invano ad indagar si prova,

  La natura del luogo, in cui si trova.

 

  Era così d'un augellin sull'ali

  Goccia sospesa di tremante brina,

  Che in sua limpida sfera agl'immortali

  Raggi del sol fa specchio e alla collina;

  Ignora nondimeno i suoi natali,

  Nè sa da qual si alzò sorgente alpina,

  Come indi al ciel salì, come fu spinta

  Sulla mobil di augello ala dipinta.

 

  Ben ne chiedeva, ma le chieste suore

  O si stringean negli omeri, o con blande

  Risposte incerte, e di nessun valore

  Si difendeano dalle sue dimande:

  Con tale alfin ridussesi, che amore

  Più che l'altre compagne aveale grande,

  Ambe le mani al collo le congiunse,

  I suoi dubbi le aperse e poi soggiunse:

 

  —Dimmi tutto, o Teresa, se tu brami,

  Che ci riceva ognor lo stesso letto,

  Che a te sola dia baci e ti richiami

  Un pò di vita su quel morto aspetto,

  Se vuoi che ratta allor che tu mi chiami

  Ti corra incontro e ti balzi sul petto,

  Che teco io canti, e facciami, siccome

  Meglio ti piace, ornar da te le chiome—

 

  L'arguto mento le stringea Teresa

  E rispondea commossa:— Eugenia mia,

  Di quel che chiedi, se io ne fossi intesa,

  Ad appagarti non sarei restia;

  Ma a che non apri la tua voglia accesa

  Alla madre che regge la badia?

  Ella ha senno maturo, ed ella sola

  Può dar risposta ad ogni tua parola—

 

  L'intende la fanciulla, e, dall'amica

  Staccandosi repente, un corridore

  Lunghissimo traversa, e dell'antica

  Madre giunge alle tacite dimore,

  La cui porta ha nel sommo una pudica

  Immagin di Maria, che tutt'amore

  All'ombra del mantel, che ampio discioglie

  Una schiera di vergini raccoglie.

 

  Resta per poco a contemplare il viso

  Delle ruvide suore, e le di neve

  Mani congiunte sotto il mento, e 'l fiso

  Occhio che di Maria la luce beve,

  E i veli così veri, che l'é avviso

  Che palpiti in quei veli un'aura leve,

  Di poi le conta, e da stupore é vinta

  Che tra lor non si trovi anche essa pinta

 

  Della badessa alfine entra la stanza,

  Dove di vita angelica e di pace

  É sola soavissima fragranza,

  E l'aria è pigra, e mesto il dì si tace;

  E lentamente e timida si avanza

  Ver lei, che a terra sopra il volto giace

  Appo i taciti letti, il seno oppressa

  Dal pensier della morte, e di se stessa:

 

  Che innanzi le pendeva infitto al muro

  Su legno polveroso un Dio morente

  E a piè di quello, un teschio arido e scuro,

  Che un tempo ebbe speranze, amori e mente;

  Or vi ordisce gli stami il ragno impuro

  Entro le cave delle luci spente;

  Cosí tra le memorie ella é romita

  Del nulla umano, e dell'eterna vita.

 

  Tacitamente ancor sulle ginocchia

  Si pone la fanciulla a lei vicina;

  Poi leva il capo, e lungamente adocchia

  Chiuso dentro la gabbia un canarino,

  Che or becca di panìco una pannocchia

  Or qua e là saltella, e al sol, che chino

  Verso il tramonto la prigion gl'indora,

  Canta un saluto e la prigion deplora.

 

  Ma, compiute le preci, in piè levosse

  L'antica donna, sulla cui severa

  Fronte parea che impresso un raggio fosse

  Vibratole dal Dio, che innanzi l'era.

  Avea di pianto le palpèbre rosse,

  E la maestà di vergine guerriera,

  Che dei mortali affetti, e della terra

  Sotto il vessil di Dio vinto ha la guerra.

 

  Vide a sè presso Eugenia, e 'l vecchio aspetto

  Parve per poco che ringiovanisse;

  Di lei sul capo con materno affetto

  Congiungendo le man, la benedisse;

  Poi pigliandola seco, e all'aer schietto

  All'aer aperto uscendo:—Andiam, le disse;

  Andiam nell'orto ed ivi i fior più cari

  Corrêmo, o figlia, per ornar gli altari—

 

  Disteso in ampio giro appo le mura

  Era il culto giardin della badìa

  Dove di beltà mille la natura,

  Vergine capricciosa, un misto offría;

  Che il suol or sorge in colle, ora in pianura

  Giace, e per tutto valli ed antri aprìa,

  Antri muscosi sul cui fondo cieco,

  Memore di sol'inni, abita l'eco.

 

  Là vedi un pergolato, ove nell'ore

  Che ha il sol varcato di suo corso il mezzo,

  Qual schiera di farfalle hanno le suore

  Il bel costume di carpirne il rezzo,

  Vi ronzan l'api, vi sussurran l'ôre,

  Mandan pampini e grappi un caro olezzo

  E 'l sol, che sulle brune uve scintilla,

  Arde men bello della lor pupilla.

 

  Levasi altrove accanto all'infecondo,

  Tristo onor della morte, atro cipresso

  Il salice, che versa gemebondo

  Le sciolte chiome, e par da duolo oppresso

  Mentre ad entrambi in suo pallor giocondo,

  Simbolo di alma pia, fiorisce appresso

  Dalle candide bacche il pingue ulivo,

  Che all'inverno contrasta e sempre è vivo

 

  L'orto divide con le garrule onde

  In molte vasche prigioniero un rio,

  Che, gremite di fiori ambo le sponde,

  Cerca fra valli sinuöse obblio:

  Ivi le suore fan nitide e monde

  Lor vesti e i lini dell'altar di Dio,

  E spesso inispecchiarsi in fondo a quelle

  Acque arrossiscon di vedersi belle.

 

  Colá ciascuna pianticella serba

  Il nome di sua vergine cultrice,

  Cresce con lei di tanto onor superba

  E, crescendo con lei, l'età ne dice,

  E le somiglia, e ne ha la grazia acerba

  Quando in Aprile ogni suo fior felice

  Par di avere a colei tutto rubato

  Dal volto il minio, e dalla bocca il fiato.

 

  Qual ape montanina, il ciel se imbianca,

  Susurrando lievissima trascorre

  La valle, cui la brina ha fatto bianca

  L'odorato suo pascolo a raccorre;

  Tale la bella Eugenia a destra e a manca

  Come librata sopra l'aura corre

  E l'erbette calcate ergon la testa

  Desiose di baciarne almen la vesta

 

  Dall'alto delle siepi il fior le fea,

  Il calice abbassando, un dolce invito

  Di esser colto da lei, che era la Dea,

  Che era la Ninfa, che l'avea nutrito;

  Ed essa, questo e quel mentre cogliea,

  Fermavasi talor, dove imbrunito

  Dall'ombra d'alte canne, ampio vivaio

  Stuol di pesci nutria minuto e gaio

 

  E or spicinando poco pan sull'onde

  Ne richiama la muta famigliuola,

  Che alza l'arcato dorso e le risponde,

  Come se ne intendesse la parola:

  Oscilla con le code tremebonde,

  Afferra l'esca avidamente e vola

  E l'auree pinne vibrando scintille

  Fan che il solcato umore arda e sfaville

 

  Sotto d'un melo intanto l'abbadessa

  Pensava a Dio, la cui bontà suggella

  Di sè tutte le cose, ed ha concessa

  Un'anima a ciascuna e una favella:

  Ogni atomo creato l'interessa,

  E tanto agli occhi suoi grande è la stella

  E tanto l'uomo quanto il musco e il fiore,

  Quanto l'insetto, che il dì vede e muore.

 

  E pensava così, mentre volare

  Mirava una dolente cardellina

  Sempre attorno a quel melo e non osare

  Per temenza di lei farsi vicina,

  E or trepida partire, ora tornare

  Or a terra posarsi, or su una spina,

  E guatare affannando imprigionati

  In quel melo i suoi figli or ora nati.

 

  Scoverti quegli uccelli avea Teresa

  E, a che non fosse il suo desio deluso

  Di possederli adulti, in gabbia appesa

  Al medesimo melo il nido chiuso,

  Dov'ora che la madre han vista e intesa

  Mettean sì acute strida oltre il lor uso,

  Che tal pietade il core le percosse,

  La venerabil madre in piè levosse.

 

  E di sé col condursi ad altro lato,

  Alla cardella tolta ogni paura,

  Questa, preso l'istante, al nido amato

  Voló qual strale rapida e sicura:

  Apron la bocca i figli in flebil piato,

  Le nude ali agitando, alla pastura,

  Mentre che per le gratole ella caccia

  Il capo, e fa che or l'uno or l'altro taccia.

 

  — Oh provvidenza! dal commosso petto

  La badessa esclamava, ah! tu pur sei

  Che della madre il nome all'augelletto

  Insegni e accendi tanto amore in lei;

  E tu sei pur che al peccator ristretto

  Nella cieca prigion dei vizi rei,

  Che di ogni spirital cibo si priva

  Mandi un raggio che il nutre, e lo ravviva—

 

  Quì viene Eugenia, e tosto a lei, che china

  Versale in grembo i giá raccolti odori,

  Chiede amorosa:—Alla Maestá divina

  É forse d'uopo di cotesti fiori?

  Ah! non son questi i fior, che egli destina

  Per la sua mensa! sono i nostri cuori!

  Ei li crea, ei gli educa, egli li cole,

  Di sua grazia gli avviva, e suoi li vuole

 

  L'edra, che a questo mazzolino è freno,

  Ad un'anima povera è simìle,

  Che strisciando sull'umido terreno,

  Luce non vide mai di biondo Aprile,

  E questo bosso, che dal crespo seno

  Alcuno non ci manda odor gentile,

  O Figlia, è l'alma mia, che a Dio non diede

  Altro che inutil voto, e steril fede.

 

  Ma vedi poi questo botton di rosa,

  Che dagli spacchi di sua verde chiostra,

  Tutta vergognosetta e timorosa

  Il minio verginal mostra e non mostra?

  Tale, Eugenia, sei tu, la cui formosa

  Faccia dei rai di Dio tutta si innostra,

  Di Dio, che scende dentro l'alma tua,

  E vi dimora come in casa sua —

 

  — Ed oh! rispose Eugenia, ed oh! se mai

  Son le fanciulle a Dio tanto dilette,

  — Perchè fanciulla ancor tu non ti fai? —

  — Perchè un tempo tal fui, nè Dio permette

  Or che torni all'età, che già lasciai —

  — Ah! dunque un giorno fia, che giovinette

  Più non sarem Teresa ed io? che avremo

  Rugoso il volto, e il crin canuto, e scemo?—

 

  —Figliuola, sì; non vedi ogni arboscello

  Ingiallire le frondi, e lentamente

  Dispogliarsene, e perdere ogni bello

  Quando torna la neve, e 'l vento algente?—

  — Sì; ma nuova beltà ripiglia quello

  Al nuovo sole, ed all'april vegnente;

  E siccome di lui, perchè fiorita

  Di noi non si rinnova anche la vita?

 

  — Rinnoverassi, ma non già quì in terra,

  Non sotto questo sole, e questo cielo,

  Ma colà, in alto, dove non fan guerra

  Dell'ostili stagioni il caldo e 'l gelo.

  — E sia così; ma quì ogni pianta serra

  Nel frutto il seme, ond'esce un nuovo stelo;

  E produrre perchè non posso anch'io

  Un nuovo viso che somigli al mio?

 

  Ben mi ho fatto una bambola, e Teresa

  Me la volle adornar di nastri e fiocchi;

  Ma ella sta muta, ma ella sta distesa,

  Ma verso non vi è mai ch'ella mi adocchi,

  Vado a dormire e dico: una sorpresa

  Certo doman farammi aprendo gli occhi;

  Ma viene la dimane e 'l suo sembiante

  Trovo come il lasciai la sera innante.

 

  — Sorrise la Badessa, e:— o Figlia, il seme,

  Rispose, che tu invidii all'arboscello,

  É dentro te, dove la Fè e la speme

  Partoriscono un frutto ognor novello.

  — O madre, no, non dissi io questo: insieme

  Possono mai prodursi il seme, e quello?

  Dell'arboscello non è il seme pria?

  Ed io che fui pria dell'infanzia mia?

 

  Come nacqui e da chi? — Da me nascesti:

  Non mi chiami tu madre? E tale io sono

  — Ah! è ver; ma dimmi: come mi facesti?

  Di questo appunto meco ognor ragiono.

  — Ecco: come una bambola tu festi

  E udir bramavi di sua voce il suono,

  Una bambola anch'io feci una volta

  E volea che si fosse a me rivolta:

 

  Onde pregai: Deh! manda un'alma, o Dio,

  A questa di mia mano opera muta;

  Ed ecco Dio dà ascolto al prego mio,

  E quella bamboletta in te si muta.

  — Madre, ma come se nel cielo era io,

  Dio volle che quaggiù fossi caduta?

  — Per amarlo, o figliuola. — E assai piú amato

  Non l'avrei forse se io gli stavo allato?

 

  Dunque noi sole quì? — Sole, o mia figlia.

  — E per noi sole tanto ciel si serra?

  Di fìor, di erbe, d'augei tanta famiglia?

  Ed oltre di quei monti, a cui si afferra

  Il ciel, curvo siccome ampia conchiglia,

  Non é forse altro cielo ed altra terra?

  — E il vuoto nulla. — E ratto la fanciulla

  Impaziente chiedeva: E dopo il nulla?

 

  Quì poi senza un compagno? Hanno un compagno

  Anco gli augelli! Quella cardellina

  La vedi, o madre? Io di pietà ne piagno,

  Nè ho cuore di mirar la poverina.

  Or che l'è chiuso il nido, odi che lagno

  Fa con l'amico suo su quella spina?

  Vé come mesti a sogguardar ci stanno.

  E di accostarsi ai figli ardir non hanno!

 

  Entro il melo io li vidi un giorno lieti

  Dei nidi affaticarsi intorno all'opra,

  Dirsi con sguardi alterni i lor secreti,

  Ed abbicarsi l'uno all'altro sopra,

  Poi cinguettare e saltellar mansueti,

  Porsi a vicenda le piume sossopra,

  Lisciarsi l'ali, e l'uno all'altro appresso

  Partire e ritornar sul ramo istesso.

 

  Io al loro bisbigliar, frenando in petto

  Il respiro, origliava, e mi piovea

  Nell'alma un malinconico diletto;

  Or perchè nulla, o madre io n'intendea?

  Eppur ben io tutto il salter mi ho letto,

  Ma di essi niun come il salter dicea.

  Che raccontano mai? La lor favella

  Apprenderò, se io fia piú grandicella?

 

  — Conoscer tanto, o Figlia, non ci è dato;

  Han pur la voce lor tutti gli augelli;

  L'arida foglia errante di aura al fiato

  Ha pur la voce sua, l'han gli arboscelli

  E l'han le mobili onde, e i fior del prato;

  Ma chi comprende come ognun favelli?

  Solo Chi degli augei contò le piume

  Dei boschi i rami, e le goccie del fiume.

 

  Al par di quegli uccelli anco un consorte

  La donna avea, che si nomava l'uomo.

  Dio l'una fece bella, e l'altro forte,

  Lieti finchè non si accostaro al pomo.

  Ma lo toccâro, e tosto entrò la morte,

  Dalla cui falce l'uom fu vinto e domo...

  — Ma, o madre, queste cose ho tutte a mente,

  Chè tu dette me l'hai così sovente.

 

  Perchè noi pure Dio non spense? —Oh! noi

  Sotto il mantello proteggea Maria;

  Ché somiglianza di natura i suoi

  Pensier pietosi verso noi nutria.

  Qui prive, o Figlia, di compagni poi

  Non siam, qual pensi; chè ove che tu stia

  E di giorno, e di notte, appo il tuo lato

  Veglia sempre un compagno innamorato.

 

  — Davvero, o madre? e chi é costui? — Deh! il mira,

  Da noi non molto lungi egli soggiorna;

  Sulla lieve del vento ala e' sospira;

  E pinge i fiori e le stagioni adorna;

  E di astri il cielo ingemma, e lo inzaffira,

  Ei vi accende la Luna, egli l'aggiorna,

  Egli ti muove il piccol cor nel petto;

  Ah? non tu vedi o figlia? È l'angioletto.

 

  Copre ognuna di noi con l'auree piume

  Un Angel, che c'insegna il primo riso,

  Delle lacrime nostre asciuga il fiume,

  E per amor di noi scorda l'eliso;

  Egli l'alma consiglia, ei le fa lume,

  La segue sempre, e non n'è mai diviso;

  Egli per noi favella al suo Signore;

  Amore è il nome suo, la voce è amore.

 

  — Madre, e chi vide mai questi angeletti?

  — Chi mai li vide? mille verginelle

  Che a te pari in età, gli onesti affetti

  A Dio serbâro di lor alme belle.

  Ma vedi che tramonta? Ora i miei detti

  Ti accendin sì, che tu somigli a quelle.

  Al nuovo giorno molte e varie cose

  Ti mostreró di quelle avventurose.

 

  Tacea quí la Badessa, e già la sera

  Un soave color di margherita

  Spargea sull'occidente, e della schiera

  Delle stelle una sola era apparita;

  E su pel cielo il sol che ascoso si era,

  Spargea tre raggi, che parean tre dita

  D'una man, che si ergea da dietro i monti

  Delle due donne a benedir le fronti.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License