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Canto 6. —
Siccome all'apparir dello sparviere
Che insidïoso in alto apre l'artiglio,
Tacciono le minori alate schiere
Isbigottite dal vicin periglio;
Ma riprendono il canto e lor maniere,
Se quei sparisce, e fan maggior bisbiglio;
Così il vergine stuolo a Dio sacrato
Parlava or risentito, or riserbato.
Ché l'ignoto Ministro, immantinente
Che Teresa gli spirti ebbe smarrito,
Nulla non parve aver più di vivente,
Qual se l'avesse un fulmine colpito.
Rimase immoto, e frettolosamente
A termine recando il sacro rito,
Uscí dal tempio, e aver sembrò paüra,
Che addosso glien crollassero le mura.
Onde su tale evento inaspettato
Or chi queste dicea, chi quelle cose,
Mentre le meno adulte a un mal frenato
Ghigno le labbra aprian maliziose,
Quando la Madre, poi che ebbe portato
Sopra le braccia tremule ed annose
La mal viva Teresa alle sue celle,
Raggiante in viso ritornò tra quelle:
—In ginocchio, gridando, o mie figliuole,
O figliuole in ginocchio! ha il ciel giá
udito
Le vostre supplichevoli parole
Per chi la via diritta avea smarrito.
Fra gli aspidi, e i leoni illesa suole
Spinger la verginella il passo ardito,
Ed oggi di una vergine a cagione
Domato v'apparì l'aspe e 'l leone.
Eh! vi rammenta di quel giovanetto,
Che, molto tempo or ha, venne qui in chiesa
Un non so che di Satana all'aspetto
Fosco mostrando, ed alla guancia accesa?
Sull'orto nostro, sopra il nostro tetto
Turbinosa parea nube sospesa,
Un famelico lupo, che col tristo
Occhio indagasse il casto ovil di Cristo.
«Oh! pregate pel folle» allor vi dissi,
E voi pregaste; ed ecco ora mutato
In angelo lo spirto degli abissi,
In agno il lupo, il turbo in dolce fiato,
Angelo, che i suoi sensi ha crocefissi,
Agno, che duce all'agne è addiventato,
Dolce aura, che l'odor, che altrove coglie,
Spande
dell'orto nostro in sulle foglie.
Voi lo vedeste; ma riconosciuto
Chi l'ha, o mie figlie? chi nell'umiltade
Raffigurò di quel vecchio, canuto
Innanzi tempo nella verde etade,
Incurvo, e fatto per divino aiuto
Sordo all'invito di mortal beltade,
Nel Padre, con cui voi vi confessaste
Il giovine, pel quale un dì pregaste?
E seguia la Badessa, e le parole
Il vergin stuolo con stupor n'udia,
Mentre Teresa sopra il letto al sole
Gli occhi serrati non ancora riapria:
Stalle d'appresso Eugenia, e se ne dole
E ogni breve con ansia atto ne spia,
Splorandone il respiro, ed il vigore
Via via crescente del pulsar del core.
Quella alfine rinvenne, e rivedendo
La luce, e la fanciulla a sè d'accanto
Attonita restò; gli occhi volgendo
Attorno attorno poi, proruppe in pianto
E bocconi sul letto, e, nascondendo
La faccia tra le coltri, e 'l proprio manto,
Torceasi e con singhiozzi e rotti accenti
Entrambi malediva i suoi parenti.
Ma, del suo maledir ratto pentita,
Pregava ella il Signor che non la udisse,
Querelandosi sol della sua vita,
E del destino acerbo, che l'afflisse.
— Forse il mertai? — sclamava, e qui l'ordita
Tela spiegando dell'età che visse,
Aurei costumi, e mesta leggiadria
Della sua vita ad ogni fil scopria.
E confrontando tanta sua innocenza
Con la sorte crudel, che sì l'oppresse,
Pensava (e impallidia) che indifferenza
Fra male e ben, tra pene e premio stesse;
Onde accusando ognor la Provvidenza
Fuor dagli occhi mettea lacrime spesse,
Amare sì, che meno amara è l'onda,
Nel cui sen velenosa erba si asconda.
Ma tosto allor pareale di vedere
Passar volando un angelo splendente
Fra il fosco turbinio del suo pensiero,
E parlarle così, soavemente:
— Stolta! a che piangi? forse per avere
Visto il compagno di tua età fiorente?
Ah! un grandissimo onor certo ti è fatto
L'essere innanzi a lui svenuta a un tratto.
E che pensato avrà di questa tua
Fragilitade indegna, ei, nel cui core,
Per la tua vista, or il piacer si addua
Di aver tronco per Dio qualunque amore?
Ben altro ei s'attendea da questa sua
Amante antica: eroica fè, valore,
Generoso sentire, animo pio,
Che vola oltre la terra, e posa in Dio —
A queste voci, come la procella,
Poichè disparve, il ciel divien più terso,
Così dopo le lacrime più bella
Le si fa l'alma, e scorda il fato avverso;
Onde ratto sciogliendosi da quella
Coperta, in cui teneva il viso immerso,
Si leva su le braccia, e la man stende
Alla fanciulla, che a baciar la prende.
Ella, finchè plorato avea Teresa,
Era, lieve incurvandosi su lei,
Stata in mesto silenzio, e tutta intesa
A interpetrarne i moti, e i tronchi omei,
Ond'ora a rivederla senz'offesa
Girar gli sguardi rugiadosi a lei,
Se ne distacca, accosto le si asside,
E si terge le lacrime, e sorride.
Ma l'altra nel fermar lo sguardo in essa,
Muta colore, e saltando dal letto
Con sollecita cura se l'appressa,
E le domanda piena di sospetto:
— Or che hai, sorella, che non sei piú dessa?
Tu tremi ahimé! tu muti ahimè l'aspetto!
Nulla a Teresa tu rispondi? O cielo!
Dove ti duole? perché sei di gelo?—
— Non temer, le risponde la fanciulla,
Ho quì (e la gola si toccò) un dolore;
Ho quì una spina (e la man pose sulla
Parte del petto, dove batte il core);
L'ho tra le spalle ancor, ma non è nulla,
Passerà presto questo po' d'algore:
Ah! non starti così con tanta pieta,
Vé, Teresa, che io rido, e sono lieta —
Non così madre sull'amata testa
Palpita di amatissima figliuola,
Per cui la nuzial corona è intesta,
E speranza è dei lari unica e sola;
Non così tortorella alla tempesta
Sotto dell'ali i parti implumi invola,
Come duolsi Teresa, e stassi sopra
Alla fanciulla, e attorno a lei s'adopra.
La pon sul letto, e 'l letto rincalzando,
Di soffici origlieri un'alta sponda
Leva da entrambi i lati collocando
Perchè un grato tepor se ne diffonda;
Or bianco lino entro il licor tuffando
Di olenti spirti, a lei le tempie inonda;
Ora sui piè, da stupido gel colti,
Caldi panni le stende al fuoco tolti.
Qual arboscello, per le cui radici
Abbia il rivo veleno acre condotto,
Verdi le cime ancor spiega e felici,
Benchè da piede sia risecco e cotto;
Ma tosto che le vene apportatrici
Più su si fanno dell'umor corrotto,
Cadono all'improvviso e frondi e fiori,
E 'l suol stupisce sui perduti onori;
Tal era Eugenia; ché non stette molto
E divampando in lei l'interno fuoco,
Le accelera il respir, le rende il volto
Turgido, rosso ed il parlar più fioco;
Or torbo le fa l'occhio, ora stravolto,
E sì l'affanna, che trovare un loco
Dove alquanto riposi ella procaccia,
Ma invan, gittando qui e colà le braccia.
Piange Teresa, ed al suo pianto accorre
Sbigottita la vergine famiglia:
Chi in questo, e chi in quel modo la
soccorre,
Chi questa cosa, chi quella consiglia,
Vi ha chi l'impaccio delle vesti torre
Vorria all'inferma, ed a spogliar la piglia;
Ma l'ammalata a sé Teresa appella,
E tiensi stretta al sen la tonacella:
— Non far che me la levino, le dice,
Me l'ho messa da ieri! — e poi soggiunge:
— E se muoio, non piangermi: non lice
Piangere chi con Dio si ricongiunge.
Quando sarò del ciel abitatrice,
Credi tu forse ch'io da te sia lunge?
Invisibil vedró quel che tu fai:
Giurami dunque che non piangerai —
Ma Teresa piangea. Quando fu sera
Calmò la smania, ed il febbrile ardore,
Tornó all'inferma la beltà primiera,
Anzi un novello insolito splendore;
Onde con sorridente e lieta cera
Vôltasi a tutte le compagne suore,
Le pregò di star chete, e poi lo stanco
Corpo adagiò sopra il sinistro fianco.
Come innocenti candidette agnelle,
Se alcuna di esse fu dal lampo attinta,
S'accalcan tutte e l'una l'altra impelle,
E taciturne stan sopra l'estinta;
Come se da improvvise atre procelle
D'un bellissimo dì la luce é vinta,
Nubi tinte di rose e di viole
Fanno corona, pel tramonto, al sole;
Mute cosi, così pensose e meste
Dell'egra il letto cingono le suore,
Cui quella calma é nunzia di tempeste,
E del mal che temeasi un mal maggiore.
Una soltanto avvien che manifeste
Segni di gaudio nel comun dolore,
Ed è colei, la cui prudenza regge
Quel dedicato a Dio virginio gregge,
La qual, come fu notte alta e profonda,
Dando a tutte le monache commiato,
Con Teresa riman, che all'altra sponda
Sedea del letto in atto addolorato,
E nel cui cor tanta vergogna abbonda
Del mattino pel caso inopinato,
Che aggirarsi finora fu veduta
Tra le compagne sue confusa e muta.
Ond'or crescendo il turbamento in essa
Per trovarsi con lei rimasta sola,
Ne gode in suo secreto l'abbadessa,
E atto crede quel tempo a un'util scola;
Però sì accorta, e con voce sommessa:
— Come sta (le dimanda) la figliuola? —
— Dorme (l'altra risponde) e quella: — Oh! resti
Così per sempre e solo in ciel si desti —
— O madre, esclama subito Teresa,
Che crudi voti! — Ma colei ripiglia:
— Taci, sai tu quest'anima, che attesa
É lassù in cielo di chi mai sia figlia?
Sul medesimo letto, ov'ella è stesa,
Morte alla madre sua serrò le ciglia;
Ma, oh giudizio terribile di Dio!
Perchè qual muor costei la non morio?
E mentre della lampa il mobil raggio
Fa mill'ombre danzar sopra le mura,
Mentre in procinto dell'estremo viaggio
Dormia la bella vergine secura,
Mentre tacea il convento, ed il selvaggio
Urlo del vento empia la notte oscura;
Porgea Teresa con tremor l'orecchia
Al dir solenne dell'austera vecchia.
— Gabriella, ripigliò la vecchia a dire,
Avea vent'anni, e la funesta dote
Di ciò che di più bello a rinvenire
O immaginare insieme mai si puote.
Nella prossima terra, in che, a salire
Questa nostra montagna, altre percote,
E che dei Luzzi appellasi, era nata
Da casa non men ricca, che onorata.
Sola e senz'altra compagnia quassuso
Un giorno l'empio padre la traea,
Recando del prelato un foglio chiuso,
Che di tosto velarla m'imponea,
Mio malgrado obbedii perchè un abuso
Quella sùbita fretta a me parea;
Ma chiesi tempo invan, chè già la faccia
Di suo padre atteggiavasi a minaccia.
Funesto dì, non mi uscirai di mente!
Spontaneo il suo venire ella dicea,
Spontaneo l’atto; e pure (ah! io l'ho
presente!)
In così dire tremava e piangea,
Tremava come vittima impotente,
Ed il tremor dissimular dovea;
Ma quando a Dio per sempre si promise,
Piombó priva di sensi, e il padre rise.
Presto conobbi, ahimè! ch'ella non era
Vocata affatto, e che le amiche suore,
Fra le quali parea come straniera,
E 'l nostro monastero avea in orrore:
Pure sperai che il tempo, la preghiera,
L'altrui consiglio e il mio materno amore
Quell'anima acquistata avriano a Dio;
Ma alquanto s'ingannava il creder mio.
Non lacrima, non riso era in quel volto,
Non colore, non moto: ombrosa e muta
Assisteva a la chiesa; il cupo, il folto
Dell'orto amava e del convento; e astuta
L'inchieste ad ingannar, l'irava molto
Di esser cercata, seguìta, o veduta,
Solendo all'altre monache involarsi,
Girovagare intorno, e sola starsi.
O mia cara Teresa, alme ben ci hanno,
Che percosse da Dio fansi devote:
Ma altre, quanto più battonsi, si fanno
Tanto più tristi e da virtù remote;
Dal fulmin tocche alcune rupi vanno
Rotte in ischegge, restan l'altre immote;
Piglian del ferro la durezza bruna:
E di tai rupi, ahimè, Gabriella er'una.
E ne pregavo Iddio tutte le sere,
Quando una notte vision mi scese
Sul capo, orrenda. Mi parea vedere
Come Gabriella l'ali avesse prese
D'una colomba con le penne nere,
Fuligginose, a ratto vol distese,
Mentre vociando con lugubre metro
Ansioso un corvo le correva dietro.
Inorridita, quando si fè giorno,
Cercandola, nell'orto la trovai,
Dove vagava ai pergolati attorno,
E molte cose di Dio le parlai,
Commemorando l'immortal soggiorno,
L'infernal pena, che non fina mai,
La vanità d'ogni terren desio,
La pace che si trova amando Dio;
E soggiunsi: — A che taci e non m'adocchi?
Ond'ella dopo avere fiso fiso
A lungo sopra i miei tenuto gli occhi
E fattomi di scherno un lieve riso,
Risposemi: — Non so dove tu tocchi
Col tuo discorso e qual tu t'abbia avviso;
Ma al par di tutte l'altre tue sorelle,
Ben so tai cose. Ah! son pur cose belle!—
Sospirando ripiglio: — E a che, Gabriella,
Selvaggia e muta vivi tra di noi?
Ti pesa il mondo che lasciasti? — Ed ella:
— Anzi lieta ne son; veder lo vuoi? —
E quì piglia a cantare una novella
D'amor profano, e i versi erano suoi;
Io l'interrompo immantinente, e dessa
Esclama sogghignando: — Ah! mia badessa! —
Allor dall'ampia valle non discosta
Dal bosco che circonda la badia,
S'ode un'altra canzon, la qual risposta
Alla canzon di lei sembra che sia.
Ella l'ascolta, nè tener nascosta
Puote la gioia, e suo contegno obblia,
Ma ricompone a gravità le ciglia,
Segni vedendo in me di meraviglia.
Poi quando quel lontan canto si tacque:
«È l'Eco, o cara madre, a dir riprende,
L'Eco, che la canzon, che a te dispiacque,
Si pigliò con amore, e me la rende;
Ma di': davver la mia canzon ti spiacque?»
Ed ecco in questa rimbombar s'intende
Di latrati la selva, a cui si mischia
L'acuto suon di cacciator che fischia.
Ci guardammo ambedue; poi dissi:—Oh rio
Tempo ch'è il nostro! Dunque un vagabondo
In questi luoghi consacrati a Dio,
Osa portar le vanità del mondo?
Che cerca ei quì? «Per lui dirottel io,
Ella risponde: credi tu che in fondo
A queste selve non si nascondesse
Nessuna fiera ch'ei cacciar potesse?
Oh mia Teresa! certo l'intelletto
D'ogni buon'opra l'avversario antico
Fatta cieca m'avea! di quel suo detto
Ah! perchè non compresi il senso oblico?
Qual già d'intorno ad Eva, il maledetto
Il suo quì fea sentir fischio impudico;
Benchè in modo diverso: era Gabriella
Com'Eva infida, e com'Eva pur bella.
E ascolta, e fremi! Della sagrestia
Al governo preposta, ella per sorte
Era ragion che avesse in sua balia
Le
chiavi della chiesa, e delle porte;
Quando un mattino entrò la cella mia,
E a me parve veder entrar la morte;
Sì pallida, o Teresa, ell'era, e tanto
Gli occhi avea gonfi pel recente pianto.
Mi consegnò le chiavi, ed esser tolta
Al suo ufficiò bramó, nè gliel negai;
Ma quando altrove uscendo si fu vôlta,
Io scendo nella chiesa; e che trovai?
Trovai la suppellettile sconvolta,
A rifascio gittata, e mi arrestai
Attonita; ma che? più innanzi a gire,
Ebbi cagione di vie piú stupire.
Gittata a terra con le sacre bende
Di nostra madre la statua giacea,
Che nel passaggio angusto, che si stende
Tra il muro e il corno dell'altar sorgea.
Le membra a quella vista orror mi prende,
E i miei passi rifó, perchè io volea
In quel medesmo istante, e ad ogni patto
Da lei sapere la cagion del fatto.
Ma già rinchiusa l'infelice s'era
Nella sua cella pertinacemente,
Nè forza di minaccia o di preghiera,
O d'inedia durata lungamente,
Valse a far sì che quell'anima fera
Ci rispondesse almen cortesemente;
Onde di noi ciascuna era sospinta
A giudicarla o forsennata o estinta.
Ed erano così tre giorni scorsi,
Quando una sera giunsene improvviso
Il padre, a cui non utili rimorsi,
Ma odii e cupi rancor leggeansi in viso.
Cercommi di sua figlia; e io a lei lo scorsi,
E di quanto seguia gli detti avvìso;
Ond'ei ne venne all'uscio, e lo colpio
Fortemente gridando: «Apri, son io».
Allora dall'interno al suon feroce
Risponder s'ode un gemito affogato,
Qual se il cor ch'avea spinto quella voce,
Per quella voce fossesi spezzato.
Apresi l'uscio, e con le mani in croce
N'esce la figlia innanzi al padre irato
Che con moto di man, subito, crude
Ricacciala entro, e insiem con lei si chiude.
E io stando fuori sbalordita e mesta
Origliava, ed udiva un parlar basso,
Un bestemmiar confuso, una tempesta
Di sospir tronchi, un faticoso passo.
«Ov'é?» chiedeva il padre ed all'inchiesta
Seguia cupo silenzio, indi un fracasso,
Indi il cader d'un corpo, indi un frequente
Ansare; e dopo, io non udia più niente.
Finalmente egli n'esce, ed a me dice:
«Per sciagure domestiche insensata
Dal
dolore è mia figlia: io l'infelice,
Perché tentava uccidersi, ho legata.
«A te l'affido, a me più star non lice»;
E parlando così, s'accommïata;
Scendo con lui, gli apro le porte, ed esso
Si caccia nella selva a noi d’appresso.
Io attonita risalgo, e lei ritrovo
Che tutta si torcea stesa per terra
Cercando un laccio a scior, che in modo nuovo
Le man, la bocca, ed ambi i piè le serra.
Io a sciogliere quei nodi invan mi provo,
Alfin li taglio, ed ella a me s'afferra
Saltando in piè; si morde il labro a sangue,
Libra la lingua rapida com'angue:
«Ei me l'ucciderà; me piglia pria
Morte ed inferno!» esclama la furente,
E di mano sgusciandomi va via
Per la finestra rovinosamente.
Corre, vola per l'orto, e ne salia
Già l'alte mura, e ne scendea repente,
Quando il cupo tonare ad una volta
Di due fulminatrici armi s'ascolta.
Un urlo eleva allor la sventurata
Qual credo che il piú bell'angel di Dio
Mettesse quando su di sè piombata
Tutta del duol l'eternitá sentio.
Ruggì qual rugge l'anima dannata,
Che di sue colpe va a pagare il fio.
Al par dell'uno, al par dell'altra apparve,
Fatta tutta di fuoco, e poi scomparve.
Ed oh! del grand'Iddio bontà infinita!
Chi mai dopo gli orror di quella sera
Potea sperar che a spander luce e vita
Ripreso avrebbe il Sol la sua carriera?
Eppure la riprese, eppur fiorita
La terra riapparì come prim'era,
Sebbene al ciel di sangue umano il fumo,
Salisse
dei suoi fior misto al profumo.
Chè nato il nuovo dí, nella foresta,
Il padre ed un garzon trovammo estinto;
Stringeano l'armi ancora, e manifesta
Facean l'ira ch'entrambi avea sospinto:
L'uno colpito al cor, l'altro alla testa
D'un soave pallore era dipinto
E gli piangeano attorno i fidi cani
Or fiutandogli il viso, ora le mani.
Dopo quel caso nove volte avea
In ciel la luna rinnovato il corno;
E poiché null'affatto s'intendea
Dell'apostata donna in quel dintorno,
N'era dal cor caduta, e si credea
Che vinto avesse già l'ultimo giorno,
Vinta dalla stagion, ch'aspre di gelo
Le campagne avea fatto e grigio il cielo
Quando una notte che dormia il convento,
Ed io memor di lei per lei pregava,
Odo, tra il freddo sibilar del vento
Che le chiuse finestre ci schiantava,
Una voce di femmina, un lamento,
Che da laggiú della badia s'alzava;
Scendo le scale, ratta accorro fuori,
E pensa or tu quello che vidi allora.
Terso qual suole nel più freddo inverno,
Scintillante per mille astri, e pel pieno
Disco lunar, faro d'un mondo eterno,
Si curvava alla terra il cielo in seno,
Che coperta di nevi, ove il superno
Fulgor feria con reduce baleno,
Parea l'ago bianchissimo di cui
Fosse scoglio il convento, e cigni nui.
A piedi del cipresso, onde riceve
Ombra l'atrio del tempio e la sua croce,
Vidi allora una donna in sulla neve
Seduta in attitudine feroce,
Feroce e stanca, come di cui greve
Disperato dolor l'animo cuoce,
La quale contemplava amaramente
Quel riso, in terra e in ciel sparso
egualmente.
Alla mia voce si riscuote e ratto
Sulle nevi strisciandosi carpone,
D'accostarmisi prova; ma ad un tratto
Le vien meno la forza, e va boccone.
Allora, e fu così pietoso l'atto
Che la memoria innanzi ognor mel pone,
Erse il viso, mostrando al viso afflitto,
Che grave il grembo avea del suo delitto.
Tosto a quel viso benché scolorato,
Benchè per fame e duol tutto sparuto,
Riconobbi Gabriella, che gridato
Avea dianzi col vento, e chiesto aiuto:
«Dunque sei tu, figliuola del peccato?
Dunque sei tu, dal cielo angiol caduto?
Sei tu d'inferno velenoso acquisto?
Sei tu, tu sposa adultera di Cristo?»
Cosi le dissi, ed ella: «O madre mia,
Se credi in Cristo, e al par di me tradire
Nol vuoi, per pochi istanti asil mi dia
Il tuo convento. A me non cal morire,
Nè dov'o muora, no; ma in breve sia
Ch'io qui mi sgravi. Lascerai perire
Tu la mia prole? Già qual duol d'inferno
M'ange, sicché mi uccide il duol materno».
O mia Teresa, fu su questo letto,
Dov'ora giace Eugenia addormentata
Che nacque Eugenia! Con insano affetto
A sé la trasse appena che fu nata,
Ed anelando, e lagrimando al petto
Se la serrò la madre sventurata;
Fissandola con l'occhio moribondo,
Mesto per lasciar lei, ch'era il suo mondo.
Poi me la porge, e mentre io me la prendo:
«Ecco, dice, mia figlia, a te l'affido;
Nè quì, né altrove rivederla attendo;
Da lei per tempo eterno or mi divido,
Abbia in te la sua madre: io la commendo
Alle tue cure. A me fu il mondo infido,
E or che ne sono sull'estremo passo
Veggio la vanità di quel che lasso.
E mi giura però che tal cresciuta
Sarà la figlia mia, che la sua mente
Ignori il mondo e l'uom; le sia taciuta
L'origin sua; non sappia parimente
Me, ed il mio nome: non sarò veduta
Da lei nell'altro mondo certamente.
Or io scendo all'inferno, ell'andrà a Dio:
Onde a che pró saprebbe il nome mio?»
Gabriella, io dissi, se così ti pesa
Separarti da questa orfana figlia,
Ecco il confitto Dio, ch'ogni sua offesa
Ti perdona, e a pentirti ti consiglia,
Invocalo: nel ciel ti sarà resa
Questa fanciulla ch'or da te si piglia:
Se tu contrita gliene dai la cura
Da questo mondo puoi partir sicura»
Ed ella: «Di' al tuo Dio che parli ei stesso;
O ha bisogno d'interpetre? Od ignora
La mia favella? Ciò credetti io spesso
Quando rea, sì, ma non caduta ancora
In forza gli chiedea pel cuore oppresso;
Perchè fu sordo, nè m'intese allora?
Da me or che vuole? Quel ch'è fatto è fatto;
Non con lui, con Satanna ora è il mio patto.
Vuol ch'io mi penta? Ah! non avrà tal vanto.
Era una notte; a turpi affetti schiava
Sentiami l'alma; dormivate, e intanto
Il mio fallo a compir m'incamminava;
Giungo alla chiesa; passar debbo accanto
All'ara, a Santa Chiara; il piè m'aggrava
Un subito terror; dubbio, m'arresto...
Oh inferno! ancora era il mio core onesto.
Io non cadeva, o madre, io non cadea,
S'allora un guardo, un cenno, un movimento
In quella statua, o madre mia, vedea.
Essa stié immota? Ed io passo, e divento
Contaminata; ma al tornar ch'io fea
Di nuovo accanto a lei la sua man sento
Affogarmi la gola. Oh maledetto!
D'un mal, che tor potea, togliea vendetta!
Madre, io la rovesciai, lottai con lei,
Com'ora lotto, e fo spietata guerra
Con l'alma mia, la qual scagliar vorrei
Oltre i confin del cielo e della terra.
Ora vadano al nulla i pensier miei,
Nè curo il loco, ch'otterró sotterra.
Non avró forse, se all'inferno cado,
Requie nel fondo? Dove vado, vado.
Si; dove vado, vado: assai soffersi,
E una pace sarà per me l'inferno.
Per nove mesi nei boschi mi spersi,
D'erbe solo nutrita in crudo verno.
Vissi tra fiere; i miei pensier pur fersi
Selvaggi, non curanti dell'Eterno;
E pur tutto ero nata per amare,
E bello era per me ciel, terra, e mare.
Ed or tutt'odio, e d'odio m'alimento;
Vorrei che terra e ciel crollasse meco.
Se amore eterno rende il ciel contento,
L'odio rallegra al par l'abisso cieco,
Com'or felicità non avrò drento,
S'odiar potrò dal luogo ove mi reco?
Griderò contro il cielo e chi l'ha fatto,
Maledirò quel Dio, che a tal m'ha tratto»
Così quell'infelice, o mia Teresa,
Moria maledicendo, o maledetta.
Oh tristo fine di chi al mondo intesa
Turpe fiamma d'amore ebbe concetta!
Or tu al Signore, che per man t'ha presa,
E sollevata fuor da quest'infetta
Val del mondo, che obbligo non hai?
Quai grazie non dei dar, che tu non dai? —
Qui tacque la Badessa, e si piacea
Della buona Teresa, che ascoltato
Or lacrimando, ed or fremendo avea
Dell'apostata suora il tristo fato.
Per gli spiragli intanto ivi rompea
Il primo raggio del mattin rosato,
E s'estinguea, guizzando, a poco a poco
Della notturna lampa il lume fioco.
Onde Teresa, la finestra aperta
Al lustro adulto della nuova aurora,
S'accosta al letticciòlo, ove coverta
Crede l'Eugenia sua che dorma ancora;
La contempla, la palpa, e: — Oimè, diserta!
O madre, esclama, ahi che di vita è fuora! —
Dice, e del letto cade sulle sponde,
E la Badessa: — Grazie a Dio! — risponde.
Al grido di Teresa accorre presto,
Indovina del caso ogni sorella,
E sul guanciale la riversa testa
Rimirando di lei fatta più bella,
Divien di marmo, e bianca e fredda resta
Priva di movimento e di favella,
Finchè volar vedendo a sè d'accanto
Una farfalla, scoppian tutte in pianto.
Perocchè, fosse caso, ovver divino
Volere, quivi una farfalla apparse:
Pria girò per la stanza, e 'l peregrino
Volo sopra Teresa andò a librarse,
Indi spiccossi; al raggio porporino
Del mattin corse incontro, e via disparse;
Attonito affacciossi il vergin stuolo
Alla finestra, e ne seguiva il volo.
— Che guardate, o figliuole? E’ dessa, é dessa;
Sei tu, della mia Eugenia alma innocente,
Che al regno eterno ove il gioir non cessa
Spingi con lieve vol l'ala fulgente. —
Così dice soltanto la Badessa,
E 'l verginale stuolo a lei credente
Torna ad Eugenia, e volti gli occhi al cielo
Ne asciugano le lagrime col velo.
Di poi desiando l'osservanze estreme
Rendere a chi fu lor delizia e cura,
S'affretta ognuna, a tutte l'altre insieme,
E di vestirla, e di adornar procura.
Chi con serto di rose il crin le preme,
Chi un crocefiso ponle alla cintura,
Chi del feretro alluma attorno attorno
Candide cere a fare più bello il giorno.
A quel ferétro si sobbarcan preste
Quattro fanciulle, ed anche a te vien dato
Aver loco, o Teresa, in mezzo a queste,
E sottopor le spalle al peso amato.
Con occhi bassi l'altre suore meste
Precedono in lungo ordine serrato,
Mentre che la Badessa eleva un canto,
Cui risponde lo stuolo tutto quanto:
Sia il canto sommesso — sia il passo leggero,
Perché non si svegli — quest'angelo vero,
Perchè non si svegli — dal sonno profondo
La bella fanciulla — che parte dal mondo.
Qual ape dorata — su candida rosa
Un angiol nell'alma — di lei si riposa,
Riposa e passarle — fa innanzi alla mente
D'amabili sogni — una schiera ridente;
Di sogni soavi, — siccome i sottili
Dell'aurea sua chioma — lunghissimi fili,
Che il Sol tramontando — per nuvole opposte
Dardeggia alle valli — dardeggia alle coste.
Or sogna elevarsi — con placidi giri
Pel cielo, e sul cerchio — danzare dell'Iri,
Di concava nube — formarsi un battello,
E andare da un mondo — a un mondo piú bello.
Or sogna che un angelo, — scuotendo le sfere
Glien faccia su capo — le stelle cadere,
Ed una all'orecchio — un pendente gentile,
E dieci le formino — alla gola un monile.
Or sogna rapire — dell'alba il mantello,
Aver sotto i piedi — la luna a sgabello,
Vestirsi una veste — di rose e di viole,
In man palleggiare — lo globo del sole.
Felice, chè vere — ritrova al destrarse
Le immagini belle — nel sogno comparse!
Felice, chi il letto — dov'era addormita
Cercando, si trova — con Cristo riunita!
Sia il canto sommesso — sia il passo
leggiero,
Perchè non si svegli — quest'angelo vero;
Perché
non si svegli — dal sonno profondo
La bella fanciulla — che parte dal mondo.
Ed io, seduto un dì sulle rovine
Dell'antica badia, chiedeva attento
All'eco delle selve, che vicine
Mesceano i lor sospiri a quel del vento,
Il
suono ancor di tai voci divine,
E apparire sparire in un momento
Vidi quai larve quelle suore, e dissi:
Quanto son vaghe! e la lor storia scrissi.
FINE
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