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Vincenzo Padula
Il Monastero di Sambucina

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  • — Canto 6. —
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— Canto 6. —

 

  Siccome all'apparir dello sparviere

  Che insidïoso in alto apre l'artiglio,

  Tacciono le minori alate schiere

  Isbigottite dal vicin periglio;

  Ma riprendono il canto e lor maniere,

  Se quei sparisce, e fan maggior bisbiglio;

  Così il vergine stuolo a Dio sacrato

  Parlava or risentito, or riserbato.

 

  Ché l'ignoto Ministro, immantinente

  Che Teresa gli spirti ebbe smarrito,

  Nulla non parve aver più di vivente,

  Qual se l'avesse un fulmine colpito.

  Rimase immoto, e frettolosamente

  A termine recando il sacro rito,

  Uscí dal tempio, e aver sembrò paüra,

  Che addosso glien crollassero le mura.

 

  Onde su tale evento inaspettato

  Or chi queste dicea, chi quelle cose,

  Mentre le meno adulte a un mal frenato

  Ghigno le labbra aprian maliziose,

  Quando la Madre, poi che ebbe portato

  Sopra le braccia tremule ed annose

  La mal viva Teresa alle sue celle,

  Raggiante in viso ritornò tra quelle:

 

  —In ginocchio, gridando, o mie figliuole,

  O figliuole in ginocchio! ha il ciel giá udito

  Le vostre supplichevoli parole

  Per chi la via diritta avea smarrito.

  Fra gli aspidi, e i leoni illesa suole

  Spinger la verginella il passo ardito,

  Ed oggi di una vergine a cagione

  Domato v'apparì l'aspe e 'l leone.

 

  Eh! vi rammenta di quel giovanetto,

  Che, molto tempo or ha, venne qui in chiesa

  Un non so che di Satana all'aspetto

  Fosco mostrando, ed alla guancia accesa?

  Sull'orto nostro, sopra il nostro tetto

  Turbinosa parea nube sospesa,

  Un famelico lupo, che col tristo

  Occhio indagasse il casto ovil di Cristo.

 

  «Oh! pregate pel folle» allor vi dissi,

  E voi pregaste; ed ecco ora mutato

  In angelo lo spirto degli abissi,

  In agno il lupo, il turbo in dolce fiato,

  Angelo, che i suoi sensi ha crocefissi,

  Agno, che duce all'agne è addiventato,

  Dolce aura, che l'odor, che altrove coglie,

  Spande dell'orto nostro in sulle foglie.

 

  Voi lo vedeste; ma riconosciuto

  Chi l'ha, o mie figlie? chi nell'umiltade

  Raffigurò di quel vecchio, canuto

  Innanzi tempo nella verde etade,

  Incurvo, e fatto per divino aiuto

  Sordo all'invito di mortal beltade,

  Nel Padre, con cui voi vi confessaste

  Il giovine, pel quale un dì pregaste?

 

  E seguia la Badessa, e le parole

  Il vergin stuolo con stupor n'udia,

  Mentre Teresa sopra il letto al sole

  Gli occhi serrati non ancora riapria:

  Stalle d'appresso Eugenia, e se ne dole

  E ogni breve con ansia atto ne spia,

  Splorandone il respiro, ed il vigore

  Via via crescente del pulsar del core.

 

  Quella alfine rinvenne, e rivedendo

  La luce, e la fanciulla a sè d'accanto

  Attonita restò; gli occhi volgendo

  Attorno attorno poi, proruppe in pianto

  E bocconi sul letto, e, nascondendo

  La faccia tra le coltri, e 'l proprio manto,

  Torceasi e con singhiozzi e rotti accenti

  Entrambi malediva i suoi parenti.

 

  Ma, del suo maledir ratto pentita,

  Pregava ella il Signor che non la udisse,

  Querelandosi sol della sua vita,

  E del destino acerbo, che l'afflisse.

  — Forse il mertai? — sclamava, e qui l'ordita

  Tela spiegando dell'età che visse,

  Aurei costumi, e mesta leggiadria

  Della sua vita ad ogni fil scopria.

 

  E confrontando tanta sua innocenza

  Con la sorte crudel, che sì l'oppresse,

  Pensava (e impallidia) che indifferenza

  Fra male e ben, tra pene e premio stesse;

  Onde accusando ognor la Provvidenza

  Fuor dagli occhi mettea lacrime spesse,

  Amare sì, che meno amara è l'onda,

  Nel cui sen velenosa erba si asconda.

 

  Ma tosto allor pareale di vedere

  Passar volando un angelo splendente

  Fra il fosco turbinio del suo pensiero,

  E parlarle così, soavemente:

  — Stolta! a che piangi? forse per avere

  Visto il compagno di tua età fiorente?

  Ah! un grandissimo onor certo ti è fatto

  L'essere innanzi a lui svenuta a un tratto.

 

  E che pensato avrà di questa tua

  Fragilitade indegna, ei, nel cui core,

  Per la tua vista, or il piacer si addua

  Di aver tronco per Dio qualunque amore?

  Ben altro ei s'attendea da questa sua

  Amante antica: eroica fè, valore,

  Generoso sentire, animo pio,

  Che vola oltre la terra, e posa in Dio —

 

  A queste voci, come la procella,

  Poichè disparve, il ciel divien più terso,

  Così dopo le lacrime più bella

  Le si fa l'alma, e scorda il fato avverso;

  Onde ratto sciogliendosi da quella

  Coperta, in cui teneva il viso immerso,

  Si leva su le braccia, e la man stende

  Alla fanciulla, che a baciar la prende.

 

  Ella, finchè plorato avea Teresa,

  Era, lieve incurvandosi su lei,

  Stata in mesto silenzio, e tutta intesa

  A interpetrarne i moti, e i tronchi omei,

  Ond'ora a rivederla senz'offesa

  Girar gli sguardi rugiadosi a lei,

  Se ne distacca, accosto le si asside,

  E si terge le lacrime, e sorride.

 

  Ma l'altra nel fermar lo sguardo in essa,

  Muta colore, e saltando dal letto

  Con sollecita cura se l'appressa,

  E le domanda piena di sospetto:

  — Or che hai, sorella, che non sei piú dessa?

  Tu tremi ahimé! tu muti ahimè l'aspetto!

  Nulla a Teresa tu rispondi? O cielo!

  Dove ti duole? perché sei di gelo?—

 

  — Non temer, le risponde la fanciulla,

  Ho quì (e la gola si toccò) un dolore;

  Ho quì una spina (e la man pose sulla

  Parte del petto, dove batte il core);

  L'ho tra le spalle ancor, ma non è nulla,

  Passerà presto questo po' d'algore:

  Ah! non starti così con tanta pieta,

  Vé, Teresa, che io rido, e sono lieta —

 

  Non così madre sull'amata testa

  Palpita di amatissima figliuola,

  Per cui la nuzial corona è intesta,

  E speranza è dei lari unica e sola;

  Non così tortorella alla tempesta

  Sotto dell'ali i parti implumi invola,

  Come duolsi Teresa, e stassi sopra

  Alla fanciulla, e attorno a lei s'adopra.

 

  La pon sul letto, e 'l letto rincalzando,

  Di soffici origlieri un'alta sponda

  Leva da entrambi i lati collocando

  Perchè un grato tepor se ne diffonda;

  Or bianco lino entro il licor tuffando

  Di olenti spirti, a lei le tempie inonda;

  Ora sui piè, da stupido gel colti,

  Caldi panni le stende al fuoco tolti.

 

  Qual arboscello, per le cui radici

  Abbia il rivo veleno acre condotto,

  Verdi le cime ancor spiega e felici,

  Benchè da piede sia risecco e cotto;

  Ma tosto che le vene apportatrici

  Più su si fanno dell'umor corrotto,

  Cadono all'improvviso e frondi e fiori,

  E 'l suol stupisce sui perduti onori;

 

  Tal era Eugenia; ché non stette molto

  E divampando in lei l'interno fuoco,

  Le accelera il respir, le rende il volto

  Turgido, rosso ed il parlar più fioco;

  Or torbo le fa l'occhio, ora stravolto,

  E sì l'affanna, che trovare un loco

  Dove alquanto riposi ella procaccia,

  Ma invan, gittando qui e colà le braccia.

 

  Piange Teresa, ed al suo pianto accorre

  Sbigottita la vergine famiglia:

  Chi in questo, e chi in quel modo la soccorre,

  Chi questa cosa, chi quella consiglia,

  Vi ha chi l'impaccio delle vesti torre

  Vorria all'inferma, ed a spogliar la piglia;

  Ma l'ammalata a sé Teresa appella,

  E tiensi stretta al sen la tonacella:

 

  — Non far che me la levino, le dice,

  Me l'ho messa da ieri! — e poi soggiunge:

  — E se muoio, non piangermi: non lice

  Piangere chi con Dio si ricongiunge.

  Quando sarò del ciel abitatrice,

  Credi tu forse ch'io da te sia lunge?

  Invisibil vedró quel che tu fai:

  Giurami dunque che non piangerai —

 

  Ma Teresa piangea. Quando fu sera

  Calmò la smania, ed il febbrile ardore,

  Tornó all'inferma la beltà primiera,

  Anzi un novello insolito splendore;

  Onde con sorridente e lieta cera

  Vôltasi a tutte le compagne suore,

  Le pregò di star chete, e poi lo stanco

  Corpo adagiò sopra il sinistro fianco.

 

  Come innocenti candidette agnelle,

  Se alcuna di esse fu dal lampo attinta,

  S'accalcan tutte e l'una l'altra impelle,

  E taciturne stan sopra l'estinta;

  Come se da improvvise atre procelle

  D'un bellissimo dì la luce é vinta,

  Nubi tinte di rose e di viole

  Fanno corona, pel tramonto, al sole;

 

  Mute cosi, così pensose e meste

  Dell'egra il letto cingono le suore,

  Cui quella calma é nunzia di tempeste,

  E del mal che temeasi un mal maggiore.

  Una soltanto avvien che manifeste

  Segni di gaudio nel comun dolore,

  Ed è colei, la cui prudenza regge

  Quel dedicato a Dio virginio gregge,

 

  La qual, come fu notte alta e profonda,

  Dando a tutte le monache commiato,

  Con Teresa riman, che all'altra sponda

  Sedea del letto in atto addolorato,

  E nel cui cor tanta vergogna abbonda

  Del mattino pel caso inopinato,

  Che aggirarsi finora fu veduta

  Tra le compagne sue confusa e muta.

 

  Ond'or crescendo il turbamento in essa

  Per trovarsi con lei rimasta sola,

  Ne gode in suo secreto l'abbadessa,

  E atto crede quel tempo a un'util scola;

  Però sì accorta, e con voce sommessa:

  — Come sta (le dimanda) la figliuola? —

  — Dorme (l'altra risponde) e quella: —  Oh! resti

  Così per sempre e solo in ciel si desti —

 

  — O madre, esclama subito Teresa,

  Che crudi voti! — Ma colei ripiglia:

  — Taci, sai tu quest'anima, che attesa

  É lassù in cielo di chi mai sia figlia?

  Sul medesimo letto, ov'ella è stesa,

  Morte alla madre sua serrò le ciglia;

  Ma, oh giudizio terribile di Dio!

  Perchè qual muor costei la non morio?

 

  E mentre della lampa il mobil raggio

  Fa mill'ombre danzar sopra le mura,

  Mentre in procinto dell'estremo viaggio

  Dormia la bella vergine secura,

  Mentre tacea il convento, ed il selvaggio

  Urlo del vento empia la notte oscura;

  Porgea Teresa con tremor l'orecchia

  Al dir solenne dell'austera vecchia.

 

  — Gabriella, ripigliò la vecchia a dire,

  Avea vent'anni, e la funesta dote

  Di ciò che di più bello a rinvenire

  O immaginare insieme mai si puote.

  Nella prossima terra, in che, a salire

  Questa nostra montagna, altre percote,

  E che dei Luzzi appellasi, era nata

  Da casa non men ricca, che onorata.

 

  Sola e senz'altra compagnia quassuso

  Un giorno l'empio padre la traea,

  Recando del prelato un foglio chiuso,

  Che di tosto velarla m'imponea,

  Mio malgrado obbedii perchè un abuso

  Quella sùbita fretta a me parea;

  Ma chiesi tempo invan, chè già la faccia

  Di suo padre atteggiavasi a minaccia.

 

  Funesto dì, non mi uscirai di mente!

  Spontaneo il suo venire ella dicea,

  Spontaneo l’atto; e pure (ah! io l'ho presente!)

  In così dire tremava e piangea,

  Tremava come vittima impotente,

  Ed il tremor dissimular dovea;

  Ma quando a Dio per sempre si promise,

  Piombó priva di sensi, e il padre rise.

 

  Presto conobbi, ahimè! ch'ella non era

  Vocata affatto, e che le amiche suore,

  Fra le quali parea come straniera,

  E 'l nostro monastero avea in orrore:

  Pure sperai che il tempo, la preghiera,

  L'altrui consiglio e il mio materno amore

  Quell'anima acquistata avriano a Dio;

  Ma alquanto s'ingannava il creder mio.

 

  Non lacrima, non riso era in quel volto,

  Non colore, non moto: ombrosa e muta

  Assisteva a la chiesa; il cupo, il folto

  Dell'orto amava e del convento; e astuta

  L'inchieste ad ingannar, l'irava molto

  Di esser cercata, seguìta, o veduta,

  Solendo all'altre monache involarsi,

  Girovagare intorno, e sola starsi.

 

  O mia cara Teresa, alme ben ci hanno,

  Che percosse da Dio fansi devote:

  Ma altre, quanto più battonsi, si fanno

  Tanto più tristi e da virtù remote;

  Dal fulmin tocche alcune rupi vanno

  Rotte in ischegge, restan l'altre immote;

  Piglian del ferro la durezza bruna:

  E di tai rupi, ahimè, Gabriella er'una.

 

  E ne pregavo Iddio tutte le sere,

  Quando una notte vision mi scese

  Sul capo, orrenda. Mi parea vedere

  Come Gabriella l'ali avesse prese

  D'una colomba con le penne nere,

  Fuligginose, a ratto vol distese,

  Mentre vociando con lugubre metro

  Ansioso un corvo le correva dietro.

 

  Inorridita, quando si fè giorno,

  Cercandola, nell'orto la trovai,

  Dove vagava ai pergolati attorno,

  E molte cose di Dio le parlai,

  Commemorando l'immortal soggiorno,

  L'infernal pena, che non fina mai,

  La vanità d'ogni terren desio,

  La pace che si trova amando Dio;

 

  E soggiunsi: — A che taci e non m'adocchi?

  Ond'ella dopo avere fiso fiso

  A lungo sopra i miei tenuto gli occhi

  E fattomi di scherno un lieve riso,

  Risposemi: — Non so dove tu tocchi

  Col tuo discorso e qual tu t'abbia avviso;

  Ma al par di tutte l'altre tue sorelle,

  Ben so tai cose. Ah! son pur cose belle!—

 

  Sospirando ripiglio: — E a che, Gabriella,

  Selvaggia e muta vivi tra di noi?

  Ti pesa il mondo che lasciasti? —  Ed ella:

  — Anzi lieta ne son; veder lo vuoi? —

  E quì piglia a cantare una novella

  D'amor profano, e i versi erano suoi;

  Io l'interrompo immantinente, e dessa

  Esclama sogghignando: — Ah! mia badessa! —

 

  Allor dall'ampia valle non discosta

  Dal bosco che circonda la badia,

  S'ode un'altra canzon, la qual risposta

  Alla canzon di lei sembra che sia.

  Ella l'ascolta, nè tener nascosta

  Puote la gioia, e suo contegno obblia,

  Ma ricompone a gravità le ciglia,

  Segni vedendo in me di meraviglia.

 

  Poi quando quel lontan canto si tacque:

  «È l'Eco, o cara madre, a dir riprende,

  L'Eco, che la canzon, che a te dispiacque,

  Si pigliò con amore, e me la rende;

  Ma di': davver la mia canzon ti spiacque?»

  Ed ecco in questa rimbombar s'intende

  Di latrati la selva, a cui si mischia

  L'acuto suon di cacciator che fischia.

 

  Ci guardammo ambedue; poi dissi:—Oh rio

  Tempo ch'è il nostro! Dunque un vagabondo

  In questi luoghi consacrati a Dio,

  Osa portar le vanità del mondo?

  Che cerca ei quì? «Per lui dirottel io,

  Ella risponde: credi tu che in fondo

  A queste selve non si nascondesse

  Nessuna fiera ch'ei cacciar potesse?

 

  Oh mia Teresa! certo l'intelletto

  D'ogni buon'opra l'avversario antico

  Fatta cieca m'avea! di quel suo detto

  Ah! perchè non compresi il senso oblico?

  Qual già d'intorno ad Eva, il maledetto

  Il suo quì fea sentir fischio impudico;

  Benchè in modo diverso: era Gabriella

  Com'Eva infida, e com'Eva pur bella.

 

  E ascolta, e fremi! Della sagrestia

  Al governo preposta, ella per sorte

  Era ragion che avesse in sua balia

  Le chiavi della chiesa, e delle porte;

  Quando un mattino entrò la cella mia,

  E a me parve veder entrar la morte;

  Sì pallida, o Teresa, ell'era, e tanto

  Gli occhi avea gonfi pel recente pianto.

 

  Mi consegnò le chiavi, ed esser tolta

  Al suo ufficiò bramó, nè gliel negai;

  Ma quando altrove uscendo si fu vôlta,

  Io scendo nella chiesa; e che trovai?

  Trovai la suppellettile sconvolta,

  A rifascio gittata, e mi arrestai

  Attonita; ma che? più innanzi a gire,

  Ebbi cagione di vie piú stupire.

 

  Gittata a terra con le sacre bende

  Di nostra madre la statua giacea,

  Che nel passaggio angusto, che si stende

  Tra il muro e il corno dell'altar sorgea.

  Le membra a quella vista orror mi prende,

  E i miei passi rifó, perchè io volea

  In quel medesmo istante, e ad ogni patto

  Da lei sapere la cagion del fatto.

 

  Ma già rinchiusa l'infelice s'era

  Nella sua cella pertinacemente,

  Nè forza di minaccia o di preghiera,

  O d'inedia durata lungamente,

  Valse a far sì che quell'anima fera

  Ci rispondesse almen cortesemente;

  Onde di noi ciascuna era sospinta

  A giudicarla o forsennata o estinta.

 

  Ed erano così tre giorni scorsi,

  Quando una sera giunsene improvviso

  Il padre, a cui non utili rimorsi,

  Ma odii e cupi rancor leggeansi in viso.

  Cercommi di sua figlia; e io a lei lo scorsi,

  E di quanto seguia gli detti avvìso;

  Ond'ei ne venne all'uscio, e lo colpio

  Fortemente gridando: «Apri, son io».

 

 Allora dall'interno al suon feroce

  Risponder s'ode un gemito affogato,

  Qual se il cor ch'avea spinto quella voce,

  Per quella voce fossesi spezzato.

  Apresi l'uscio, e con le mani in croce

  N'esce la figlia innanzi al padre irato

  Che con moto di man, subito, crude

  Ricacciala entro, e insiem con lei si chiude.

 

  E io stando fuori sbalordita e mesta

  Origliava, ed udiva un parlar basso,

  Un bestemmiar confuso, una tempesta

  Di sospir tronchi, un faticoso passo.

  «Ov'é?» chiedeva il padre ed all'inchiesta

  Seguia cupo silenzio, indi un fracasso,

  Indi il cader d'un corpo, indi un frequente

  Ansare; e dopo, io non udia più niente.

 

  Finalmente egli n'esce, ed a me dice:

  «Per sciagure domestiche insensata

  Dal dolore è mia figlia: io l'infelice,

  Perché tentava uccidersi, ho legata.

  «A te l'affido, a me più star non lice»;

  E parlando così, s'accommïata;

  Scendo con lui, gli apro le porte, ed esso

  Si caccia nella selva a noi d’appresso.

 

  Io attonita risalgo, e lei ritrovo

  Che tutta si torcea stesa per terra

  Cercando un laccio a scior, che in modo nuovo

  Le man, la bocca, ed ambi i piè le serra.

  Io a sciogliere quei nodi invan mi provo,

  Alfin li taglio, ed ella a me s'afferra

  Saltando in piè; si morde il labro a sangue,

  Libra la lingua rapida com'angue:

 

  «Ei me l'ucciderà; me piglia pria

  Morte ed inferno!» esclama la furente,

  E di mano sgusciandomi va via

  Per la finestra rovinosamente.

  Corre, vola per l'orto, e ne salia

  Già l'alte mura, e ne scendea repente,

  Quando il cupo tonare ad una volta

  Di due fulminatrici armi s'ascolta.

 

  Un urlo eleva allor la sventurata

  Qual credo che il piú bell'angel di Dio

  Mettesse quando su di sè piombata

  Tutta del duol l'eternitá sentio.

  Ruggì qual rugge l'anima dannata,

  Che di sue colpe va a pagare il fio.

  Al par dell'uno, al par dell'altra apparve,

  Fatta tutta di fuoco, e poi scomparve.

 

  Ed oh! del grand'Iddio bontà infinita!

  Chi mai dopo gli orror di quella sera

  Potea sperar che a spander luce e vita

  Ripreso avrebbe il Sol la sua carriera?

  Eppure la riprese, eppur fiorita

  La terra riapparì come prim'era,

  Sebbene al ciel di sangue umano il fumo,

  Salisse dei suoi fior misto al profumo.

 

  Chè nato il nuovo dí, nella foresta,

  Il padre ed un garzon trovammo estinto;

  Stringeano l'armi ancora, e manifesta

  Facean l'ira ch'entrambi avea sospinto:

  L'uno colpito al cor, l'altro alla testa

  D'un soave pallore era dipinto

  E gli piangeano attorno i fidi cani

  Or fiutandogli il viso, ora le mani.

 

  Dopo quel caso nove volte avea

  In ciel la luna rinnovato il corno;

  E poiché null'affatto s'intendea

  Dell'apostata donna in quel dintorno,

  N'era dal cor caduta, e si credea

  Che vinto avesse già l'ultimo giorno,

  Vinta dalla stagion, ch'aspre di gelo

  Le campagne avea fatto e grigio il cielo

 

  Quando una notte che dormia il convento,

  Ed io memor di lei per lei pregava,

  Odo, tra il freddo sibilar del vento

  Che le chiuse finestre ci schiantava,

  Una voce di femmina, un lamento,

  Che da laggiú della badia s'alzava;

  Scendo le scale, ratta accorro fuori,

  E pensa or tu quello che vidi allora.

 

  Terso qual suole nel più freddo inverno,

  Scintillante per mille astri, e pel pieno

  Disco lunar, faro d'un mondo eterno,

  Si curvava alla terra il cielo in seno,

  Che coperta di nevi, ove il superno

  Fulgor feria con reduce baleno,

  Parea l'ago bianchissimo di cui

  Fosse scoglio il convento, e cigni nui.

 

  A piedi del cipresso, onde riceve

  Ombra l'atrio del tempio e la sua croce,

  Vidi allora una donna in sulla neve

  Seduta in attitudine feroce,

  Feroce e stanca, come di cui greve

  Disperato dolor l'animo cuoce,

  La quale contemplava amaramente

  Quel riso, in terra e in ciel sparso egualmente.

 

  Alla mia voce si riscuote e ratto

  Sulle nevi strisciandosi carpone,

  D'accostarmisi prova; ma ad un tratto

  Le vien meno la forza, e va boccone.

  Allora, e fu così pietoso l'atto

  Che la memoria innanzi ognor mel pone,

  Erse il viso, mostrando al viso afflitto,

  Che grave il grembo avea del suo delitto.

 

  Tosto a quel viso benché scolorato,

  Benchè per fame e duol tutto sparuto,

  Riconobbi Gabriella, che gridato

  Avea dianzi col vento, e chiesto aiuto:

  «Dunque sei tu, figliuola del peccato?

  Dunque sei tu, dal cielo angiol caduto?

  Sei tu d'inferno velenoso acquisto?

  Sei tu, tu sposa adultera di Cristo?»

 

  Cosi le dissi, ed ella: «O madre mia,

  Se credi in Cristo, e al par di me tradire

  Nol vuoi, per pochi istanti asil mi dia

  Il tuo convento. A me non cal morire,

  Nè dov'o muora, no; ma in breve sia

  Ch'io qui mi sgravi. Lascerai perire

  Tu la mia prole? Già qual duol d'inferno

  M'ange, sicché mi uccide il duol materno».

 

  O mia Teresa, fu su questo letto,

  Dov'ora giace Eugenia addormentata

  Che nacque Eugenia! Con insano affetto

  A sé la trasse appena che fu nata,

  Ed anelando, e lagrimando al petto

  Se la serrò la madre sventurata;

  Fissandola con l'occhio moribondo,

  Mesto per lasciar lei, ch'era il suo mondo.

 

  Poi me la porge, e mentre io me la prendo:

  «Ecco, dice, mia figlia, a te l'affido;

  Nè quì, né altrove rivederla attendo;

  Da lei per tempo eterno or mi divido,

  Abbia in te la sua madre: io la commendo

  Alle tue cure. A me fu il mondo infido,

  E or che ne sono sull'estremo passo

  Veggio la vanità di quel che lasso.

 

  E mi giura però che tal cresciuta

  Sarà la figlia mia, che la sua mente

  Ignori il mondo e l'uom; le sia taciuta

  L'origin sua; non sappia parimente

  Me, ed il mio nome: non sarò veduta

  Da lei nell'altro mondo certamente.

  Or io scendo all'inferno, ell'andrà a Dio:

  Onde a che pró saprebbe il nome mio?»

 

  Gabriella, io dissi, se così ti pesa

  Separarti da questa orfana figlia,

  Ecco il confitto Dio, ch'ogni sua offesa

  Ti perdona, e a pentirti ti consiglia,

  Invocalo: nel ciel ti sarà resa

  Questa fanciulla ch'or da te si piglia:

  Se tu contrita gliene dai la cura

  Da questo mondo puoi partir sicura»

 

  Ed ella: «Di' al tuo Dio che parli ei stesso;

  O ha bisogno d'interpetre? Od ignora

  La mia favella? Ciò credetti io spesso

  Quando rea, sì, ma non caduta ancora

  In forza gli chiedea pel cuore oppresso;

  Perchè fu sordo, nè m'intese allora?

  Da me or che vuole? Quel ch'è fatto è fatto;

  Non con lui, con Satanna ora è il mio patto.

 

  Vuol ch'io mi penta? Ah! non avrà tal vanto.

  Era una notte; a turpi affetti schiava

  Sentiami l'alma; dormivate, e intanto

  Il mio fallo a compir m'incamminava;

  Giungo alla chiesa; passar debbo accanto

  All'ara, a Santa Chiara; il piè m'aggrava

  Un subito terror; dubbio, m'arresto...

  Oh inferno! ancora era il mio core onesto.

 

  Io non cadeva, o madre, io non cadea,

  S'allora un guardo, un cenno, un movimento

  In quella statua, o madre mia, vedea.

  Essa stié immota? Ed io passo, e divento

  Contaminata; ma al tornar ch'io fea

  Di nuovo accanto a lei la sua man sento

  Affogarmi la gola. Oh maledetto!

  D'un mal, che tor potea, togliea vendetta!

 

  Madre, io la rovesciai, lottai con lei,

  Com'ora lotto, e fo spietata guerra

  Con l'alma mia, la qual scagliar vorrei

  Oltre i confin del cielo e della terra.

  Ora vadano al nulla i pensier miei,

  Nè curo il loco, ch'otterró sotterra.

  Non avró forse, se all'inferno cado,

  Requie nel fondo? Dove vado, vado.

 

  Si; dove vado, vado: assai soffersi,

  E una pace sarà per me l'inferno.

  Per nove mesi nei boschi mi spersi,

  D'erbe solo nutrita in crudo verno.

  Vissi tra fiere; i miei pensier pur fersi

  Selvaggi, non curanti dell'Eterno;

  E pur tutto ero nata per amare,

  E bello era per me ciel, terra, e mare.

 

  Ed or tutt'odio, e d'odio m'alimento;

  Vorrei che terra e ciel crollasse meco.

  Se amore eterno rende il ciel contento,

  L'odio rallegra al par l'abisso cieco,

  Com'or felicità non avrò drento,

  S'odiar potrò dal luogo ove mi reco?

  Griderò contro il cielo e chi l'ha fatto,

  Maledirò quel Dio, che a tal m'ha tratto»

 

  Così quell'infelice, o mia Teresa,

  Moria maledicendo, o maledetta.

  Oh tristo fine di chi al mondo intesa

  Turpe fiamma d'amore ebbe concetta!

  Or tu al Signore, che per man t'ha presa,

  E sollevata fuor da quest'infetta

  Val del mondo, che obbligo non hai?

  Quai grazie non dei dar, che tu non dai? —

 

  Qui tacque la Badessa, e si piacea

  Della buona Teresa, che ascoltato

  Or lacrimando, ed or fremendo avea

  Dell'apostata suora il tristo fato.

  Per gli spiragli intanto ivi rompea

  Il primo raggio del mattin rosato,

  E s'estinguea, guizzando, a poco a poco

  Della notturna lampa il lume fioco.

 

  Onde Teresa, la finestra aperta

  Al lustro adulto della nuova aurora,

  S'accosta al letticciòlo, ove coverta

  Crede l'Eugenia sua che dorma ancora;

  La contempla, la palpa, e: — Oimè, diserta!

  O madre, esclama, ahi che di vita è fuora! —

  Dice, e del letto cade sulle sponde,

  E la Badessa: — Grazie a Dio! — risponde.

 

  Al grido di Teresa accorre presto,

  Indovina del caso ogni sorella,

  E sul guanciale la riversa testa

  Rimirando di lei fatta più bella,

  Divien di marmo, e bianca e fredda resta

  Priva di movimento e di favella,

  Finchè volar vedendo a sè d'accanto

  Una farfalla, scoppian tutte in pianto.

 

  Perocchè, fosse caso, ovver divino

  Volere, quivi una farfalla apparse:

  Pria girò per la stanza, e 'l peregrino

  Volo sopra Teresa andò a librarse,

  Indi spiccossi; al raggio porporino

  Del mattin corse incontro, e via disparse;

  Attonito affacciossi il vergin stuolo

  Alla finestra, e ne seguiva il volo.

 

  — Che guardate, o figliuole? E’ dessa, é dessa;

  Sei tu, della mia Eugenia alma innocente,

  Che al regno eterno ove il gioir non cessa

  Spingi con lieve vol l'ala fulgente. —

  Così dice soltanto la Badessa,

  E 'l verginale stuolo a lei credente

  Torna ad Eugenia, e volti gli occhi al cielo

  Ne asciugano le lagrime col velo.

 

  Di poi desiando l'osservanze estreme

  Rendere a chi fu lor delizia e cura,

  S'affretta ognuna, a tutte l'altre insieme,

  E di vestirla, e di adornar procura.

  Chi con serto di rose il crin le preme,

  Chi un crocefiso ponle alla cintura,

  Chi del feretro alluma attorno attorno

  Candide cere a fare più bello il giorno.

 

  A quel ferétro si sobbarcan preste

  Quattro fanciulle, ed anche a te vien dato

  Aver loco, o Teresa, in mezzo a queste,

  E sottopor le spalle al peso amato.

  Con occhi bassi l'altre suore meste

  Precedono in lungo ordine serrato,

  Mentre che la Badessa eleva un canto,

  Cui risponde lo stuolo tutto quanto:

 

  Sia il canto sommesso — sia il passo leggero,

  Perché non si svegli — quest'angelo vero,

  Perchè non si svegli — dal sonno profondo

  La bella fanciulla — che parte dal mondo.

 

  Qual ape dorata — su candida rosa

  Un angiol nell'alma — di lei si riposa,

  Riposa e passarle — fa innanzi alla mente

  D'amabili sogni —  una schiera ridente;

 

  Di sogni soavi, — siccome i sottili

  Dell'aurea sua chioma — lunghissimi fili,

  Che il Sol tramontando — per nuvole opposte

  Dardeggia alle valli — dardeggia alle coste.

 

  Or sogna elevarsi — con placidi giri

  Pel cielo, e sul cerchio — danzare dell'Iri,

  Di concava nube — formarsi un battello,

  E andare da un mondo — a un mondo piú bello.

 

  Or sogna che un angelo, — scuotendo le sfere

  Glien faccia su capo — le stelle cadere,

  Ed una all'orecchio — un pendente gentile,

  E dieci le formino  — alla gola un monile.

 

  Or sogna rapire — dell'alba il mantello,

  Aver sotto i piedi — la luna a sgabello,

  Vestirsi una veste — di rose e di viole,

  In man palleggiare — lo globo del sole.

 

  Felice, chè vere — ritrova al destrarse

  Le immagini belle — nel sogno comparse!

  Felice, chi il letto — dov'era addormita

  Cercando, si trova — con Cristo riunita!

 

  Sia il canto sommesso — sia il passo leggiero,

  Perchè non si svegli — quest'angelo vero;

  Perché non si svegli — dal sonno profondo

  La bella fanciulla — che parte dal mondo.

 

  Ed io, seduto un dì sulle rovine

  Dell'antica badia, chiedeva attento

  All'eco delle selve, che vicine

  Mesceano i lor sospiri a quel del vento,

  Il suono ancor di tai voci divine,

  E apparire sparire in un momento

  Vidi quai larve quelle suore, e dissi:

  Quanto son vaghe! e la lor storia scrissi.

 

FINE

 

 




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