II
Venezia
Giungemmo allo
scalo di Venezia alle ore 10 e 15 minuti di sera.
Il mio compagno di viaggio cercava un omnibus a due cavalli per
andare all’albergo; e masticò un tantino, quando seppe che doveva andare in
barca.
Nel mettere il piede sulla gondola egli dalla confusione fu lì lì per
sdrucciolare nell’acqua. Siccome le gondole sono coperte di drappo nero, ed
hanno fiocchi e frangie di seta nera, nell’entrare dentro la gondola ci parve
di entrare in un catafalco, e poi di trovarci in una berretta da prete.
Prendemmo posto nella gondola, la quale si mosse. Era un andare misto di
velluto e di giulebbe. Esso ristorava le fibre scosse dal tremito del
convoglio.
- Che silenzio! - esclamò il mio segretario comunale.
E potè esclamare così a ragione, egli che è uso ad abitare nel nostro
villaggio in Via del Mulino americano, dove i vetri delle sue finestre
ballano continuamente al passare dei carri.
- Che silenzio! - seguitava ad esclamare il mio segretario comunale.
I palazzi sorgevano dalle acque nel silenzio e nella notte come ombre di
nuovo genere, come ombre solidificate.
Non ci pareva vero che le gradinate delle chiese potessero dare nell’acqua,
e che si potesse andare a messa in barca...
- Non si vede niun passeggiero - osservò il mio segretario.
- Sfido io! - risposi. - Sfido i Veneziani a passeggiare sull’acqua, se non
posseggono il mantello miracoloso che San Giuliano distendeva sul lago d’Orta
per girellarvi sopra.
- È vero - ripigliò il segretario.
E poi,
tacendo, si ripiegava, dava indietro nel cantuccio della gondola, come moccolo
che volesse spegnersi. Quindi si riaccendeva:
- Signor sindaco?
- Che cosa?
- Ho paura. Nella stessa maniera che vi sono dei topi d’acqua, non
potrebbero esserci dei ladri d’acqua che venissero ad assaltarci? Eh? E noi non
abbiamo nemmanco un pesce-carabiniere per difenderci! -
Io mi misi a ridere.
Le voci dei gondolieri, che si incontravano, le tuffate dei remi rompevano
il silenzio, e vi guizzavano dentro. Alcune finestre, rivelatrici di lumi, ci
dicevano che quei palazzi erano veri palazzi, e non ombre pietrificate; e che
dentro quelle camere c’erano dei babbi e delle mamme e delle giovani veneziane.
A forza di dimorare nel silenzio ci pareva di sentire dei bisbigli. Erano
bisbigli, e illusioni di bisbigli. E mi perdoni la moglie Giacomina! Ma quel mistero,
quel silenzio, e poi quei bisbigli autentici o no mi hanno fatto proprio
pensare alle belle e giovani Veneziane.
Dopo mezz’ora di gondola, approdammo all’albergo della Luna, dove fu
alloggiato Silvio Pellico, prima che egli andasse alle sue Prigioni.
Fatto un boccone di cena, uscimmo dall’albergo a passi circospetti per
timore di scivolare nell’acqua alla sprovveduta.
Passammo sotto un atrio.
Il mio segretario si levò il cappello, come entrasse in una sala di
conversazione. Eravamo entrati nella piazza di San Marco.
Che bella conchiglia quella piazza! La traversammo e poi ci mettemmo a
camminare sotto i portici che la dintornano. Allora noi uominacci credemmo di
essere tortore, mormoranti sotto i merletti di una signora.
Entrammo in un caffè, dove trovammo dei salotti piccini e vellutati, che ci
sembrarono interni di gondole.
Ritornammo alla Luna per andare a letto: ma prima che mi
addormentassi, il segretario comunale volle ancora regalarmi la seguente
osservazione: - A Venezia ci sarà un solo cavallo, come rarità, nel Museo
Vivente; e scommetto che lo manterranno a pesci -.
Io smorzai il lume, e gli augurai buona notte.
Il mattino seguente ritornammo subito sulla piazza di San Marco; e vedemmo
la manovra dei piccioni storici.
Se qualcheduno si appresta a gettar loro del becchime da mangiare, essi
volano dalle tegole e dai piombi, a frotte affamate, verso chi fa loro carità.
Allargano un cerchio di piazza intorno a lui, muovono le ali, la coda, tuffano
il becco; con le loro movenze fanno degli effetti di onde, di applausi e di
pioggia... Poi si uniscono in una catena, in un drago, in un solo mostro
volante verso il loro benefattore: lo cinghiano per aria, salgono sui suoi
calzoni, sulla sua giubba, sulle sue spalle, sulla sua testa...
È uno spettacolo di una ridda famelica, che secondo il mio segretario
comunale, non può avere altri riscontri fuorché in una certa venuta di
flebotomi nel villaggio da me amministrato.
Essendo rimasto vacante il posto di flebotomo nel nostro paese, con
duecento lire di stipendio per i poveri, senza alloggio e senza legna, - io ed
il segretario abbiamo fatto pubblicare una sola volta l’annunzio di concorso
sull’Omnibus della Gazzetta del Popolo. Ebbene! Bastò quel misero
annunzio in carattere piccolo, perché si presentassero sulla soglia del mio
gabinetto da sindaco sessantaquattro flebotomi, e tutti sitibondi di sangue,
come i piccioni di San Marco sono affamati di panìco. Se ricettavamo tutti i
sessantaquattro flebotomi nel nostro villaggio, non rimaneva più nemmeno una
goccia di siero nelle vene dei miei amministrati!
Dopo i piccioni adocchiammo la chiesa di San Marco - a nuvole orientali, a
mezzelune moresche -; poi i palazzi che portano in testa un cornicione largo e dignitoso
come un diadema; quindi mettemmo il naso contro le vetrine degli orefici, nelle
quali si ammirano le dorerie maritate galantemente allo smalto e alla
venturina.
Montammo sul campanile di San Marco, non per le gradinate di una scala a
chiocciola, come capita negli altri campanili, ma per una salita dolce e larga
al pari di una strada maestra, tanto che potrebbero pigliarla anche i cavalli e
i ruotanti di ogni specie.
Dall’alto del campanile vidi le montagne che mi ricordarono il mio comune,
vidi la marina tremolante, color di stagno, in lotta con i raggi del sole; e
poi le chiese, i palazzi, i quartieri di Venezia, che covano nella laguna, come
anitre nelle alghe.
Ridisceso in piazza, comperai delle cravatte di vetro filato, da regalare
alle cugine, e mi fermai eziandio davanti un negozio di Selenografia, cioè
di prospetti e di disegni veneziani colti al chiarore della luna.
- Nella nostra Italia montuosa e prosaica - osservai al mio segretario - si
vendono le rape, i cavoli e le castagne; qui nell’Italia artistica si vende
anche la luna -.
I titoli delle vie e dei viottoli sono scritti in dialetto veneziano; come
già si compilavano in dialetto i processi verbali del Senato della Repubblica
Serenissima:
Calle del Doge - Salizzada Sant’Antonin, e poi certi nomi gentili come macelli:
nomi che fanno venire il sangue in saccoccia: Campo della Morte - Calle
degli Strozzadi, e giù di lì.
Alla mia partenza da Venezia, le finestre dei palazzi, i parapetti dei
ponti, le ombre dei traghetti, mi mandarono nuovi bisbigli di genere femminile:
onde io, mi perdoni un’altra volta mia moglie! io mi dilungai in gondola dalla
città acquatica, pensando a una Veneziana ritta come una antenna e fulgida come
un pesce dorato di una vasca signorile.
Delle diciannove ore di vapore, che mi asciugai da Venezia a Roma, ho
pochissime cose da notare: l’effetto notturno della neve bolognese che nuotava
nel buio di fuori, vista dal chiarore giallo del vagone; - il profumo di una
signora, così acuto, che io, inzuppatene la mia pezzuola, sperai di farlo
sentire a mia moglie, dopo un mese, nel ritorno; - l’ingombro dei nostri
onorevoli deputati, i quali viaggiando gratis fecero restringere e
dinoccolare me, che viaggiavo a mie spese, per servire il paese più di loro:
tutte cose che farebbero la loro discreta figura; se fossero descritte da uno
scrittore del mestiere, ed invece non valgono un cece, quando sono raccontate
da un sindaco di campagna, come è il vostro devoto servitore.
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