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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • IV La bellezza romana e il cielo di Roma
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IV*

La bellezza romana e il cielo di Roma

 

Alle donne di Roma mando un saluto con maggiore rincrescimento di quello che abbia sentito nel dire addio alla campagna romana o alle cuspidi dei bufali.

Domando scusa per la terza ed ultima volta alla moglie, se insisto troppo sulle donne d’altri; e mi difendo dietro un paravento, cioè dietro un proverbio poetico, che dice: La moglie, il bel non toglie.

E le donne a Roma sono veramente belle.

Io le distinguo in tre classi: . Romanone; . Romane; . Romanine.

Le Romanone sono barricate, che stoppano un viottolo e fanno scuro in una sala.

 

 

Le Romane sono anch’esse troni e dominazioni, messe dentro al figurino di Parigi.

Le Romanine sono donnette svelte, con occhi da Beatrice Cenci, con andature da serpente del paradiso terrestre. Hanno le spalle che colano dolcissime sotto uno scialle rigatino; vanno in capelli, cioè non portano niente sulla loro testa, bionda o castana, e più spesso nera o rossa. Queste Romanine abbondano in Trastevere, dove si vedono a circoli e a righe nei corridoi e nelle camere terrene, mentre dipanano matasse e fanno frullare arcolai; sono montigiane, abitatrici dei famosi monti di Roma, i quali in Piemonte non si chiamerebbero nemmeno colline; sono granarole, cernitrici di grano, le quali di buon mattino traversano il ponte sotto castel Sant’Angelo, avviate ai magazzini; sono modiste, crestaine, le quali si trovano in ogni parte di Roma, ecc., ecc.

Il maggior pregio della forma muliebre a Roma è la purezza delle linea e della curva. Difficilmente si notano nelle donne romane quei menti piatti da Arlecchino di legno, e quelle stecche di busto, sprazzate dai fianchi che paiono saltare negli occhi di chi le guarda.

Forse quella purezza di curve sarà a danno del sentimento, ciò che non posso asseverare, non avendolo saggiato né in peso né in misura. Gli è però certo in teoria, che il sentimento è una fermata agli angoli bruschi. E di angoli bruschi le donne a Roma non ne hanno proprio niente.

Oltre le Romane, le Romanine e le Romanone vengono di fuori a passeggiare per Roma le Ciociare, vestite in costumi teatrali, alcune delle quali sono balie, altre venditrici di verdura, e le migliori sono apocrife - modelle di pittori.

 

Anche la romanità mascolina è bella. Vi sono nella Guardia nazionale a cavallo delle barbe, che fanno impallidire, considerate come capi d’arte: si veggono nei caffè e davanti gli spacci di vermutte torinese al Corso certi persononi, certi torrioni di giovanotti spettacolosi, in cui non saprei, se dovrebbesi lodare di più l’abito o il monaco, imperocché l’abito inappuntabile aiuta sicuramente il monaco, e d’altra parte la formosità del monaco fa lumeggiare viemmeglio l’abito e lo splendido cappello a cilindro.

Vi sono fra gli scolaretti e i lustrini dei fanciulli apollinei.

I campagnuoli, i quali danno latinamente del tu, portano dei cappotti foderati di verde, che domandano alla vacchereccia. Ebbene, camminando con quei cappotti, essi fanno fra le gambe e sulle ginocchia delle pieghe e dei panneggiamenti addirittura romulei - statuari - da toga, da clamide antica.

Insomma la forma dei Romani e delle Romane è ottima; ed a ragione io l’ho sentita invocare trionfalmente da un mio amico in uno dei tanti meetings di Roma o morte, che si facevano prima del settanta.

- Come! signori ministri!! - strillava il mio amico con gesti brofferiani - Come! Ricusate condurci a Roma sotto il pretesto che vi sia la malaria! Menzogna! Menzogna! Le popolazioni, con la loro forma e con la loro salute, rispondono del loro clima e del loro ambiente. Ora la bellezza e la prosperità delle donne romane sono fra le nostre glorie italiane più pure e meno disputate. È un proverbio italiano: la bellezza e la prosperità delle donne romane. E questa bellezza, questa prosperità si torcono in una poderosa smentita, riescono una fiera protesta contro la vostra politica e contro la vostra malaria, o signori ministri! - (Applausi frenetici ed approvazione per acclamazione di un ordine del giorno, che ingiungeva ai signori ministri di condurci subito a Roma, senza mezzi morali e senza patti con i Francesi - ed analogo telegramma al generale Garibaldi -).

 

Come mai potrebbe riuscire brutta, l’umanità sotto il cielo di Roma?

È un cielo alto, largo, di un azzurro carico, massiccio, trionfale; è un cielo eloquente, a periodi di Cicerone.

A qualcheduno dei miei amministrati sembrerà che il cielo, questa massa di atmosfera, che fa la funzione e la finzione di volta, dovrebbe, come lo Statuto del regno, essere uguale per tutti.

Eppure non è così.

Il cielo per i miei amministrati di Monticello è duro, cosicché pare a loro, che se potessero salire in su, sopra un globo aerostatico, a darvi una capata, si fracasserebbero le tempie, e si farebbero una ferita di chirurgia straordinaria, non compresa nell’abbonamento del medico condotto.

Invece il cielo di Roma è morbido; esso invita, tira e riceve. E non dispiacerebbe a chi guarda quel cielo gli toccasse la sorte di un profeta della Bibbia; essere colto da una carrozzella aerea, ed essere menato a svolazzare frammezzo a quel blu.

 

Il cielo di Roma, che piacque tanto a me, non dovrebbe dispiacere nemmanco a un politicone, a un deputato, che viva di interrogazioni al ministero, di ordini del giorno e di inchieste. Esso dovrebbe tirar fuori qualche scintilla anche al mio droghiere di Monticello, il quale non conosce altre figure artistiche fuorché i fregi litografici dei bottelli impiastrati alle sue scatole, e non conosce altra letteratura all’infuori dell’elenco delle droghe vive, e degli articoli della Sciarpa Rossa; a cui è associato.

Di libri nuovi egli, il droghiere, non vuol sapere; perché secondo lui si è già scritto tutto, e, aggiunge, fin troppo. E tratta i letterati quasi come scrocconi ciarlatani. E chi sa quanti in Italia pensano come il mio droghiere!

Ma io no! Io, sebbene sindaco di un villaggio, sono un po’ dilettante di arte e di letteratura, in cui cerco di infarinarmi un tantino, come spero ve ne siate già accorti; compero dei libri nuovi, e faccio tutto quello che posso per capirli.

È per ciò che mi sono intenerito del cielo di Roma, ed avrei voluto mangiarlo, salvandone però una fetta da portare ad assaggiare a mia moglie

Quel cielo intenerì anche Pier Carlo Boggio, e lo mise in vena di scrivere delle pagine liriche nelle Note del suo viaggio a Roma, che egli fece nel 1865, pigliando da Nunziatella a Termini la diligenza Marignoli.

Povero Boggio! Povero nostro deputato! Chi sa quali passi avrebbe fatto a quest’ora nella vita politica se non fosse andato in bocca ai pesci!

 

Il cielo di Roma è dolce come un tepidario; profila magnificamente ciò che gli batte incontro: le ondulazioni delle colline, la riga della marina lontana e il cupolone di San Pietro.

Ah! Il cupolone di San Pietro, l’abbocco a momenti.

 

 




* Ci è mancata la lettera n. III.




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